lunedì 30 novembre 2009

Maratona di Firenze


9 giugno 1987, ore 7.30 (circa). Esco dalla stazione di Santa Maria Novella e mi guardo attorno, alquanto disorientata. Individuo il punto informazioni del servizio di autotrasporti e chiedo come poter raggiungere lo stadio. Sguardo stranito: a quest’ora?!?! Certo, a quest’ora. Proprio a quest’ora mi appresto a guadagnare una posizione strategica davanti all’ingresso, per poter scattare come un fulmine sotto il palco, non appena si apriranno i cancelli. Dovrò aspettare ore, è vero, ma per David questo e altro: il primo concerto di Bowie in Italia, e io sarò lì, in adorazione del mio idolo.


29 novembre 2009, ore 7.30 (circa). David domina su Piazzale Michelangelo. Un altro David, ovviamente, così come ben altra è la ragione che mi ha portato, oggi, a Firenze. La follia di allora, però, non è tanto lontana da quella attuale: c’è sempre una dose di irrazionalità nelle passioni, quella che porta a compiere gesti che gli estranei considerano assurdi. Stamattina, su questo balcone che offre una delle viste più spettacolari del mondo, di “pazzi” ce ne sono davvero tanti. Oltre diecimila, pare. Troppi. Il numero mi spaventa. Gli anni addietro, guardando la maratona in tv, mi chiedevo cosa sarebbe successo quando quelle stradine strette lungo le quali stavano correndo una decina di atleti (poiché la diretta RAI, ovviamente, inquadra solo i primi), sarebbero stata invase dalla massa di podisti. Non è una gara per me, mi dicevo. Perché mi sono iscritta, allora? Già, perché? Una questione di data, fondamentalmente. Poi, ammettiamolo, un evento di grande richiamo desta sempre un certo interesse. Beh, ora che ho soddisfatto la mia curiosità posso affermare che, per quanto mi riguarda, una volta basta e avanza.


Già dal primo chilometro mi domando chi me l’abbia fatto fare. Impossibile correre in una simile calca. Le mie migliori intenzioni vanno lentamente sgretolandosi. Tutti i bei pensieri che avrebbero dovuto accompagnare la mia corsa non riescono a raggiungere la mente, tesa invece in un costante stato di allerta: anziché concentrarmi su ritmo e sensazioni, cerco di proteggere la mia incolumità, non risparmiando insulti a chi non riesce ad evitare di toccarmi i piedi (la maratona di Carpi, finita al pronto soccorso, ha lasciato il segno). Tutta la prima metà della gara è un frenare, riprendere, scartare , accelerare. Mi auguro che il tempo perso all’inizio possa fruttare in seguito. Peccato che le gambe non rispondano. La brillantezza che auspicavo non accenna a presentarsi, procedo sempre più a rilento. Quando poi avverto alle mie spalle un plotone in minaccioso avvicinamento, crollo definitivamente. Travolta dal drappello delle 3h15, mi domando se abbia senso continuare a soffrire. Uno scatto d’orgoglio mi rimette in riga, magari ce la posso ancora fare: prendo un attimo fiato poi li riprendo e li saluto. Certo, come no!...


Dal trentesimo in poi mi fermo più volte – stavolta non c’era nessuno ad impedirmelo. Ritirarsi è comunque più complicato che trascinarsi fino all’arrivo, senza contare quanto sia insopportabile solo l’idea di dover annunciare a Jader che ho rinunciato. Già immagino la sua ansia, vedendo il cronometro procedere ben oltre il tempo che avrebbe dovuto segnare al mio arrivo. Intanto mi sembra che tutto il mondo corra davanti a me, mi sta superando l’intero universo femminile. E io che credevo di poter valere ancora qualcosa…


Ho chiuso la mia tredicesima maratona realizzando la peggior prestazione di tutti i tempi. Sulle cause dovrò indagare. Forse dovrei semplicemente rassegnarmi, ma non ne ho voglia. Non ancora.

