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sabato 25 settembre 2021

"Il mio equilibrio nasce dall'instabilità" (Day 8)

 

Impulsi, slanci, amori, intensità, svagatezza appassionata fanno d’un uomo un malato. Quanto tempo potrò sopportare queste percosse interiori? La parete frontale di questo corpo s’abbandonerà. La mia vita intera che batte contro i propri limiti, e l’impeto di desideri inibiti che ritorna in forma di veleno lancinante. Male, male, male… Frenetico, caratteristico, estatico amore che si trasforma in male. (Saul Bellow)

Quando dicevo che i libri ci chiamano e ci rispondono: come non ritrovarsi in questa irrequietudine? Potrei tappezzare le pareti con le migliori pillole di saggezza, ma a nulla servirà indossare occhiali rosa se l’ottimismo vive altrove. È per questo che continuo a pensare che sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano: per affrontare simili situazioni occorre animo sereno, oltre a fiducia incondizionata – fiducia negli altri ma, soprattutto, in se stessi. Caratteristiche che, si sa, non mi appartengono. E se è vero che la testa condiziona ciò che accade nel fisico, la vedo davvero grigia.


Un’altra giornata in solitudine, che decido di prendere di petto sin dall’inizio: mi butto subito sotto la doccia. Ormai ci ho preso la mano, mi gestisco con discreta disinvoltura. Sono sempre in apprensione, invece, nell’affrontare le scale, con le stampelle da spostare e gli appoggi che non mi sembrano mai sufficientemente sicuri. Quanto manca alla liberazione dal gesso? Meglio non pensarci, non siamo neppure a metà. Divano, sedia; sedia, divano. La crio-magnetoterapia scandisce le ore, mentre tv, libri e internet creano l’atmosfera. Atmosfera oggi movimentata dal campanello, che suona più di due volte. Ho così modo di appurare quanto sia necessario risolvere al più presto almeno un paio dei difetti di questa abitazione: il cancello che non si chiude e il citofono che funziona solo verso l’esterno. So che oggi dovrebbero consegnarmi due pacchi, ma chi mi assicura che quello che suona sia il corriere? Fortunatamente dalla finestra vedo chi si approssima alla porta, resta comunque una situazione anomala. Presumo che il primo fattorino abbia lasciato il cancello aperto, visto che il secondo entra senza nemmeno lasciarmi il tempo di rispondere. Dopo qualche ora, ancora uno squillo. Non aspetto più nessuno, chi potrà essere? Guardo fuori e vedo il padrone di casa che vaga in giardino. Arzillo vecchietto, peccato sia già annebbiato dalla demenza senile. Vuole a tutti i costi appiopparmi una busta che si è ritrovato in buchetta: peccato che non riporti né i nostri nomi, né il nostro indirizzo. Come fargli capire che non posso impossessarmene, e tantomeno sono in grado di andarmene in giro a cercare il corretto destinatario? A forza di insistere, riesco a liberarmene. Ma che fatica. Perché deve essere tutto così opprimente? Perché vorrei scappare lontano ogni volta che sento i rumori dei vicini, oggi particolarmente insopportabili? La salvezza è sull’isola: dovrà venire quel giorno.

martedì 18 settembre 2018

Giro podistico Eolie 2018: Vulcano non tradisce


Affondo il tallone nella sabbia, nera come il mio umore. Un anno lontana dalle corse, due interventi chirurgici, terapie a non finire: a cosa è servito? Ad incrementare a dismisura la voglia di correre, senza però risolvere minimamente il problema. Oggi stento a camminare. È vero, ho corso tre tappe impegnative con pochissimi chilometri nelle gambe e nessun allenamento: senza alcun cedimento, senza mai fermarmi, senza concedere nulla alla diretta avversaria. Ma lo sconforto supera la soddisfazione, anche quella di trovarmi terza nella classifica generale. Non so se domani riuscirò a riprendere la gara e, soprattutto, rabbrividisco alla prospettiva di un ulteriore stop di durata indefinita (per non dire infinita). Anziché godermi il giorno di riposo, guardo il mare con le lacrime agli occhi, sfinita da un dolore che non mi dà tregua e non mi lascia intravvedere vie d’uscita. Pianto amaro e rabbioso, uno sfogo che mi scuote e quasi mi fa gridare: questa volta non voglio fermarmi! Sono giunta sin qui in condizioni ben peggiori rispetto all’anno scorso, ma sono altrettanto determinata a non farmi scoraggiare: la sfida è tra la mia determinazione e il mio fisico acciaccato. Poi viene la competizione. E fino ad ora sto tenendo testa. 


La prima tappa è una prova, dove gli interrogativi superano le certezze. Non so se temere maggiormente il piede, che mi tormenta da sempre, o il fondo schiena, che mi assilla da un paio di settimane. Giù con punturoni di Voltaren e Muscoril, produrranno qualche effetto? Mi presento al via con il dorso ornato da un fantastico taping. Faccio due passi tra i podisti impegnati nelle operazioni di riscaldamento: io ho bisogno di camminare un po’ prima di azionare la modalità “corsa”. Vorrei provare anch’io la loro tensione, il mio patema è di tutt’altra natura: quanto soffrirò, quanto saprò resistere, sarò in grado di completare il circuito? Perché, oltre ai malanni, bisogna considerare che nell’ultimo anno non ho mai corso più di mezz’ora senza interruzioni. Dove troverò le forze per affrontare questi tracciati, tanto impegnativi? Partire piano è un obbligo, per non arrivare già impiccata all’attacco della salita. Al primo scollinamento sono quarta, appiccicata alla terza, che però scappa lesta in discesa – dove io, contrariamente alla mia attitudine, tiro le briglie, temendo ripercussioni alla schiena. Il tallone grida, ma non l’ascolto. Intanto, ripresa la salita, mi porto in terza posizione; cedo di nuovo in discesa, riguadagno nell’ultima salita per poi essere definitivamente superata. Il quarto posto è di tutto rispetto, nelle mie condizioni. Inutile però negare un pizzico di amarezza: in uno stato di forma sufficiente sarei seconda. Ma tant’è, ora si tratta di prendere una decisione: continuare, nonostante stia barcollando, o buttarmi in mare? Risposta scontata: perché la tappa Acquacalda-Canneto è spettacolare, e perché dopo un’ora di spiaggia comincio a scalpitare.

