giovedì 3 maggio 2018

Diario di un calcagno - Giorno 1


Il chirurgo non ammetterà mai di avere sbagliato qualcosa, mai constaterà che l’intervento non sia stato svolto alla perfezione: in difetto è sempre il paziente, col suo fisico inetto. Colpa del mio calcagno anomalo, dei miei macrofagi oziosi, dei miei tessuti smunti se il dolore, anziché attenuarsi, è andato via via crescendo – tanto da impedirmi non solo di correre, ma anche di camminare decentemente. Un dolore diverso da quello che mi tormentava da mesi, in una diversa posizione; un giorno lancinante, il giorno dopo affievolito, poi di nuovo acuto. Che strano, mai vista una cosa così, non ci era mai capitato…
Serviva dunque un’eccezione che confermasse la regola? Eccomi qui, a sentirmi dire che l’unica soluzione è ripetere l’operazione: un buchino qui, uno là, in dieci minuti sarà tutto risolto. Ma tutto cosa? Dopo la prima esperienza, come potete pensare che abbia voglia di intraprendere un altro calvario, col terrore che risulti ancora una volta inutile o che, addirittura, possa ulteriormente peggiorare? Perché reagisco così? Perché mi avevano assicurato che nel giro di due o tre mesi sarei tornata a correre, invece mi ritrovo zoppa; perché se ero fiduciosa prima, ora sono indignata; perché se devo dire addio alla corsa, meglio mi risparmi altre sofferenze.
Poi ovviamente finisce che ti lasci convincere: non può andare sempre male, vale la pena provarci.

Appuntamento alle 7,30 per gli esami pre-operatori, stavolta si fa tutto in giornata. Una calca di gente invade il corridoio, al cospetto di una scrivania occupata dall’addetta allo smistamento degli appuntamenti. Tutto in ordine sparso, cioè in totale anarchia: l’erogatore automatico dei numeri ha smesso di funzionare, così si perde qualsiasi senso delle priorità. C’è chi deve essere ricoverato in giornata e chi no, ma quella che effettua i prelievi non segue alcun criterio: la giovane ragazza sembra anzi sull’orlo di una crisi di panico. Finalmente, la signora in camice verde che da almeno un’ora sta lambiccando con lo strumento che pare abbia generato il caos, si rende conto che la situazione è ormai prossima al collasso, quindi decide di rendersi utile. Un colpo di genio! Stabilito che i pazienti più prossimi al ricovero debbano avere la precedenza, inizia anche lei a riempire fialette di sangue. Così, dopo circa un’ora e mezza in piedi davanti ad una porta, posso passare all’altro ambulatorio per la visita cardiologica – almeno questa risolta in un baleno. Scendo quindi al primo piano: altra sala d’aspetto, altra attesa infinita. Quando finalmente arriva qualcuno che mi mostra la mia stanza e il mio giaciglio, vengo anche informata che mio marito potrà entrare solo dopo l’intervento, per quale ragione non si sa, è la regola. Stando così le cose, torno a sedermi accanto a lui, non posso proprio pensare di mettermi a letto a guardare il soffitto fino a chissà quando – tanto più che la compare di stanza non è proprio una compagnia allettante: coperta come una mummia, non ho capito se aspettasse l’operazione o la rianimazione. Cerco di distrarmi con le parole crociate. Ho freddo, ho paura, ho tanta sete. Si presenta una dottoressa che mi sottopone al solito interrogatorio: età, peso, altezza, allergie, malattie, bla bla bla. Posso tornare ai cruciverba. Mi chiamano dall’altra corsia, stavolta è l’anestesista: stesse domande e, finalmente, una risoluzione: sarò la prossima, posso andare a prepararmi.
Camice, cuffia e mi infilo nel letto che sarà spinto fino all’ingresso della sala operatoria. Tremo all’idea dell’ago che mi infileranno nella schiena per addormentarmi dal bacino in giù, e mi stupisce che stavolta mi posizionino subito prona sul lettino, collegata ai macchinari che registrano le mie funzioni vitali. Incredibilmente, mi assopisco, ed è la voce del chirurgo a rendermi nuovamente vigile: realizzo che stanno già lavorando sul mio calcagno. Ma come, senza anestesia?! Figurati, saresti saltata come una mina. L’abbiamo fatta locale. Questa è una notizia meravigliosa! Non ricordo sensazione più sgradevole delle gambe paralizzate per ore, dei muscoli che non rispondono ai comandi. Riposti i ferri, il chirurgo mi regala una “foto” del mio tallone. Di calcagni ne abbiamo visti a centinaia, ma mai uno così. Sarà. Diciamo che avrei preferito un apprezzamento diverso. 
Ma ora devo concentrarmi su di me, sulle mie (scarse) certezze, sulle (tante) paure da sopprimere. Mi riportano in stanza, posso finalmente bere e farmi coccolare. Sono da poco passate le 14, mi aspettano una sera e una notte lunghissime. Per quanto mi sia attrezzata con tappi auricolari e mascherina per gli occhi, so bene che sarà difficilissimo dormire. Il piede si risveglierà e comincerà a dolere, la flebo attaccata al braccio condizionerà la posizione, i nervi tesi amplificheranno rumori, luci e, soprattutto, pensieri. L’ambiente non aiuta. Dalle altre camere arrivano i volumi assordanti dei televisori, mi chiedo come questo sia permesso in un ospedale. Lo faccio presente ad un’infemiera, ma poco cambia. L’unica difesa è chiudere la porta, ma i miei nervi sono ormai a fior di pelle. Tesa, stanca e debole. Meno male che si cena presto. E che cena! Mi sono spesso domandata chi componga i pasti per i degenti, dove abbiano studiato certi nutrizionisti (ammesso che di nutrizionisti si tratti). Per una vegetariana, poi, non c’è scampo: solo carboidrati, ovviamente raffinati. Stasera il menu offre riso in bianco, patate e spinaci, pane bianco e una banana. Dopo un giorno intero a digiuno, mangio le verdure e poco riso, mentre la banana la tengo per colazione (quando la scelta sarà tra fette biscottate con marmellata e biscotti,100% zuccheri). Sopporto, è solo un giorno. Riesco persino a dormicchiare. La mattina è veloce, il chirurgo arriva di buon ora a togliermi le bende insanguinate, sostituendole con nuove garze e nuova fasciatura. Restano i tubini di drenaggio, fino a domani, quando dovrò tornare qui a farmi medicare e a sentirmi dire non voglio vederti più – che mi sia già stato ribadito diverse volte è solo un dettaglio.
Il foglio di dimissioni parla di “carico consentito”, quindi potrei già camminare. Ma non ci provo nemmeno, decisamente troppo presto. Le stampelle sono con me. Poi si vedrà.


2 commenti:

Gianmarco Pitteri ha detto...

Io faccio il tifo per te (e per il calcagno!)...

Valentina ha detto...

Ne ho bisogno...

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