mercoledì 18 novembre 2009

Sul mito di New York


Anche quest’anno attorno alla maratona di New York si è scatenato un proliferare di polemiche, incentrate soprattutto sul rilievo che è stato dato a tale evento dai media, giudicato da molti eccessivo. Da parte mia vorrei esprimere alcune considerazioni sulle ragioni di tanta risonanza. Sottolineo che si tratta di riflessioni del tutto personali: certamente opinabili, ma sicuramente condivisibili da tanti podisti che, come me, hanno vissuto l’esperienza di quella maratona.
Innanzitutto, una precisazione: trovo New York decisamente brutta. E’ questa la prima impressione che ho avuto della città. Il mio senso estetico non riceve alcuno stimolo dalla giungla grigioacciaio che svetta all’infinito. Certo, le luci, i contrasti, l’imponenza non possono che colpire. Effettivamente, dopo diversi anni ho cominciato anch’io ad apprezzare questi aspetti. Si tratta però del fascino dell’esagerato, dell’iperbolico, del grottesco: la bellezza è un’altra cosa. Questa premessa solo per chiarire che la città in sé non ha alcuna influenza sul mio giudizio riguardo la maratona.
Il mio approdo a New York fu del tutto casuale. A quel tempo non potevo neppure definirmi una podista: corricchiavo, sì, ma senza nessuna cognizione di causa. Non possedevo né cronografo, né abbigliamento consono; non avevo mai sentito parlare di soglia aerobica, fondo medio, ripetute ecc. Correvo e basta, tutti i giorni, per un numero indefinito di chilometri. Il gruppo podistico del mio paese aveva cercato più volte di coinvolgermi, ma io niente: non mi piace la competizione, dicevo. Finché il mio sguardo non cadde su una locandina pubblicitaria: New York City Marathon Tune- Up, gara podistica di 25 km. L’idea mi stuzzicò, non certo per la gara in sè, quanto per provare se fossi in grado di correre quella distanza, io che non avevo mai misurato i percorsi sui quali abitualmente scarpinavo.
L’incontro con il gruppo organizzatore fu folgorante. La visione di foto, manifesti e medaglie di maratone internazionali fece scattare in me qualcosa di nuovo e sconosciuto, e quel ragazzo che, stimolato dalla mia curiosità, cominciò a raccontarmi la sua maratona di New York (e sottolineo, sua: la sua esperienza, la sua emozione, il suo vissuto), mi aprì un mondo. Insomma, entrata per avere informazioni sulla Tune-Up, uscii con l’iscrizione a New York. Io che avevo sempre manifestato la mia diffidenza verso gli USA in generale, che rifuggivo da qualsiasi luogo affollato, che rabbrividivo solo all’idea di dover trascorrere più di qualche minuto al freddo… Quando si dice “un colpo di vita”.
Senza nessun allenamento specifico, mi trovai sul luogo di partenza, sperimentando tutti i disagi connessi. La giornata era gelida, impossibile trovare riparo, scontato assiderarsi. Mi chiesi, ovviamente, chi me l’avesse fatto fare, giurando che mai più… Eppure, una volta sul ponte di Verrazzano, mi stupii della mia commozione. Sarà stato che non avevo mai partecipato ad un evento così grande, ma l’intensità di quei momenti ha lasciato in me una traccia indelebile. E lo stesso dicasi per i successivi 42 km, corsi tra l’incitazione di una città che sembra essere lì solo per te. Analoga sensazione all’arrivo: mentre a stento trattieni le lacrime, ognuno dei volontari dislocati in Central Park ti fa sentire un campione.
Entrata a far parte del gruppo organizzatore, ho avuto l’opportunità di tornare a New York anche negli anni successivi. Credevo che l’emozione della prima volta non avrebbe potuto ripetersi. Falso. Nel tempo sono cambiati il mio approccio alla gara, la mia preparazione, il mio grado di aspettativa: immutato è però lo stato d’animo con cui vivo l’evento “Maratona di New York”.
Si è totalmente immersi nell’atmosfera della maratona durante tutta la settimana di permanenza. Questo perché l’intera città lo è. L’insegna della NYCM è ovunque: sui lampioni, sulle vetrine, sugli autobus. Nello specifico, poi, non c’è un addetto alla gara (da quello che dirige il traffico all’interno dell’expo a quello che ti consegna la tua sacca alla fine della gara) che non abbia un sorriso, una gesto di calore, una parola di incoraggiamento per te. In quali altri luoghi succede?
I partecipanti italiani sono i più numerosi, è vero, ma basta guardarsi attorno per accorgersi che è tutto un mondo quello che ci circonda. Gironzolando perlopiù da sola, ho colto la molteplicità di colori, stili, linguaggi che pullulano tra strade, negozi e locali – e mi riferisco ai soli maratoneti, facilmente individuabili. Questa globalità mi esalta, mi esalta sentirmi un puntino tra un’infinità di altri puntini. Uniformità nella diversità, un senso di infinito e di indefinito. Spiazzante ed eccitante.
Le persone che accompagni, quelle che ti accompagnano, quelle che incontri o che vorresti incontrare condividono con te ansie e preoccupazioni, ma anche curiosità e aspettative. Si parla la stessa lingua, magari con accenti e inflessioni diverse, comunque sulla medesima lunghezza d’onda. C’è voglia di complicità, di condivisione, di approvazione: come quando, la sera dopo la gara, tutti i medagliati si sorridono l’un l’altro, incrociandosi per strada.
Ognuno, poi, vorrà raccontare la propria maratona, poiché ognuno avrà qualcosa di unico e irripetibile da ricordare. Si cerca quindi il confronto, tentando di mantenere il contatto con un’emozione che si vorrebbe prolungare il più possibile – magari già pensando alla prossima volta. Perché è vero che si attraversano disagi difficilmente sopportabili, ma è altrettanto vero che questi vengono messi in secondo piano da un contesto nel suo complesso entusiasmante.
Qualsiasi cosa succeda, ne vale la pena. E’ questa la conclusione che trassi al termine della trasferta dell’anno scorso (http://valerunner.blogspot.com/2008/11/new-york-2008.html). Ed è anche l’amara constatazione che ha ripetutamente attraversato la mia mente in queste ultime settimane, trascorse a casa: sarà banale, ma è effettivamente quando qualcosa ti viene a mancare che realizzi quanto fosse importante per te.
E’ ovvio che attorno alla NYCM ruoti un grande business, ma dove non accade? Anch’io mi irrito quando colleghi o conoscenti mi chiedono se ho mai corso la maratona di New York, convinti che sia l’unica maratona al mondo (ovviamente, se rispondi loro che hai corso quella di Venezia, ti domandano quanto sia lunga). Non possiamo però negare che il mito della maratona di New York sia nell’immaginario di ogni podista: magari anche con accezioni negative, ma sempre con una peculiarità tutta sua. Una ragione ci sarà, e va cercata nelle sue caratteristiche, nel suo contesto, nella sua storia. A mio avviso, affermare che si tratti solo di business è un po’ cadere nel luogo comune secondo il quale tutte le grandi ricorrenze, Natale compreso, sono ormai pure occasioni commerciali. Eppure tutti, ognuno a modo suo, le celebrano. Sta a noi, alla nostra sensibilità, attribuire ad esse il significato che riteniamo più consono al nostro sentire.


