Il
chirurgo non ammetterà mai di avere sbagliato qualcosa, mai constaterà che
l’intervento non sia stato svolto alla perfezione: in difetto è sempre il
paziente, col suo fisico inetto. Colpa del mio calcagno anomalo, dei miei
macrofagi oziosi, dei miei tessuti smunti se il dolore, anziché attenuarsi, è
andato via via crescendo – tanto da impedirmi non solo di correre, ma anche di
camminare decentemente. Un dolore diverso da quello che mi tormentava da mesi,
in una diversa posizione; un giorno lancinante, il giorno dopo affievolito, poi
di nuovo acuto. Che strano, mai vista una
cosa così, non ci era mai capitato…
Serviva
dunque un’eccezione che confermasse la regola? Eccomi qui, a sentirmi dire che l’unica
soluzione è ripetere l’operazione: un buchino qui, uno là, in dieci minuti sarà
tutto risolto. Ma tutto cosa? Dopo la prima esperienza, come potete pensare che
abbia voglia di intraprendere un altro calvario, col terrore che risulti ancora
una volta inutile o che, addirittura, possa ulteriormente peggiorare? Perché
reagisco così? Perché mi avevano assicurato che nel giro di due o tre mesi
sarei tornata a correre, invece mi ritrovo zoppa; perché se ero fiduciosa
prima, ora sono indignata; perché se devo dire addio alla corsa, meglio mi
risparmi altre sofferenze.
Poi
ovviamente finisce che ti lasci convincere: non può andare sempre male, vale la
pena provarci.
Appuntamento
alle 7,30 per gli esami pre-operatori, stavolta si fa tutto in giornata. Una
calca di gente invade il corridoio, al cospetto di una scrivania occupata
dall’addetta allo smistamento degli appuntamenti. Tutto in ordine sparso, cioè
in totale anarchia: l’erogatore automatico dei numeri ha smesso di funzionare,
così si perde qualsiasi senso delle priorità. C’è chi deve essere ricoverato in
giornata e chi no, ma quella che effettua i prelievi non segue alcun criterio:
la giovane ragazza sembra anzi sull’orlo di una crisi di panico. Finalmente, la
signora in camice verde che da almeno un’ora sta lambiccando con lo strumento
che pare abbia generato il caos, si rende conto che la situazione è ormai
prossima al collasso, quindi decide di rendersi utile. Un colpo di genio!
Stabilito che i pazienti più prossimi al ricovero debbano avere la precedenza,
inizia anche lei a riempire fialette di sangue. Così, dopo circa un’ora e mezza
in piedi davanti ad una porta, posso passare all’altro ambulatorio per la
visita cardiologica – almeno questa risolta in un baleno. Scendo quindi al
primo piano: altra sala d’aspetto, altra attesa infinita. Quando finalmente
arriva qualcuno che mi mostra la mia stanza e il mio giaciglio, vengo anche
informata che mio marito potrà entrare solo dopo l’intervento, per quale
ragione non si sa, è la regola. Stando così le cose, torno a sedermi accanto a
lui, non posso proprio pensare di mettermi a letto a guardare il soffitto fino
a chissà quando – tanto più che la compare di stanza non è proprio una
compagnia allettante: coperta come una mummia, non ho capito se aspettasse
l’operazione o la rianimazione. Cerco di distrarmi con le parole crociate. Ho
freddo, ho paura, ho tanta sete. Si presenta una dottoressa che mi sottopone al
solito interrogatorio: età, peso, altezza, allergie, malattie, bla bla bla.
Posso tornare ai cruciverba. Mi chiamano dall’altra corsia, stavolta è
l’anestesista: stesse domande e, finalmente, una risoluzione: sarò la prossima,
posso andare a prepararmi.
Camice,
cuffia e mi infilo nel letto che sarà spinto fino all’ingresso della sala
operatoria. Tremo all’idea dell’ago che mi infileranno nella schiena per
addormentarmi dal bacino in giù, e mi stupisce che stavolta mi posizionino
subito prona sul lettino, collegata ai macchinari che registrano le mie
funzioni vitali. Incredibilmente, mi assopisco, ed è la voce del chirurgo a rendermi
nuovamente vigile: realizzo che stanno già lavorando sul mio calcagno. Ma come,
senza anestesia?! Figurati, saresti
saltata come una mina. L’abbiamo fatta locale. Questa è una notizia
meravigliosa! Non ricordo sensazione più sgradevole delle gambe paralizzate per
ore, dei muscoli che non rispondono ai comandi. Riposti i ferri, il chirurgo mi
regala una “foto” del mio tallone. Di
calcagni ne abbiamo visti a centinaia, ma mai uno così. Sarà. Diciamo che
avrei preferito un apprezzamento diverso.
Ma ora devo concentrarmi su di me,
sulle mie (scarse) certezze, sulle (tante) paure da sopprimere. Mi riportano in
stanza, posso finalmente bere e farmi coccolare. Sono da poco passate le 14, mi
aspettano una sera e una notte lunghissime. Per quanto mi sia attrezzata con
tappi auricolari e mascherina per gli occhi, so bene che sarà difficilissimo
dormire. Il piede si risveglierà e comincerà a dolere, la flebo attaccata al
braccio condizionerà la posizione, i nervi tesi amplificheranno rumori, luci e,
soprattutto, pensieri. L’ambiente non aiuta. Dalle altre camere arrivano i
volumi assordanti dei televisori, mi chiedo come questo sia permesso in un
ospedale. Lo faccio presente ad un’infemiera, ma poco cambia. L’unica difesa è
chiudere la porta, ma i miei nervi sono ormai a fior di pelle. Tesa, stanca e
debole. Meno male che si cena presto. E che cena! Mi sono spesso domandata chi
componga i pasti per i degenti, dove abbiano studiato certi nutrizionisti
(ammesso che di nutrizionisti si tratti). Per una vegetariana, poi, non c’è
scampo: solo carboidrati, ovviamente raffinati. Stasera il menu offre riso in
bianco, patate e spinaci, pane bianco e una banana. Dopo un giorno intero a
digiuno, mangio le verdure e poco riso, mentre la banana la tengo per colazione
(quando la scelta sarà tra fette biscottate con marmellata e biscotti,100%
zuccheri). Sopporto, è solo un giorno. Riesco persino a dormicchiare. La
mattina è veloce, il chirurgo arriva di buon ora a togliermi le bende insanguinate,
sostituendole con nuove garze e nuova fasciatura. Restano i tubini di
drenaggio, fino a domani, quando dovrò tornare qui a farmi medicare e a
sentirmi dire non voglio vederti più – che
mi sia già stato ribadito diverse volte è solo un dettaglio.
Il
foglio di dimissioni parla di “carico consentito”, quindi potrei già camminare.
Ma non ci provo nemmeno, decisamente troppo presto. Le stampelle sono con me.
Poi si vedrà.
2 commenti:
Io faccio il tifo per te (e per il calcagno!)...
Ne ho bisogno...
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