Pessime sensazioni. Il piede è talmente incazzato che si rifiuta di muoversi; ho difficoltà ad appoggiare, a spingere, a snodare la caviglia, a sollevare la gamba. Leggo la mia disperazione sul viso di Jader: mi vede già sconfitta. Non sa se incoraggiarmi o insultarmi. Volgo lo sguardo altrove e mi concentro su me stessa: oggi è una passeggiata, ce la posso fare, ce la farò. Allo sparo, la numero due schizza via come una forsennata: quest’anno si è preparata per essere qui al top e sta facendo scintille, beata lei. Io affronto i tornanti con la terza, mi pare un po’ sofferente nell’affrontare le salite. O forse è solo una mia impressione: può essere che mi stia semplicemente controllando, per salutarmi una volta superate le cave di pomice. Fedele alla mia andatura, me la lascio alle spalle – certa di trovarmela nuovamente accanto nel tratto in piano. Invece, percepisco la sua presenza ma non la vedo. Grande tattica. Dolore sotto controllo, proseguo imperterrita anche sull’ultima salita, la più infame: mi giocherò tutto sul finale, sulla discesa a perdifiato. Lascio i freni e vado. Un altro traguardo è conquistato, e ho guadagnato una manciata di secondi. Come dice un amico, adesso non puoi stare tranquilla, ti tocca tirare fino alla fine. Pericolosissimo, per una emotiva come me. Paradossalmente, la mia salute precaria favorisce l’allentamento della tensione: sono talmente occupata nel tenere assieme i vari pezzi di un fisico in rovina, che ho ridotto i margini di concentrazione sulla gara.  Ad impensierirmi, a dire il vero, è il famigerato “tappone”: quasi quindici chilometri, di cui buona parte in salita. Come si fa? Non lo ricordo più. Eppure, non vedo l’ora di affrontare la prova più dura.

Piede sempre una schifezza, alla quale si aggiunge un fastidio nuovo, una strana tensione che sembra irradiarsi dal gluteo in giù. Provo ad allungarlo, persino a sculacciarmi, ma l’ansia sale. Jader mi osserva sconsolato, leggo i suoi pensieri e taccio i miei: anche oggi ti sorprenderò, amore mio, stanne certo. Muoio di paura e scalpito allo stesso tempo: sono in stato confusionale, penso a tutto e a nulla. C’è un’immagine  mi si stampa in mente nei momenti di difficoltà, quando sono sul punto di cedere: la pagina del Moleskine scritta prima di schierarmi in griglia sul ponte di Verrazzano, nel 2005.
Vedo la mia grafia, tonda e ordinata: vedo le parole di una podista spaventata ma sicura, mi vedo e mi sento. Sono sempre io: sono calma e farò una gran gara. Per un buon tratto, io e la terza corriamo appaiate. Quando si stacca, credo ancora lo faccia per controllarmi. Tutto ciò che posso fare è mantenermi sul mio ritmo, non ho alcuna risorsa a cui attingere, nessuna energia da sprecare. Su questo percorso, poi. Tanto spettacolare quanto bastardo. Ti sfianca con interminabili salite, quindi ti illude con piacevoli discese, per poi ammazzarti con nuove impennate: e quando sei lanciato in picchiata, col miraggio del traguardo, ti aspetta un chilometro pianeggiante che corri quasi in ginocchio, tra curiosi e turisti. Ogni volta, arrivata a questo punto, penso di non farcela: so che è finita, ma il rettilineo è interminabile. Le gambe non ne vogliono più sapere:  vorresti spingere, chiudere con un bello sprint, ma sei inchiodata al suolo, se qualcuno ti prendesse a calci lo ringrazieresti. Temi di essere abbattuta e calpestata da tutte le avversarie del mondo, temi di stramazzare a terra prima di involarti sull’arrivo: l’arrivo, appunto, dove accidenti è finito? Eccolo lì, senti il tuo nome, senti annunciare la terza donna. Senti che sei ancora viva, e che qualcuno è forse più felice di te. Sorpreso, vero?

Poi venne il giorno di riposo. Giovedì nero – nonostante lo splendido sole. A rimuginare sui cinque secondi di vantaggio e a piangere su un calcagno irrecuperabile. Non intendo fermarmi, proprio no. Che Vulcano mi assista: questa corsa s’ha da fare, fino alla fine.

Lo confesso: detesto la quarta tappa. Cinque giri nel centro di Lipari, tra turisti distratti e pietrini insidiosi – senza parlare di quella rampa da cardiopalma. Il piede, rispetto a ieri, è quasi nuovo. Duole sempre, ovvio, ma ad un livello tollerabile. Di contro, mi manca l’aria, come fossi in affanno ancora prima di partire. Ansia da prestazione? Cinque secondi sono veramente un soffio. Su questo percorso, poi, l’avversaria è molto più avvantaggiata di me: la sua preparazione e la sua destrezza qui si possono esprimere al meglio. Su di me, solo note negative: infortunata, impreparata, insicura. Rivedo quella pagina, e lascio che si aprano le scommesse. Il mio compito sarebbe controllare, ma da subito mi sento controllata. Più piano di così non potrei andare, aspetto di essere superata per incollarmi. Ma non succede, non al primo giro. Dal secondo, comincio a spingere un po’ di più nella salita, quasi fosse una ripetuta: sprint e recupero, sprint e recupero, sprint e recupero. Ho capito di avere progressivamente guadagnato secondi, ma non sono affatto tranquilla: nell’ultimo giro sono decisamente provata, fisicamente e mentalmente. Ho un buon margine, ma i conti si fanno al traguardo. E i numeri sono con me. L’avresti mai detto?

Matematicamente, potrei già considerarmi terza. Ma la gara finisce con la quinta tappa e, per quanto mi riguarda, tutto può ancora succedere. È vero che in cinque chilometri scarsi è difficile perdere un minuto, ma io resto un rottame e chi mi segue è forte e allenata. Insomma, come si diceva: ti tocca tirare fino alla fine. Un temporale nelle prime ore del giorno ha formato ampie pozzanghere che costringono a qualche slalom. Cerco di controllare nel primo chilometro, pianeggiante, per riuscire a spingere un tantino nel tratto in leggera salita e guadagnare un po’ di strada prima della discesa, dove il vantaggio potrebbe accorciarsi.  Conduco la gara al massimo delle mie possibilità. E realizzo il miracolo.