lunedì 9 novembre 2009

Maratona di Ravenna


Da una settimana controllavo quotidianamente le previsioni meteo sperando che l’evoluzione dei flussi e delle correnti avrebbe apportato qualche modifica. Nulla. Si notava qualche minima variazione nella giornata di venerdì e in quella di sabato – nuvolette e mezzi soli che si spostavano da un’ora all’altra, tra la prevalenza di scrosci e temporali. Del tutto immutato, invece, il quadro domenicale: pioggia a oltranza. Confesso che tali aspettative non hanno inciso più di tanto sul mio stato d’animo rispetto alla gara: priva di una perfetta cognizione del mio stato di forma, conscia di essere comunque molto al di sotto di quanto ambirei ottenere da me stessa, condizioni climatiche avverse potevano rappresentare un’attenuante ad una scarsa prestazione.


Infagottata dentro un sacco della spazzatura, sgambettavo in prossimità dell’area di partenza chiedendomi quanto avrei potuto resistere a quel freddo. Forse dovevo coprirmi di più, ma indumenti fradici non avrebbero certo garantito maggiore benessere. Cercavo di concentrarmi su quella che avrebbe dovuto essere la mia condotta di gara, con la consapevolezza che mi ero impegnata al massimo: non potevo permettermi di sciupare mesi di scrupoloso lavoro.


Esco dal sacco e mi lancio sulla scia dello sparo. Dove voglio andare? Dovranno caricarmi sull’ambulanza con un principio di assideramento. Certo che cominciamo proprio bene…


Dopo circa un chilometro penso che in fondo non è poi così freddo – che sia perché ora il vento è alle spalle? Lo slalom tra le pozzanghere però non mi diverte affatto, né apprezzo il sentiero ghiaiato nel parco, per non dire del pavé in città. Ravenna è indubbiamente bellissima, peccato che quando corro io non sia in grado di apprezzare il panorama neppure in condizioni climatiche ottimali, figurarsi quando la mia attenzione è rivolta a mantenere l’equilibrio. Devo però ammettere che, nonostante tutto, il ritmo è decisamente brillante, anzi, devo controllarmi per non eccedere. Finché non usciamo dal centro e ci avviciniamo alla mezza maratona. Ora la bufera rema contro, è necessario procedere a testa bassa – e chi non ha tanta zavorra ha un bel da spingere… Vedo qualcuno che torna indietro, non devo farmi indurre in tentazione! La ragazza che mi aveva superato nei primi chilometri non è più così lontana, evidentemente non sto soffrendo solo io. Questo rettilineo corso a denti stretti mi ha rovinato la media, e pensare che mi ero illusa di poter sorprendere me stessa. Ma, come si dice, ormai sono in ballo.


