mercoledì 7 novembre 2018

La Vallazza: tra fango e sorrisi


Incredibile a dirsi: sono nell’albo d’oro di questa manifestazione. Ebbene sì, c’è stato un tempo in cui si lottava per il podio (vedi qui). Fare i conti col passato è tanto deprimente quanto inevitabile. Basterebbe non piangersi addosso e ricordare con orgoglio la golden age: in fondo, non tutti possono godere di certe memorie. Basterebbe anche sforzarsi affinché le soddisfazioni non vengano a mancare: non dare nulla per scontato, ma nemmeno per impossibile. Il materiale non manca: determinazione, passione, fiducia. I primi due elementi caratterizzano la mia persona, il terzo è alimentato dalle persone che ho accanto. Perché a volte non si basta a se stessi: un sorriso, una pacca sulla spalla, un urlo possono ribaltare uno stato d’animo. Le parole, poi, si sa quanto siano importanti. Non le mie, che troppo spesso mi dicono di lasciare perdere, di fermarmi una volta per tutte. No. Con quella voce contino e continuerò a combattere. Perché se nessuno sa spiegarmi cosa diavolo determini un dolore inossidabile, allora mi convinco che non ci sia nulla che possa impormi di smettere. Insisto, e insisto a volermi impegnare e a pretendere da me stessa. Col mio calcagno è guerra aperta, lui mi attacca col male, io contrattacco con la fatica. L’ho già detto, correre non mi basta: devo allenarmi. Ho bisogno di uno schema, di una tabella, di un obiettivo: di un percorso da seguire con qualcuno che mi prenda per mano (o che mi prenda a calci, che potrebbe essere la stessa cosa). Sono un soggetto difficile da gestire, lo riconosco. Forse è per questo che non sono in grado di gestire me stessa. Testarda, insicura, perennemente insoddisfatta. Ma altrettanto diligente, attenta e scrupolosa: dammi un compito, lo eseguirò alla lettera. Minuti, chilometri, salite: scrivimi come e quanto e mi farai felice. Felice di allacciarmi le scarpe e uscire con le idee chiare, convinta che la forza avrà la meglio sulla sofferenza. Un passo alla volta, stringendo i denti, sfidando i limiti della tolleranza. Ci vuole un po’ per raggiungere una specie di equilibrio ma, superata quella barriera, la strada diventa più agibile e ci si può persino divertire.
Così, col mio programmino di ripresa, decido di iscrivermi alla Vallazza. La distanza mi spaventa, lo ammetto. È da settembre che non corro tanti chilometri, nelle ultime settimane mi sono avventurata al massimo per una quarantina di minuti. Ma sento che ce la posso fare. Deve essere un buon allenamento, nulla di più – ma neanche nulla di meno. L’importante è non dare importanza a chi sarà davanti, l’ansia da prestazione riguarda me stessa, non la gara. La sfida è tra me e i miei malanni: tra il mio tormento e la mia fame di riscatto. Da brava asociale, mi aggiro sul luogo di ritrovo come un fantasma, sperando di non essere notata. Arrivo alla partenza pochi minuti prima del via, giusto il tempo di sgranchirmi; un vero e proprio riscaldamento non posso permetterlo, essendo estremamente limitata la mia autonomia di viaggio.  Lo sparo mi coglie impreparata, quasi non mi accorgo che bisogna iniziare a correre. Naturalmente, il primo chilometro mi serve a liberarmi dalla ressa. Dal secondo inizio ad impegnarmi come posso, pensando che ne dovrò correre tre ad un ritmo quantomeno sostenuto, quindi prendere fiato per cinquecento metri, poi altri tre chilometri impegnati – e via così fino alla fine. La prima frazione è più veloce di quanto mi aspettassi, la pagherò nei passaggi successivi, i più dei quali fangosi. Tanto, tantissimo sterrato, in alcuni tratti davvero scivoloso. Lamentarmi? Nemmeno per sogno. Il calcagno bastardo sì, quello lo maledico. Ma il percorso non mi impensierisce affatto, anzi: mi esibisco persino in incerti zigzag per superare podisti su podisti. Diventa un gioco di elastici: avanzo di posizioni nei chilometri “tirati”, torno in coda nella fase di recupero. È quasi divertente, sicuramente gratificante, perché ogni volta che riparto riprendo tutti quelli che mi davano per spacciata. Sul finale voglio impegnarmi al massimo. Alzale quelle ginocchia, e quelle braccia! Spingi con quei piedi! Fregatene del male, zitta e corri! Vai Vale… Eccolo, lo sentivo nei miei pensieri e si è materializzato a pochi metri dall’arrivo. Al fotografo, in prossimità del traguardo, sorrido col cuore: con viso e corpo voglio esprimergli la mia tenacia. Corro subito ad abbracciarli, devo coinvolgerli nell’esplosione della mia contentezza. 
Come sto? Malissimo, ma sono felice. Sono stata brava, me lo dico da sola, se non me lo dice nessuno. Il programma sta funzionando. Sarà magari presto per dirlo, ma io ci credo fermamente. Che poi, ridendo e scherzando, la media totale della gara di oggi, interpretata come un allenamento nemmeno tanto faticoso, è di 4”/km più bassa di quella tenuta nel 2016 – quando fu vera competizione, dall’inizio alla fine. Pochi spiccioli, è vero, e anni luce rispetto a quando si faceva sul serio: ma è pur sempre un segnale. Difficile dire dove potrò arrivare, ma l’itinerario mi entusiasma più della meta. 






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