Un miracolo averla portata a termine, un miracolo avere guadagnato il podio. È il potere taumaturgico di questa terra, non ho più dubbi: gli odori, i colori, i sapori. L’energia che ribolle, che impregna l’aria e penetra la pelle: la respiri, la assimili, pervade le tue fibre. Trasforma gli umori e gli stati d’animo: fornisce carica esplosiva anche alle indoli più afflitte. Qui ho realizzato l’impresa. E non mi riferisco tanto alla mia posizione in classifica, quanto alla mia condotta di gara: a dispetto di tutto e di tutti, non ho mai ceduto. Non ho camminato un solo metro, non ho mai pensato di ritirarmi, non ho mai perso la speranza. Ho sfidato me stessa, i miei limiti e le mie debolezze. Ho vinto, contro ogni pronostico. Soprattutto: ho sorpreso chi ha subito ogni mia lamentela, ogni mia paura, ogni mio sconforto. Era il mio obiettivo, scorgere la sua meraviglia giorno dopo giorno. Obiettivo centrato. Ora, di obiettivi ne ho a iosa: si tratta di continuare a crederci. E lasciare esplodere il vulcano che è in me.



lunedì 18 settembre 2017

Giro Podistico Eolie 2017 - Capitolo 3: ancora Lipari, sempre Vulcano

Da qui si vedono tutte, sette perle placcate dall'ambra del sole che digrada. Persino Alicudi, la più lontana, la più selvaggia. Chissà se ospita ancora quel bizzarro pittore francese che ci incantò con la sua immagine bohémien tanti anni fa. Quanto tempo è passato? Da quanto tempo non osservavamo da questa prospettiva il panorama dei nostri sogni? La salita al cratere è una passeggiata eppure, per una ragione o per l’altra, quella bocca rovente continuava a sfuggirci. Stavolta no, a costo di salire con una gamba sola. Che, in effetti era quello che temevo: più che di dover rinunciare a gareggiare, avevo paura che, costringendomi a farlo, avrei finito col ritrovarmi nell'impossibilità persino di camminare. Ho invece conquistato la mia montagna e ora la respiro, quasi a farla mia, nella disperata speranza di non lasciarla più. 


Siamo a metà dell’opera. Mancano “solo” due prove, anticipate da un giorno di riposo – tanto meritato quanto sofferto. Di rilassarsi non si parla proprio: il fotoreporter parte all'alba a caccia di scenari suggestivi, l’atleta si agita nel sonno col terrore di morire dal dolore alzandosi dal letto. Sopravvivo, ma la situazione è decisamente preoccupante. C’era da aspettarselo. Anzi, sono già andata oltre le più ottimistiche previsioni. Eppure, l’idea che la strada si possa interrompere non mi scuote affatto. Duole sempre ai primi passi, poi si stabilizza e quasi passa in sordina: è stato così nei giorni scorsi, lo sarà anche nei prossimi. Dovrò vedermela con la tappa più antipatica, quella che l’anno scorso ha sancito il mio ritiro: una sfida tra me e lei, e vincerò io. Non ho dubbi. Sto sfidando la logica, la fisica, la ragione. E mi sto divertendo un sacco. Difficile capire dove finisca la mia caparbietà, e dove inizi il desiderio di stupire chi è in ansia per me: la disperata voglia di correre si fonde con l’estrema necessità di non deludere. Troppi errori su queste strade, è ora di finirla.

Cinque giri di un chilometro abbondante, su e giù per il centro di Lipari. Ciottolati, curve secche e turisti distratti: un incubo. Se mi lasciassi trascinare dalla foga degli sprinter sarei spacciata – ovvero, impiccata già al primo muro. Ritmo da crociera anche oggi, è l’unica strategia per restare a galla. Con calma mi avvicino alle due ragazze in più diretta competizione, nella discesa sono leggermente avanti quando, in prossimità del ristoro, un piede si aggancia al mio e trovo l’inferno. In una manciata di secondi vedo scorrere le immagini più catastrofiche: schiantata sui pietrini, paralizzata dalla rabbia e dal dolore. Eh no, stavolta no! Barcollo come un clown, gambe e braccia all'aria, rifiutando di cedere alla forza di gravità. Signori e signore, oggi comiche. E per la gioia di tutti voi, Ridolini resta in piedi. Anzi: più cattivo di prima, parte alla rincorsa di chi gli ha fatto lo sgambetto. Si tratta solo di aspettare il rettilineo più scorrevole e il sorpasso è fatto. Ancora un paio di giri, può ancora accadere di tutto, ma sento che lo scoglio è superato: sto già assaporando lo sguardo stupefatto di chi mi aspetta trepidante, più incerto di me sulle mie reali possibilità.

Potrò dire di avercela fatta solo al traguardo di Vulcano, sabato mattina. Mi piacerebbe, almeno in questa occasione, attivare la modalità “gara”. Perché fino ad ora non l’ho innescata: non mi sono spremuta, non ho tirato alla morte, non ho patito la competizione. Mi sono impegnata il minimo indispensabile, esclusivamente per il piacere di partecipare. Certo giorno dopo giorno, risultato dopo risultato, l’euforia aumentava: anche il confronto con le passate edizioni si faceva sempre meno avvilente. Ovvio che il cavallo cominciasse a scalpitare. Insomma: non intendo lanciarmi come un kamikaze contro il gruppo di testa, vorrei però vivere l’agone fino in fondo. Galeotta è la discesa: come faccio a trattenermi se si parte in picchiata? Lo so che al ritorno questo tratto mi spezzerà le gambe, ma adesso è impensabile non slegarle. Che almeno mi diverta un po’, perché sul piano sono già piantata: qui emerge tutto ciò che mi manca. Senza allenamento, senza attitudine al ritmo, senza prove di velocità non si improvvisa niente: il motore non gira. Per quanto si provi a spingere, sembra di non avanzare affatto. Così arrivo già in affanno sul falsopiano – che vivo come una salita allucinante. Mi sorpassano a frotte, sono una palla sgonfia. Mi concentro sulle mie forze, sull'andatura, attendendo come un miraggio il giro di boa. Peccato che la discesa non sia proprio di quelle che piacciono a me: ti lascia prendere fiato, sì, ma non ti consente di volare. Se non altro, è sufficiente a guadagnare alcune posizioni. Devo sfruttare al massimo questo tratto, per poi sputare sangue sul finale. Un dosso diabolico, poi di nuovo sul piano. Ancora una volta, fianco a fianco con Francesca. Ovviamente lei ne ha più di me, ma è grazie alla sua forza che riesco ad affrontare l’ultima salita con una grinta insperata. Sto morendo, ma è così che vorrei morire: scoppiando di gioia.