Sul viale tra i pini ho modo di riprendere un po’ fiato, per quanto sia possibile a questo punto della gara. I rettilinei hanno su di me un effetto sconcertante, mi proiettano in una sorta di trance che contiene la fatica. Il trentesimo è passato, il bello deve dunque ancora arrivare. L’incubo del muro attraversa la mia mente, so bene che si erge all’improvviso, senza alcun segnale. Ma la mia avversaria è lì, sempre più vicina…


Anche il trentacinquesimo è andato e sento che posso osare un po’ di più. Non che abbia la capacità di migliorare le mie aspettative iniziali, ma dovrei riuscire comunque a concedermi un bel finale. Un altro tratto controvento, adesso, non ci voleva proprio. Mi duole un fianco, che significa? Respira profondamente, non dargliela vinta! Ecco, è passato. E lei è ormai a pochi passi.


39°, non si può più indugiare. Metto la freccia e sorpasso, mi lancio verso il quarantesimo rischiando persino di annegare in una pozzanghera, ma ormai devo giocarmi tutto per non farmi riagguantare. Cosa sono due chilometri? Si fanno tutti d’un fiato. Sento la voce dello speaker, sto arrivando!


Va bene, speravo in un crono migliore e anche in un miglior piazzamento. Ma che lo dico a fare? C’è forse qualcuno che mi abbia mai sentito esprimere note di tripudio e soddisfazione? E’ già tanto se riesco a sorridere e a raggiungere pimpante lo spogliatoio: persino Jader è sorpreso. Avrebbe scommesso sul mio ritiro. Sono soddisfazioni.

lunedì 21 settembre 2009

Cecità


Lo ammetto, mi è capitato di abbandonare alcuni libri senza averne terminato la lettura. Alcuni di essi richiedevano tempo e concentrazione superiori a quelli che potevo loro dedicare in quel particolare momento, li ho dunque riposti con la buona intenzione di riappropriarmene in una circostanza più congeniale. Altri, invece, non riuscivano a fare vibrare nessuna delle mie corde: alle righe che scorrevano sotto i miei occhi non si associava alcuna immagine nella mente, anzi, i pensieri vagavano liberi, lontani anni luce dalle pagine. Inutile, quindi, insistere.
Mai però mi era capitato di dovermi staccare da un libro per eccesso di turbamento. Si è trattato del cedimento di un attimo, è vero, ma l’ho pensato più volte: non posso andare avanti. Invece ho proseguito, come rapita dalla sublime inquietudine di una storia chissà quanto assurda. Quella narrata da José Saramago in Cecità.
Un intero Paese è colpito da una misteriosa epidemia che rende tutti ciechi. Si assiste perciò al degrado fisico e morale della comunità: venuti meno i beni primari, scatta la feroce e spietata lotta per la sopravvivenza, che rivela gli aspetti più mostruosi del genere umano. La narrazione corre schietta, quasi brutale, non senza vene di sarcasmo. I personaggi, senza nome, spiccano per le loro peculiarità: l’assenza di regole e di punti di riferimento fa emergere la forza dei caratteri e delle personalità. Alla fine di un capitolo si pensa che nulla di peggio possa accadere, salvo poi essere smentiti dal capitolo successivo. La discesa agli inferi sembra non avere termine, tanto che ogni barlume di salvezza finisce col perdere credibilità.
Dal romanzo è stato tratto un film, diretto da Fernando Meirelles, con Julianne Moore: sinceramente non riesco ad immaginarene la trasposizione cinematografica, ma sono molto curiosa.

