La battaglia
contro il perfido calcagno ha aperto una guerra su più fronti. C’era da
aspettarselo. Decidi di ripartire dopo un anno, con intenzioni bellicose,
pensando di uscirne illesa? Col tuo fisico da quattro soldi, poi. E quel piede
a mezzo regime, che chissà come ti fa appoggiare. Tutta storta, ovvio. Grida il
tallone sinistro, risponde il gluteo destro: in quella posizione ambigua, che
fatichi a localizzare – non sapresti descrivere dove esattamente inizi e dove
finisca, se interessi il piriforme o il nervo sciatico, se si limiti al
fondoschiena o si estenda al femorale. Tutto sotto controllo, mi assesterò e
passerà. Così parto per la mia seduta di un’ora, da frazionare in tre parti.
Nei primi venti minuti il solito piede ricomincia con la solita solfa (ti sei operata per l’anima del cavolo, io
non ti darò mai pace). Non ti ascolto, no no no! Pausa di due minuti, ed
ecco che si risveglia il gluteo. Possibile? Corro quasi indenne, ma cammino
dolorante. Allora via di nuovo di corsa. Calcagno muto, ma chiappa fastidiosa.
Non sculettare, non ciondolare: busto eretto, ginocchia alte, braccia piegate.
Spingi su quei piedi, senza saltellare, senza cedere al vento contrario. Dopo
la curva sarai più riparata, un’agevolazione per gli ultimi cinque minuti.
Concentrata sul passo, sulla postura, sulla fatica. Forse troppo: troppa
tensione, troppa attenzione sui punti dolenti. Termino la seconda sessione
sempre più acciaccata, dal lato destro il fastidio si è spostato verso il
centro: oddio, avrò rotto l’osso sacro? Ultimi venti minuti in discreta spinta,
non un fulmine ma neppure una lumaca: soprattutto, fatica al minimo. Peccato
che poi stenti a camminare, e subito mi si prospettano gli scenari più
catastrofici (ernia, frattura, decomposizione, ecc).
Due giorni
di riposo e un trattamento manuale (e psicologico) mi rimettono in moto. Il
dolore però non molla: riesco ad allenarmi, anche discretamente, ma cammino
male. Zitta e corri, dunque? Sarà
così. E’ così che mi ritrovo a Fanano, con un pettorale sulla canotta. Gara mai
sperimentata, sempre osservata e sempre schivata – per la distanza, per la
durezza, per la concomitanza con altri eventi.
Finalmente si propone come l’occasione perfetta, ideale per questa fase
di riavvicinamento alle questioni serie. Peccato che l’unico argomento serio,
oggi come ieri, sia l’elenco dei miei malanni. Tutto sotto controllo, mi
assesterò e passerà. Non ne dubito, diversamente non sarei qui. Avrei potuto
sfoggiare saggezza e prudenza, restando a casa a leccarmi le ferite. Invece no,
ho troppa voglia di combattere: con le mie debolezze, con i chilometri e le
pendenze, con il mondo podistico. Dicono sia molto dura, ottimo: la fatica
schiaccerà i pensieri più nefasti. Tra i quali c’è anche quello di arrivare
ultimissima, del resto siamo talmente in pochi. E se invece quella manciata di
avversarie fosse più scarsa di me? Almeno una o due, dai. Pronti via, e si
precipita in discesa. Il tallone suona il campanello, avvisandomi che il suo
silenzio dei giorni precedenti è stato un bluff; anche il fondoschiena, tranquillo
fino a pochi minuti fa, mi rammenta che non posso frullare a piacimento. Tranquilla,
il bello è là da venire. Neanche due chilometri, e la strada prende a salire:
da qui in avanti non darà tregua. Testa bassa e pedalare. In pochi minuti mi
metto alle spalle un buon numero dei podisti che si erano lanciati a tutta. Ma
è con me stessa che devo competere: con la mia capacità di soffrire – e di
resistere. Si tratta di glissare sugli acciacchi, declassandoli come biechi e
ininfluenti concorrenti sleali, e sintonizzarsi sulla propria andatura:
regolarizzare ritmo e respiro in un processo fluido e incessante. Se solo si
allentasse quel morso sul calcagno… Invece no, non molla la presa. Mi
destabilizza e cedo: col pretesto del ristoro, interrompo la corsa e procedo
camminando per alcuni metri, bagnandomi la bocca. Gli stop and go sono deleteri
soprattutto per il posteriore, evita di fermarti, accidenti a te. Piano piano,
ma senza sosta. Una discesa inaspettata mi spiazza. È decisamente ripida, non
oso approfittarne, a discapito della mia posizione. Tanto in un attimo siamo di
nuovo su tornanti spezza gambe. Micidiali davvero, ma vogliamo parlare
dell’incanto di questa strada? Quante volte abbiamo abbracciato questi pendii?
Abbiamo solcato i sentieri attraverso ai boschi, con lo zaino in spalla, fino
alle cime più alte: le nostre piccole conquiste. Cercare un angolo riparato per
godersi la vetta addentando un panino, che poi la strada del ritorno pare
sempre più lunga e quel rifugio, al termine del cammino, ci intrattiene per un
po’ di tempo ancora: come a confortare la malinconia che assale al termine di
una giornata intensa. Sono felice di essere qui, oggi, in una nuova veste.
Abbigliamento ridotto ai minimi termini, scarpe leggere e nessun fardello, se
non il mio fisico provato. Jader non segue la mia traccia, ma è come se lo
facesse: avverto il suo sguardo, sento le sue parole, percepisco la sua
apprensione – e il suo incitamento. Siamo tornati in un luogo che amiamo,
ognuno ad assecondare la propria passione: sarà emozionante incrociarci strada
facendo, sarà entusiasmante ricongiungerci all’arrivo, ancora una volta al
riparo di un caldo rifugio.
Quando odo
la sua voce ho un sussulto. Devo mostrarmi forte e carica, nessun cenno di
abbattimento né di sconforto. Da come grida al mio passaggio, dubito di esserci
riuscita. L’ultimo chilometro dovrei aggredirlo, invece sono piegata a metà.
L’avversaria con cui ho giocato a ping pong fino a questo punto viene raggiunta
dal compagno che, avendo ultimato la sua gara, si appresta a scortarla fino
all’arrivo. Un aiuto non da poco. La vedo infatti cambiare marcia, e io getto
la spugna. Ormai è fatta, a questo punto basta portare a termine l’impresa.
Finisce l’asfalto e inizia il sentiero: a cento metri c’è il traguardo. È
finita. O forse no: forse è proprio adesso che devo sondare la mia condizione
per capire cosa mi aspetti. Il pensiero a cui mi aggrappo è solo uno: pur con
molte (troppe) soste, ho corso per dodici chilometri in salita. Una delle gare
più dure a cui abbia mai partecipato, se non la più dura, affrontata nella
peggiore delle mie condizioni. Eppure, conclusa a testa alta. Ci sarei riuscita
se fossi un vero rottame? Avrei sostenuto fino alla fine un simile sforzo, se
il mio fisico fosse irrimediabilmente compromesso? Tutto sotto controllo, mi
assesterò e passerà. Qual era il mantra? Zitta
e corri.