Ho vinto. E non parlo della posizione, né del premio di categoria: parlo della mia battaglia.  A tutti quei discorsi su cosa si possa ottenere solo con la forza di volontà non avevo mai creduto. Invece… Non so dove abbia trovato le risorse, né come abbia potuto vincere il dolore: non so quando guarirò, né quando tornerò a correre. Ho però una nuova certezza: posso farcela, possiamo farcela. Non esistono ostacoli insormontabili, solo montagne da conquistare. Come Vulcano. La sua energia non si esaurisce. Ed è in noi.




giovedì 14 settembre 2017

Giro Podistico Eolie 2017 - Capitolo 2: da Lipari a Salina

Servirà a qualcosa questa melma maleodorante? C’è chi la ritiene miracolosa e chi, come la sottoscritta, ai miracoli non crede affatto. È però vero che, quando la situazione si fa disperata, si finisce con l’aggrapparsi a qualsiasi scoglio. Così, eccomi immersa nella pozza, col viso cosparso di fango, a pregare che almeno la pelle, se non le articolazioni, possa uscirne rigenerata. Poi impacchi di ghiaccio, passeggiate nel mare, massaggi di scarico; e ancora: elettrostimolazioni, rullate sulla pallina da tennis, esercizi di allungamento. Un lavoraccio gestire questo tendine, ma non vogliamo fargli mancare nulla: deve capire quanto ci stia a cuore, quanto sia importante che si alteri il meno possibile, quanto sia necessario che ci accompagni paziente fino all'ultimo giorno.

Ho deciso di continuare, quantomeno di provarci. Sarà l’entusiasmo della prima prova, superata al di sopra di ogni aspettativa; sarà l’incapacità di scindere il mio soggiorno alle Eolie dalla partecipazione alla gara; sarà che la fiducia accordatami dalle persone che animano questo evento mi ha trasmesso energia e positività. Insomma: salirò su quella barca, diretta a Lipari. Elettrizzante la seconda tappa: un colpo di schioppo. Qualche tornante, giusto per scaldare il motore, quindi un susseguirsi di saliscendi a tenere alta la frequenza, per poi volare in picchiata fino al traguardo. In un contesto quasi lunare: da uno sperduto villaggio sul mare, sfiorando spettrali cave di pomice, per arrivare sul piccolo porto che sembra attendere i nostri tuffi. Poco più di sei chilometri, da buttare giù tutti d’un fiato. Potendo. Perché oggi la vedo durissima. È necessario un buon riscaldamento, ma da subito il tallone lancia segnali tutt'altro che incoraggianti e temo molto per quando, a qualche centinaio di metri dal via, inizierà l’arrampicata.

Può essere che l’adrenalina faccia miracoli. O forse è il bisogno di correre, la gioia di correre, ad annichilire tutti i dolori. Mantengo la calma, non dispongo di alcuna risorsa per poter rincorrere chissà quale obiettivo. Mi basta riuscire ad avanzare, passo dopo passo, con le mie scarpette, il mio chip e il mio magico pettorale ben spillato. Mi stupisco di essere nel gruppo delle atlete che ieri avevo davanti a me: mi sbalordisco quando, senza forzare, le lascio alle mie spalle. Al mio fianco resta Francesca, e quasi mi dispiace dare vita ad una sfida con lei: perché è un’amica, perché non vorrei si sentisse offesa, perché ci siamo dette che siamo qui solo per divertirci. E allora divertiamoci, ognuna vivendo la sua gara. Io non posso permettermi di andare oltre i miei limiti, già troppo esigui. Posso solo regolare il mio respiro, modularlo sulle difficoltà del percorso, impostarlo sul ritmo della mia falcata. E quando la strada comincia a scendere, resta solo l’aria sottile da attraversare in un baleno, abbandonando ogni ansia e ogni tensione. Finalmente lasciarsi andare. Verso un altro traguardo. Mai come quest’anno ogni arrivo è una vittoria, quale che sia la classifica. Non fermarmi più, ecco cosa vorrei. Infatti continuo a correre, come se dovessi defaticare: come se fossi un’atleta seria. Che di serio, ora, non ha proprio nulla: quel sorriso, incollato sul volto, non accenna a smorzarsi. Quante volte è successo? Quante volte Jader, quasi più emozionato di me, mi ha guardata incredulo, chiedendomi come abbia fatto? Ce l’ho fatta, anche oggi. Domani?

Sapete cosa vi dico? Che domani non ce la facciamo. Ecco la sentenza di Manuele, nel bel mezzo di un soporifero bagno di sole sulle sabbie nere. Lo seppelliamo con una risata e ci buttiamo in acqua per rinfrescare muscoli e pensieri. Vorrei riuscire a distendere entrambi, ma la prospettiva della terza tappa è tutt'altro che rassicurante. La più lunga, la più insidiosa, la più difficile: difficile da interpretare, da gestire, da sopportare. Persino nelle migliori condizioni. Il ricordo della crisi nera dell’anno scorso, a causa della quale mi giocai la vittoria del Giro, scotta ancora. Quest’anno non ho niente da giocarmi, niente da vincere, né da perdere. Cosa mi preoccupa, allora? Il mio tendine, ovviamente, e il mio fisico. Né l’uno né l’altro sono preparati per affrontare quasi quindici chilometri: da maggio ad oggi, la distanza massima che ho messo nelle gambe equivale ai sette chilometri della prima prova, le uscite totali di corsa cinque o sei (a esagerare). Che abbia ragione Manuele?