lunedì 14 settembre 2009

Giro Podistico Avis S.Lazzaro


Basta davvero poco, a volte, per ribaltare una sensazione. Quasi inciampo sul traguardo nell’udire il grido esaltato Brava Vale! Brava? Io, che ho arrancato come un bradipo stanco?!
La gara parte in salita, sin dal primo metro. Ignoro cosa mi aspetta, è la prima volta che mi trovo su queste strade. Per un motivo o per un altro, non avevo mai preso in considerazione, gli anni addietro, una competizione che, evidentemente, non si adattava alle mie tabelle di allenamento. Stavolta invece riesco a farla rientrare nel programma, con grande soddisfazione del presidente della mia società - ormai rassegnato alle defezioni della sua atleta abitualmente restia ad onorare il calendario sociale.
Incredibili gli orizzonti che si possono aprire ai nostri occhi distratti. Chissà quante volte ho transitato sulla strada dalla quale oggi siamo partiti, eppure mai avrei immaginato che, svoltato l’angolo, ci si ritrovasse subito in collina. Il percorso prosegue infatti sempre più ripido. Scende invece il morale nel constatare che la mia resistenza stenta a superare la dura prova alla quale è sottoposta. Ma come? Non ero io a vantarmi di saper affrontare le salite come una capretta arzilla? Cosa mi sta succedendo? E perché mi stanno sorpassando podiste che di solito neppure vedo? Beh, vorrà forse dire qualcosa il fatto che le loro gambe siano il doppio delle mie (e non in lunghezza), quando si tratta di potenza non posso che alzare le braccia. Lo smacco però è pesante, e indubbiamente contribuisce a smorzare la mia spinta. Devo rafforzare ‘sti muscoletti, accidenti a me!
Ecco lo scollinamento, prima o poi doveva arrivare. E io mi butto in picchiata. Si si, proprio io che in discesa solitamente mi pianto come un palo, quasi invocando il soccorso alpino. Qui però la pendenza è affrontabile, sfrutto quindi il vantaggio delle lunghe leve e prendo il volo. Peccato che la strada torni presto ad impennarsi, e io mi ritrovi subito riagguantata. Al pendio successivo riacquisto la posizione e decido di non mollarla. Mi sembra di essere sulle montagne russe: su su su, poi giù tutto d’un fiato. Fatico a ritrovare l’assetto di corsa nelle ultime centinaia di metri pianeggianti, come se le gambe non trovassero terreno. Ho infatti un attimo di cedimento, prima di riuscire a spingere a più non posso verso l’arrivo.
Brava Vale! Quante altre volte Jader mi ha accolto con tanto entusiasmo? Lui che, abitualmente, a stento nasconde la sua delusione, vedendomi arrivare alle spalle di certe altre podiste. Oggi invece, a suo parere, ho concluso al punto giusto. Sarà. Io tanto soddisfatta non lo sono proprio (del resto, quando mai?). La sua contentezza sbiadisce però le mie perplessità: una bella sferzata di energia, che mi sarà di grande aiuto per i prossimi impegni.

Servizio fotografico su Podisti.net




lunedì 27 luglio 2009

De Andrè canta De Andrè


Amo il silenzio. Non sono una di quelle persone che necessita di sottofondo musicale per qualsiasi attività. Condivido anzi le osservazioni di Umberto Eco a proposito dell’inquinamento acustico, quel "bagno amniotico che svilisce la musica "e ci perseguita negli aeroporti, nei bar e nei ristoranti, negli ascensori…”
Esistono però alcune eccezioni, note che sanno penetrare nelle mie fibre facendole vibrare, suscitando turbamenti di rara intensità. Pochi gli autori capaci di scatenare in me simili effetti, pochissimi quelli per i quali oso affrontare la folla di un concerto dal vivo.

Vidi Fabrizio De Andrè a Modena, credo fosse il 1991. Era da poco uscito Nuvole, ma io non lo avevo ancora assimilato. Conoscevo poco di lui, non avevo ascoltato altro oltre a quanto inciso nello storico concerto con la PFM: quel poco era stato sufficiente a farmelo amare, ma non fu abbastanza per farmi godere appieno lo spettacolo. Anche a causa della febbre che mi aveva colpito quella sera, non riuscivo ad entrare in canzoni per me nuove. Indispettita con me stessa, mi preoccupai di colmare le lacune della mia ignoranza.