Vedrai, oggi ti stupirò. Lo affermo convinta, e il bello è che ci credo davvero. Il percorso presenta delle novità rispetto alle precedenti edizioni, ma i tratti salienti li conosco bene, e stavolta non posso sbagliare. Devo partire piano, pianissimo: in fondo non ho scelta, la velocità è lungi da me e altrettanto lontana è la resistenza allo sforzo. Non so se sia più preoccupata del dolore o della capacità di sopportazione. La soluzione è una sola: mettere al bando ogni assillo e godermi le strade di Salina. Come due giorni fa a Vulcano, lascio che tutte si scatenino finché possono. Io sono una semplice tapasciona, ad una qualsiasi camminata domenicale. Ecco Francesca. Non intendo sforzarmi per tenere il suo passo, l’istinto di sopravvivenza ha la meglio sull'agonista che è in me. Ci alterniamo comunque nella salita e recuperiamo diverse posizioni. La parte nuova del percorso si snoda in un dedalo di viuzze dove sembra di giocare a nascondino, con saliscendi che innervosiscono il ritmo. Poi finalmente, la discesa: finalmente posso mollare i freni. So che a due chilometri dall'arrivo mi aspetta un muro dove potrei morire, e so anche che il rettilineo finale mi vedrà strisciare. Ma ora voglio solo sentirmi libera di volare. È uno spettacolo: questo luogo, questa gara,  questa mia incredibile forza. È come se mi vedessi dal di fuori: l’immagine della gioia di correre. Tralasciando per un attimo il suo reportage fotografico, Jader mi incita con foga, annunciandomi che ho guadagnato un incredibile vantaggio sulla terza in classifica. Stai zitto! Non lo voglio sapere: non sia mai che l’ansia da prestazione inquini la mia leggerezza, finendo con attanagliarmi i muscoli. Non devo pensare a nulla, nulla devo ascoltare. Oggi conta solo il qui e ora. Oggi conto solo io: il miracolo di Valentina che corre. E pazienza se sull'ultimo strappo avrò qualche cedimento, pazienza se affronterò l’ultimo chilometro quasi barcollando. Taglio il traguardo in terza posizione. Non so se ridere o piangere.


Te l’avevo detto che ti avrei stupito. Ancora una volta: come hai fatto? Chi può dirlo? Chi può dire quali saranno le conseguenze di questo azzardo? Ci penseremo al momento opportuno, adesso godiamoci una prelibatezza. Del resto, perché non ammetterlo? Lo scopo di tante fatiche è uno solo: intingere la brioche calda in una succulenta granita.

lunedì 4 settembre 2017

Giro Podistico Eolie 2017 - Capitolo 1: Vulcano

Nel certificare che il motore potrà sopportare un altro anno di attività agonistica, il medico sportivo mi chiede quale sarà la mia prossima gara. Saperlo! Tasta il mio tendine acciaccato, legge l’esito dell’ecografia e sentenzia: almeno un anno senza correre. Ottimo. Proprio quello che avrei voluto sentirmi dire, a due settimane dalla partenza del giro a tappe delle Eolie. Non che pensassi di poter gareggiare, ma da lì a vedermi ferma per “almeno” un altro anno…

Mi ero iscritta con le migliori intenzioni, seppure già infortunata. Uscita malconcia dalla mezza maratona di Bibione (7 maggio), confidavo che oltre un mese di stop mi avrebbe consentito di ripartire adeguatamente. Invece, nessuna luce all'orizzonte. E a forza di dire che c’è ancora tempo, il tempo passa e io resto ferma ai box. Comincia a prospettarsi una settimana di solo mare: un sogno per tanti, un incubo per noi. Urge una strategia di avvicinamento acutamente persuasiva: fino all'ultimo istante, vietato accennare al piano B (ovvero l’ultima spiaggia, nel senso letterale della definizione).

Metà agosto, è ora di sondare il terreno. Mi butto nella mischia (si fa per dire) della camminata al Parco Cavaioni. Solo l’idea di accennare un passo di corsa mi terrorizza, vorrei riuscire a non aver il pensiero fisso su quel tallone, ma è impossibile. Mi incammino, in coda a tutti, quasi fossi ad una scampagnata, quasi non ricordassi come si fa a correre: perché di fatto è così. Alle prime falcate mi sembra di volare, un’euforia che mi stordisce, ma basta poco per sentirsi piombare addosso tutta la pesantezza di tre mesi abbondanti di inattività: goffa, scoordinata, tutta storta. Una fantoccio mosso da un marionettista ubriaco. Manca il fiato, mancano i muscoli, manca il ritmo. Non manca invece il dolore. Sopportabile, sì, ma sempre lì, a ricordarmi che nulla è risolto. Però, seppure con diversi tratti di passo, riesco ad arrivare alla fine con un bel sorriso. Quasi quasi ci credo! Tanto da prendere la folle decisione di attaccarmi un pettorale di lì a due giorni: così, giusto per vedere l’effetto che fa. Pazienza se camminerò pressoché tutta la salita – e buona parte della discesa sterrata: è ciò che ho sempre fatto su quel percorso, dove riesco a dare il peggio di me. Disattivata la modalità agonistica, fregandomene altamente sia del crono che della posizione, sono persino capace di divertirmi. Ho sofferto? Un po’, comunque meno di quanto temessi. Che da qui si possa ripartire? L’entusiasmo gioca brutti scherzi, conduce sottilmente all'illusione. Illusione di breve respiro: il giorno seguente zoppico, e sul mio tallone sembra essere cresciuta una pallina da tennis. Reset. Una settimana senza muovere un passo. Mi tuffo in piscina rischiando l’ipotermia, macino chilometri sulla mia mountain bike da strapazzo, mi sfianco di esercizi per potenziare muscoli invisibili. Tutto per giungere ad una sola conclusione: se non sono fatta per correre, lo sono ancora meno per qualsiasi sport alternativo. Ergo: o mi rimetto in sesto, oppure mi dovrò dedicare all'uncinetto.
La camminata paesana del venerdì sera cade a fagiolo. La valigia è ormai pronta, mancano solo le scarpe tecniche. Corro qualche centinaio di metri, mi fermo e penso che dovrò disfare tutto: rimettere nel cassetto short, top, calzini che non potranno servirmi. Poi all'improvviso avverto come una zaffata di zolfo… Riparto, e non mi fermo più. Infischiandomene dell’erba alta, della terra sconnessa, del vento contrario: infischiandomene dei dolori. Ce la posso fare. Ce la farò.

Lo zolfo ora è qui: lo vedo, lo sento, lo amo. Mai come questa volta la vacanza si prospetta incerta, mai come questa volta i dubbi sono superiori alle certezze. La mia costante insicurezza è ora prevaricata dalla triste realtà: le possibilità sono ridotte al lumicino. E non mi riferisco al mio piazzamento, bensì alla mia partecipazione: sarò al via, chissà se sarò al traguardo. La posta in gioco è altissima, e va ben oltre il semplice esito di una gara. Siamo qui a dispetto di ogni logica, contro ogni ragionevolezza: siamo qui da folli, da sognatori. Ed è così che mi presento alla partenza. Senza condizione, senza allenamento, senza prospettive. Andate pure, scatenatevi. Io procedo cauta, con calma, assaporando passo dopo passo il miracolo di esserci. Inizia la salita e il tendine urla. Ho paura: paura che ceda il fisico, paura che ceda la determinazione. Un attimo di tentennamento, giusto il tempo di aggiustare il respiro e rimettersi in carreggiata. Ed ecco la discesa. Solo altri due giri, che sarà mai? Ho già realizzato più di quanto sia riuscita a compiere negli ultimi quattro mesi, e non intendo demordere. Procedo col mio passo: lento, tutt'altro che competitivo, ma incessante. Per non dire instancabile. Al secondo giro comincio a raccogliere cadaveri – io, che sono un rottame. Non avrei scommesso un centesimo su di me, avrei giurato che quella rampa mi avrebbe costretta quantomeno a camminare, invece non mi fermo un attimo. Non sono in trance agonistica, tutt'altro. Nessuno sforzo, nessuna tensione, nessun accanimento: solo la gioia di riuscire a correre, alla faccia degli infortuni, degli allenamenti mancati e delle prognosi catastrofiche. E supero anche una delle favorite. Ormai è fatta. Manca il rettilineo finale, che ovviamente sembra interminabile. Jader, per quanto incredulo, prova a spronarmi: Dai, che ti sta prendendo! Faccio spallucce, in fondo che importa? Beh, dai, un pochino importa. In una frazione di secondo mi ritrovo agonista. Non ho mai avuto il finale, nemmeno al top della condizione. Cosa potrà mai spingere chi non ricorda neppure cosa sia un allungo o uno sprint? Eppure… Eppure ho gestito la tappa in modo superlativo. Me lo dico da sola, ebbene sì. L’anno scorso la vinsi, oggi ho vinto su me stessa. Non so cosa succederà domani. Senza dubbio, tra qualche ora il tallone griderà vendetta: vedremo chi saprà gridare più forte. 

martedì 10 gennaio 2017

Io sono un'isola

Li riconosco al primo sguardo, non appena mettono il naso fuori dal traghetto. Individuo  subito  chi merita di calpestare la mia terra, e chi invece farebbe meglio a tornare da dove è venuto. Naso arricciato, fronte aggrottata, pugni serrati sul manico del trolley: siete ancora in tempo a fare dietro front, risalire a bordo e sbarcare alla  prossima isola. Sopracciglio alzato, occhi sgranati, viso illuminato e smanioso di essere accarezzato dall’aria: siete arrivati, questo è il vostro posto. Lo leggo nel vostro incedere incerto e curioso, nel vostro silenzio gonfio di sorpresa, nel vostro respiro intenso e riconoscente. Siete frastornati, non riuscite a dare un nome a quel formicolio, a quella sensazione che è tanto nuova quanto antichissima, a quello stupore che poi tanto stupore non è. Ci siamo appena incontrati, ma è come se ci conoscessimo da sempre. Non è così che si definisce il classico colpo di fulmine? Lo so, c’è qualcosa di malvagio nel mio carisma, impossibile restarne indifferenti: io per primo non tollero l’indifferenza. Potete  odiarmi, ma non trascurarmi. Siete qui perché mi avete scelto: o perché io ho scelto voi. Voi che adesso siete in mio possesso: non lo sapete ancora, ma non vi libererete più di me. La mia luce dilaterà le vostre pupille, le renderà estremamente sensibili ai riflessi, alle ombre, ai chiaroscuri: non potete immaginare quante sfumature si staglieranno al vostro orizzonte, quanti colori si alterneranno nelle ore che scandiscono giornate mai uguali. Questo azzurro potrebbe all’improvviso mutare in grigio, questo grigio fiorire d’un tratto in giallo, questo giallo adombrarsi di marrone. E il nero, l’avete mai visto tanto luminoso? Vi siete mai tuffati nell’oscurità, vi siete mai immersi nella sua trasparenza? Il sole non si limiterà ad asciugare la vostra pelle: scaldandola, allargherà i vostri pori, così che possa insinuarsi in essi la mia essenza. Penetrerò in voi, col mio odore, con le mie sostanze, con la mia natura. Mi respirate, mi assaporate, sono parte di voi.

Zolfo.  Amo questo odore. E questi fumi che sbottano dalle rocce, dalla terra, dal mare. Forse è il demone che è in me a rendermi così succube al fascino di quest’isola. Come avessi sigillato un patto col diavolo: o con una divinità. Vulcano mi ha rapita, ha esercitato su di me un incantesimo, ha fatto di me una sua creatura. E adesso? Adesso come faccio a voltargli le spalle? Spezzare la magia è terribilmente rischioso, si può finire col perdere l’equilibrio, se non addirittura smarrire il senso della realtà. Ammesso che esista una realtà: che si abbia la certezza di saper distinguere tra vita vissuta e vita sognata. Perché io sono sicura che, anche a migliaia di chilometri da qui, mi capiterà di avvertire certi aromi: annuserò come un segugio, perché avrò bisogno di questi effluvi per ricaricarmi. L’energia primordiale che ribolle sotto la crosta di questa terra si trasmette nel corpo, attraversa le fibre e le elettrizza: perciò non posso allontanarmi troppo a lungo, senza ricaricare le batterie si finisce con lo spegnersi lentamente.  Devo respirarti, Vulcano. Devo viverti. Perché una volta che sei arrivato qui, non esiste più un altrove.