Ero già pronta ad acquistare i biglietti per il concerto di Fabrizio a Bologna, nel settembre del 1998. Peccato che la data fu annullata. Il gennaio seguente lui scomparve.
Difficile accettarlo. Difficile concepire che una simile voce non esista più, che un tale poeta non possa più esprimersi, che quel genio non abbia più occasioni di sconvolgere, emozionare, provocare.
Pullulano tributi e riconoscimenti, omaggi e celebrazioni: ne condivido lo spirito e l’intento, ma percepisco come oltraggi tutti i tentativi di riprodurre le sue canzoni. Sfregi ad un’opera d’arte. Tutti, tranne uno: l’unico che possa cantare De Andrè è…De Andrè. Cristiano è il solo che abbia i requisiti per poterlo fare. Non avessi avuto questa certezza, non avrei certo acquistato i biglietti per il suo concerto a Parma. L’intensità della serata è però stata al di sopra di tutte le mie aspettative. Quante canzoni mi hanno fatto piangere, senza altra ragione che non fosse insita nel valore della canzone stessa? Non saprei dire. Cristiano, però, sabato sera ci è riuscito per almeno due volte.
Suoni limpidi e vibranti, voce calda e potente: uno colpo che non ti aspetti, Fabrizio è rinato.

Ho visto Nina volare tra le corde dell'altalena, un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena. Come fa il vento alla schiena: non è incantevole? Chi era quel “mostro” in grado di elaborare siffatte costruzioni?
Sulle note di Verranno a chiederti del nostro amore crollo definitivamente. La forza del testo, il coinvolgimento dell’interpretazione, il pensiero che nulla di così grande potrà tornare.
C’è qualcosa di sublime in questo concerto. Mi sorprende e mi ferisce: come tutte le più belle cose, vivono solo un giorno…

venerdì 3 luglio 2009

ciao biancone

Nina è sotto al letto, la piccola ha paura del temporale. Anch’io devo aspettare che si calmi la bufera, pur sapendo che oggi sarà impossibile svolgere il lavoro correttamente. 12+12x400, veloce a 3’40, “lento” a 4’00: fantascienza! Non sarà certo colpa delle condizioni meteorologiche se non riuscirò a tenere certi ritmi, ma almeno avrò una piccola attenuante.
Placati tuoni e fulmini, infilo le scarpe e vado. Piove ancora e, ovviamente, c’è vento, ma tant’è. Mi lancio nell’impresa, costretta a prendere fiato tra un 400 e l’altro. Lo so, così sballa il senso dell’allenamento, ma è il massimo che riesco a dare. Perdo ben presto la cognizione del tempo e del numero delle ripetute, capisco solo quando sono ormai al termine – sì, ma quanto manca? Intanto la pioggia ha ceduto il passo al vapore che sale dai campi e dall’asfalto. Mentre annaspo ormai allo stremo delle mie forze, una tenera visione solleva il mio spirito: un micione candido sta attraversando la strada. Buffo come continui ad emozionarmi ogni volta che scorgo un animaletto, se poi si tratta di un piccolo felino mi sento sorridere da capo a piedi.
Un incrocio di auto spezza l’idillio, sono costretta a fermarmi per lasciarle passare. Sciolto l’ingorgo, l’orrore. Il micione giace nel mezzo della strada, immobile.
Eseguo la mia ripetuta più veloce per raggiungerlo, ditemi che è ancora vivo! Occhi sbarrati, linguina tra le labbra, con un filo di sangue. Forse però non è finito, forse si può ancora salvare. Lo prendo tra le braccia, mi sembra di sentire il suo cuore pulsare. Ma sono a tre chilometri da casa, una distanza infinita. Mi avvio veloce sperando in un miracolo. Ti prego, piccolo, dimmi che sei vivo… Non un sussulto, non un cenno di vita. Mi rendo conto che l’unico cuore che pulsa è il mio, sono costretta ad arrendermi. Ti devo lasciare, piccolino. Spero almeno tu non abbia sofferto.
Riprendo a correre piena di rabbia. Maledetto chi ti ha ridotto così. Era impossibile non vederti. Non si è trattato di un incidente inevitabile. Maledetti tutti voi che vi sentite draghi in quella scatola di latta e che sapete usare solo il pedale dell’acceleratore!
Appena a casa crollo, tutte le emozioni si sfogano in pianto. Le mie cucciole si strusciano e mi leccano le gambe salate. Come potrei vivere senza di voi? Invece qualcuno ora forse sta cercando il suo micione bianco, che io non sono riuscita a salvare… Cerco di scacciare questa angoscia, ma l’inquietudine non mi abbandona.