martedì 20 settembre 2016

Giro Podistico Eolie 2016

Provi a scandagliarti, a cercare una risposta dentro di te: nei tuoi muscoli indolenziti, nella tua mente aggrovigliata, nel tuo animo avvilito. Nulla. Non c’è una spiegazione, solo un affastellarsi di ipotesi senza alcuna possibilità di verifica. Assurdo, questa è la parola. Assurdo che, quando tutto sembra procedere alla perfezione, qualcosa si inceppi e il meccanismo vada in tilt. Assurdo che ciò accada a ripetizione, a distanza di anni. Un film già visto, un bruttissimo film: uno di quelli che inquietano, che disturbano il sonno, che appaiono minacciosamente premonitori. E se fossi proprio tu ad indirizzare la profezia verso il suo avverarsi? Se fosse un’inconscia paura di vincere a farti inciampare sul più bello? Se, a prescindere da eventuali difetti nella preparazione e, soprattutto, nell'alimentazione, la causa di tutto fosse proprio la tua atavica mancanza di autostima?

Se quel giorno fossi partita più cauta non avresti esaurito tutte le tue energie a metà del percorso. Affrontare la terza tappa con oltre un minuto di vantaggio sulla tua diretta avversaria ti consentiva di gestire la gara con tranquillità. Chi l’avrebbe mai detto che ti saresti trovata a difendere la prima posizione? La prova iniziale l’avevi condotta con agilità: impegnata, certo, ma senza eccessivo affanno. Hai guadagnato la testa con il minimo sforzo e non ti sembrava vero: ovvio che le gambe volassero, sulla spinta dell’entusiasmo. Del resto, questa di Vulcano è la tua tappa preferita: una salita ostica quanto basta, poi una fantastica discesa dove buttarsi a capofitto, per tre volte. Sorridi a ogni passaggio, e quel sorriso ti accompagna fino al traguardo. Ora sei la leader della corsa, ruolo pesantissimo: è adesso che la sfida si fa dura. Non ci sei abituata. Tanti apprezzamenti, tante parole incoraggianti, tanta solidarietà. E tanti consigli tattici e strategici. Comincia a girarti la testa. Meglio buttarsi in acqua, quell'acqua cupa che tutto sa inghiottire. Affondi i tuoi pensieri, per poi lasciare che le emozioni evaporino al sole. Ti lasci cullare da questa spiaggia stregata: qui tutto viene ridimensionato. Si ribaltano le prospettive, si alleggeriscono gli stati d’animo, si alleviano le tensioni.
Sei pronta per la seconda prova. Nessuna paura, devi solo controllare. Ti incolli all'avversaria che vorrebbe andare in fuga. La lasci tirare, senza affannarti ma senza lasciarle respiro: sei la sua ombra nei primi tornanti, lungo il falsopiano, sull'ultimo strappo prima della discesa. Ecco, adesso puoi farti vedere, scarti e voli giù. La somma dei secondi è una garanzia, tutti già ti acclamano come la vincitrice del Giro. I numeri sono dalla tua parte, le premesse pure. Hai saputo correre con le gambe e con la testa, hai dimostrato forza e caparbietà: basta mantenersi su questa linea ed il gioco sarà fatto. Se non fosse per l’incubo del “tappone”…
Quei cinque chilometri di tornanti in salita, subito dopo il via, fanno scattare l’allarme rosso: quanto soffrirai, quanto potrai concedere alle avversarie, quanto rischi lasciandole andare e quanto restando loro attaccata? L’ultima gara in salita, un mese fa, ti ha lasciato l’amaro in bocca e non riesci a scrollarti di dosso quella pessima sensazione. Provi a scacciare il tarlo rivivendo l’ultima edizione di questa medesima tappa, quando l’avversaria si involò sui tornanti fino ad uscire dalla tua visuale, per poi essere riagguantata – e staccata - in un soffio, nel corso della discesa: aggrappati a questa immagine e ricostruisci oggi quella perfezione. Perché tanta paura? Perché non riesci ad approfittare con scaltrezza del potere del tuo vantaggio? L’altra attacca e tu, anziché farla spingere subito, ti affianchi e fai il ritmo. È vero, adesso l’andatura ti sembra blanda, ma dovresti sapere bene quanto sia duro e sfiancante questo tratto. Finalmente ti decidi a lasciarla correre, ma è ormai troppo tardi. La riprendi in discesa, certo, ma hai già speso troppo. Subire il sorpasso, quando sei ormai convinta di aver riacquistato il possesso della gara, ti spezza le gambe. Resti letteralmente senza fiato. È adesso che deve emergere l’atleta vera, quella con i giusti attributi: che, evidentemente, non sei tu. Perché anziché dirti “Ehi, sei tu la prima, e prima devi restare fino alla fine: vai e fai vedere cosa sai fare! Go, Vale, go!”, crolli come un sacco di patate, fino a farti umiliare anche dalla terza donna. Sei morta. Ti mancano le gambe, ti manca il respiro. Sull'ultimo strappo, quando potresti ancora limitare i danni e recuperare preziosi secondi, ti blocchi inerme, incapace di qualsiasi reazione. Un’ameba. Lo stesso film, lo stesso incubo. Non sei riuscita a rendere felice chi è con te in ogni corsa (e in ogni momento della tua vita), e la sua delusione è la pietra più pesante. Hai deluso tutti: quel tifo che ti ha tanto accompagnata in tutti questi giorni non era meritato. E pensare che solo ieri avevi affermato che, indipendentemente dall'esito del Giro, le prime due tappe ti avevano fornito una grande dose di fiducia - per il seguito della stagione e per quella a venire. Altro che fiducia: come ti rialzi, adesso, da questa caduta? Perché non è solo una questione di posizioni d’arrivo, e non ti rincuora sapere che sei ancora in testa con un margine che puoi amministrare. No. È l’assurdità del prova odierna ad abbatterti, a prospettarti mille interrogativi, a scolorire ogni velleità. Ripetilo all'infinito: riposa, tranquillizzati, credici.
Riposi, non sei tanto tranquilla, ma ci credi. Devi crederci. È la tappa che più detesti, ma non importa: cosa vuoi che siano cinque giri da un chilometro? Basta attaccarsi a loro, ed è fatta. Peccato per quel dolore sotto al gluteo che proprio oggi ha pensato di risvegliarsi, ma l’hai sempre gestito e dopo lo sparo sarà sparito. Ottimo il primo giro, bene il secondo, al terzo cominci ad accusare poi, proprio nell'ultimo, di nuovo piantata. Quando provi a reagire, una fitta lancinante ti dice Alt. Arrivi al traguardo camminando. Riconsegni il chip: il tuo Giro delle Eolie finisce qui. Assurdo.


Vorresti delle risposte, degli strumenti su cui lavorare. Vorresti, soprattutto, riuscire a rialzarti senza troppe ferite. Ti aggrappi alle parole di chi, nonostante tutto, crede in te: te le tatui nell'anima, affinché siano un nutrimento sempre disponibile. Poi lasci che sia Vulcano a fare il resto. L’energia primordiale che gorgoglia sotto la crosta di questa terra si trasmette nel corpo, attraversa le fibre e le elettrizza: la vita è qui, qui ti rigeneri e qui dovrai tornare. 


domenica 14 settembre 2014

14° Giro podistico a tappe delle Isole Eolie

Come giocarsi una posizione da sogno con un errore da principiante.

Con i quasi due minuti di vantaggio, si doveva semplicemente controllare: partire molto prudenti, senza attaccare, gestendo il margine con oculatezza. Era fondamentale non spremersi nella prima parte, tutta saliscendi, per affrontare con buone energie gli ultimi due chilometri di micidiali tornanti: stringere i denti fino al decimo, sapendo che i cinque successivi sarebbero stati tutti in discesa. Invece… Invece ho il terrore di vedermi scappare subito l’avversaria, così parto come una forsennata, illudendomi che i tratti più agili siano sufficienti a farmi guadagnare metri. Così mi sfianco, quasi senza rendermene conto. E l’avversaria, più saggia, mi lascia fare. Fino, appunto, al punto più duro: quando io boccheggio, e lei mi saluta. Qui, una con gli attributi avrebbe raschiato il fondo delle risorse per non perdere troppo terreno. La schiappa, invece, barcolla e molla. Non riesco più neppure a correre, la salita sembra interminabile e sono superata persino dalla quarta donna. Provo a recuperare in discesa, ma lo spirito della perdente ha la meglio. Colpita e affondata, specie dopo le bastonate di Jader – mai visto così infuriato per una mia controprestazione: aveva dato per inossidabile la seconda posizione, e sulla carta lo era. Ma, ormai, l’abbiamo appurato: le gare a tappe riservano sorprese fino all’ultimo giorno. E abbiamo constatato anche che non fanno per me. La gestione di cinque giorni ad alta tensione richiede una mente fredda, calcolatrice, aggressiva. Un’altra testa, insomma, che sappia elaborare le giuste strategie. Ciò che vale per una competizione singola risulta ovviamente amplificato in una prova prolungata: sbagliare una mossa pregiudica, ovviamente, l’intera partita.

E adesso, come affronto il seguito della competizione? Sarà sufficiente il giorno di riposo per ritrovare forza e coraggio? Se non altro, quest’anno la stagione aiuta – almeno qui: dovevamo proprio venire alle Eolie per goderci l’estate.  La notte (tutte le notti) dormo male, ma la giornata di sole è un’ottima ricarica. Un giro in barca per spezzare la monotonia della spiaggia: per lasciarci cullare dall’unico mare che ci sembra irresistibile, per perderci ancora una volta in quel sogno che ci pungola costantemente…

Il circuito di Lipari, la tappa più antipatica: è qui che l’anno scorso sono caduta dal podio, è qui che quest’anno devo difenderlo con tutta me stessa – corpo e, soprattutto, testa. Sto bene, non c’è nulla da temere – se non le mie cretinate. Eccoci: seconda, terza e quarta tutte lì, per un paio di giri. Poi la seconda allunga, io la lascio andare e mi incollo alla quarta. Un vampiro. Mi sta odiando, lo so, ma è una questione di sopravvivenza. Sul finale accenno uno scatto per superarla, ma lei reagisce e io non insisto: oggi va bene così.

L’ultima tappa è una novità. Giro unico, e questo mi piace. Partenza in discesa: questo mi piace ancora di più. Le strade le conosco, so dove sarà più dura e dove potrò spingere a tutta. Potrei comportarmi come ieri, cioè controllare senza spremermi, ma oggi voglio dare il massimo. Peccato per quella rampa, in dirittura d’arrivo: perdo la seconda posizione per un soffio. Ma è la classifica generale che conta. Resta il mistero su quell’incredibile vantaggio dei primi due giorni: possibile che ci sia davvero chi passeggia all’inizio, con la certezza di avere la meglio alla fine? Mi sembra impossibile, per di più con un simile scarto. Perché congetturare? Io sono questa: ogni giorno è “il giorno”, a volte ingrana e altre no, ma non potrei mai studiare le tattiche a tavolino.


Per le premiazioni è stata scelta una sede di gran lusso. Dalla piscina affacciata sul mare, già penso al prossimo anno. È così che funziona: si aspetta l’aliscafo per il ritorno con un groppo alla gola, non c’è partenza più triste. Perché dobbiamo andarcene? Perché non riusciamo a trovare il modo per vivere per sempre su quest’isola? E neppure sappiamo se potremo tornare... I primi giorni, a casa, non si fa che rimuginare su “cosa starei facendo là a quest’ora”, quelli successivi non si fa che rievocare i momenti vissuti; finché non si comincia a curiosare sul web, alla ricerca delle combinazioni di viaggio più convenienti. In sintesi: si vive tutto l’anno in funzione del Giro delle Eolie. E magari si rinuncia a mille altre cose, pur di esserci ancora. È sempre un azzardo, contro ogni logica, oltre qualsiasi senso della ragione. Colpa di Vulcano, della sua anima diabolica: o ti respinge o ti rapisce - una volta e per sempre.


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