mercoledì 8 aprile 2009

Bye bye PD

Ho peccato di romanticismo, lasciandomi attrarre dall’influsso del buon Walter.
Avevo sempre avuto un debole per lui: da quando si occupava di cultura e si appassionava per il cinema; da quando mi lasciò una dedica sul suo libro su Berlinguer. A Valentina che vivrà e vedrà un mondo migliore, diceva. Il mondo non è affatto migliorato, almeno non ai miei occhi, ma di sicuro io mi sono sempre impegnata affinché non peggiorasse. Ho dunque seguito il sogno di Walter, credendo di poter offrire un mio piccolo contributo.
L’ingenuità e l’inesperienza possono giocare brutti scherzi. In men che non si dica mi sono ritrovata nel direttivo del circolo, insieme a persone di cui non sapevo nulla. Ho subito iniziato ad occuparmi di cose per me completamente nuove, con entusiasmo e soddisfazione, e nel giro di pochi mesi è capitato che diventassi persino segretaria del circolo stesso. Accidenti! Enorme responsabilità, considerando la situazione critica che stava attraversando l’Amministrazione del nostro Comune. E’ proprio ciò che si è sviluppato attorno a quest’ultima che mi ha fatto prendere coscienza di quanto inconsistente fosse la struttura del partito e, soprattutto, di come fossero nette e inconciliabili le divisioni al suo interno. La cosa più grave, però, era che tali fratture si rivelavano sempre più esplicitamente anche a livello nazionale: una miriade di leader, ognuno dei quali esprimeva opinioni diverse sulle varie questioni all’ordine del giorno, senza mai una presa di posizione forte, chiara, autorevole. Solo blandi tentativi di compromesso e accomodamento. Era questa la forza riformista e progressista che doveva risollevare le sorti del Paese?
Le primarie per il candidato Sindaco hanno dato il colpo di grazia finale. Strumento innovativo quanto pericoloso: devastante se utilizzato senza metodo e senza intelligenza. Tutti accorrono a votare per sentirsi protagonisti, per osannare il più visibile e rinomato: esattamente come nel televoto. Vince chi sa accaparrarsi più consensi, e non importa se è un incapace. Tutto sommato, non importa nemmeno quale sia esattamente la sua posizione politica, né quali siano le sue esperienze, le sue competenze, le sue proposte. Un bel giochino per fare accorrere le masse – e poco conta dove (e per chi) correranno quelle masse il giorno delle elezioni amministrative.
Logica correntizia e visibilità: questo è ciò che ha prevalso in tutta questa triste vicenda. E che ha continuato a prevalere in maniera sempre più marcata nei mesi successivi.
Più in alto, intanto, si dimetteva il segretario e lo si sostituiva col suo vice. Continuando ad arrancare tra prese di posizione incerte e assurde concessioni alla libertà di coscienza. E tutti ad entusiasmarsi per le parole di una segretaria di circolo che, facendo un copia-incolla di considerazioni già sviscerate da mesi su tutti i principali organi di stampa, senza aggiungere alcuna proposta, anzi, sviolinando il nuovo segretario, è diventata una star. Il nulla che avanza.
Poiché il nulla sta avanzando di gran lena anche qui, io ho deciso di abbandonare la nave. Ho provato a resistere finché ho potuto, ma non ha senso lottare per qualcosa in cui non si crede più. Perché in questa linea io non mi riconosco affatto. Ho creduto nel sogno di Veltroni, ho creduto che la nostra forza e i nostri ideali avrebbero potuto concretizzarsi in un progetto comune. Ma ho dovuto constatare che le differenze sono troppe, e la mia coscienza profondamente di sinistra non può accettare squallidi compromessi che non fanno che evidenziare come, di fatto, il partito non esista.
Ritengo che il progetto sia fallito, e che si stia operando un vero accanimento terapeutico per tenerlo in vita. Se le mie sono solo previsioni sono catastrofiche, saranno le elezioni di giugno a sancirlo. Di certo, qualunque potrà essere il risultato, resta il fatto che questo “amalgama” non è il mio partito. Mi spiace solo non averlo capito prima.

martedì 24 marzo 2009

Democrazia abbagliata

http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/spettacoli_e_cultura/popolo-televoto/falso-mito-democrazia/falso-mito-democrazia.html

"Dovrebbe risultare chiaro che alla fine si tratta di tecniche per colmare il vuoto spalancatosi nello spazio pubblico, per abbattere l'ansia politica, e anche per cercare un'opportunità di partecipazione vicaria: qualcosa di simile all'iscriversi a un gruppo di discussione su Facebook, non importa se di adoratori della fiction su Di Vittorio o di pensosi cultori del Nero di Avola. Quel che conta è dichiarare qualcosa di sé, aderire, ma anche sabotare, dichiararsi pro o contro, comunque esserci e farsi vedere."

Esattamente come nelle primarie...

venerdì 6 marzo 2009

Lo dico da sempre

“Infine, a completare un capolavoro, le primarie: un metodo di selezione dei candidati che prevede un partito consolidato e infine una struttura federale del partito steso: senza di che diventa guerra fratricida fra le mura delle città e delle contrade; il nemico sta dentro, con grande godimento dell’avversario vero che sta fuori. E poi, si può adottare un metodo che vive di conflitto a fondamento di un partito che ha bisogno di grande unità, almeno per stabilizzarsi? Metodi anti-democratici e rozzi, strutture e procedure sbagliate. E cosa dire dei contenuti?”

Nadia Urbinati, la Repubblica 6 marzo 2009

martedì 3 febbraio 2009

sabato 10 gennaio 2009

la piazza e la preghiera


La mia reazione di fronte alla foto che ritraeva la preghiera dei musulmani in Piazza Maggiore è stata “…Meraviglioso! Peccato non essere lì in quel momento!”

Tutt’altra reazione ho avuto, invece, nel leggere le dichiarazioni e i commenti di vari esponenti del Partito Democratico sulla questione: sorpresa, certo, ma soprattutto delusione e indignazione. Si parla di cittadini bolognesi spaventati e, addirittura, di “provocazione pericolosa, irrispettosa per la Chiesa cattolica bolognese”, “inopportuna, inopportunamente provocatoria e programmata”. Parte del PD, insomma, solleva argomentazioni simili a quelle esposte dal monsignor Vecchi, dimostrando un’ottusità e una superficialità decisamente sconcertanti. Sconcerto che viene ulteriormente alimentato dall’approvazione con la quale da alcuni è stato accolto l’articolo di Enzo Bianchi pubblicato sulla Repubblica del 9 gennaio. Il priore, oltre ad attribuire una valenza religiosa alla piazza (“la piazza su cui si affaccia la chiesa principale di una città riveste un carattere emblematico: affermazione forte della presenza del cristianesimo al cuore dell'abitato urbano”), ribadisce l’inopportunità della preghiera musulmana in quanto “l'immettere nell'esercizio di questo diritto alla libertà di espressione, anche collettiva, una così esplicita connotazione religiosa mi pare metta a rischio sia la natura laica delle contese socio-politiche sia l'essenza stessa della preghiera”. E prosegue con il suo approfondimento del significato e del valore della preghiera cristiana (e sottolineo cristiana).
A parte il fatto che Bianchi, definendo la preghiera cristiana "disarmata, libera da ogni coercizione, impossibilitata a essere difesa con le armi”, pare abbia dimenticato alcuni episodi come l’inquisizione, le crociate, la conquista dell’America ecc., con la sua analisi non fa che confermare l’ottusità di simili argomentazioni.
Si continua, cioè, a ragionare esclusivamente entro i propri schemi culturali, senza prendere in considerazione che quella in cui viviamo non è l’unica cultura possibile – né l’unica civiltà. E’ la mentalità del colonizzatore, di chi ritiene che la verità e il bene stiano da una parte sola, di chi giudica temibile e pericoloso ciò che non conosce: perciò fa il possibile per farlo rientrare nella propria gabbia conoscitiva – e, se non ci riesce, mira a sopprimerlo.

L’unica analisi davvero illuminata che ho avuto il piacere di leggere in questi giorni è quella di Joaquin Navarro-Valls (la Repubblica, 7 gennaio): “nella misura in cui le nostre società occidentali ospitano altre comunità e altri popoli, è necessario che impariamo a confrontarci un po' tutti con linguaggi necessariamente diversi dai nostri. E’ importante, in altre parole, che non ci attendiamo ingenuamente da immigrati islamici e profughi palestinesi che si esprimano come un sindacato occidentale o come un partito politico nostrano." E aggiunge “…la volontà di rintracciare una propria identità culturale e politica nel proprio credo tradizionale costituisce non un avamposto del terrorismo, ma il suo più efficace e risolutivo deterrente.”

Libertà di pensiero e di espressione: valori di cui andare fieri. Io sono fiera che nella mia città si possa assistere a manifestazioni come quella di alcuni sabati fa. Purtroppo non posso dirmi altrettanto fiera di fare parte di una formazione politica che continua a perdere occasioni per dimostrasi una forza davvero nuova e riformista.
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