domenica 13 ottobre 2019

01:59:40


Ho accolto la notizia con scetticismo, per non dire indifferenza. Un altro circo come quello allestito due anni fa a Monza, giusto per aumentare le vendite di quelle fantascientifiche scarpe – che fanno credere anche all’ultimo dei tapascioni di poter battere tutti i record. Poi comincio a dare un’occhiata a qualcuno dei video che promossi da Ineos. Un’operazione di marketing di tutto rispetto, al fine di rendere l’evento un’esperienza a cui è impossibile sottrarsi. Al centro di tutto c’è l’uomo, prima che il campione: più che i primati, le vittorie, le prestazioni straordinarie, ne viene mostrata l’umiltà, la dedizione, la vita spartana. Una rosa nel deserto. Concentrarsi su un obiettivo e vivere in funzione di esso, senza fronzoli e senza distrazioni, lavorando sulle proprie capacità e fondando su di esse una sicurezza inossidabile.

Sveglia alle 7.30, per essere in perfetto orario davanti alla TV. Non so cosa aspettarmi, non riesco a farmi un’idea circa il risultato, né so cosa mi soddisferebbe: un fallimento, per poter credere che il futuro sia ancora là da venire e tanta strada sia ancora da percorrere, o un successo, per dare una scossa all’intero panorama atletico e far sognare un po’ noi piccoli esseri. Di sicuro io, che sono nata nell’anno del primo uomo sulla Luna, ora sto per assistere a qualcosa di simile.

Le immagini che precedono la partenza assomigliano a quelle di qualsiasi grande maratona: un manipolo di africani che scalpitano sulla linea di partenza. Lo sparo apre le danze: con una coreografia perfetta prende forma lo schieramento che scorta il predestinato verso l’impresa. Sette uomini in posizioni strategiche scandiscono e riparano un ritmo che sfiora l’impossibile. Tutto all’interno di una corsia ben tracciata, seguendo un raggio verde proiettato dall’auto che determina l’andatura. Terminato un giro, con sapienti pennellate sfumano le prime lepri e si innesta il secondo gruppo: la stessa geometria, la medesima figura costruita ad arte. Sì, quello che stanno realizzando questi 41 uomini è un’opera d’arte. Qui non viene sublimata solo la prestanza fisica: quello che è stato pianificato in mesi di studio è un vero inno alla bellezza del gesto atletico. Sono incantata dalla perfezione con cui questi corpi si muovono: e non si tratta solo  della tensione dei muscoli o dell’equilibrio dell’incedere, elementi che si possono ammirare in qualsiasi manifestazione di alto livello. Ciò che rende unico questo spettacolo è la costruzione armonica dei gesti. In una sincronia impeccabile, persino le espressioni sembrano rivelare un ruolo ben preciso: più tesi i volti degli atleti in posizione laterale, più rilassato quello del capitano che precede Kipchoge. Lui, appunto, il fulcro di tutta l’operazione. Non lascia trasparire nulla. Cosa starà pensando? Che cosa passa nella testa di un uomo che sta correndo verso la storia? Impassibile, quasi  come non respirasse neppure. È umano costui? Poi lo vedi sbuffare e capisci che, forse, un po’ di fatica la stia provando. Però, nell’ultimo giro, quando ormai il miracolo ha preso forma, lo vedi attento alle inquadrature: si accorge di essere inquadrato e sorride. Dico: dopo quasi 40 chilometri ad un ritmo forsennato, quest’uomo riesce a sorridere! E il sorriso si allarga a mano a mano che si avvicina al traguardo. Una gioia serena, sicura, intensa. Di chi sa quanto vale e non ha bisogno di ostentarlo. Alza le braccia e si batte il petto verso la linea di un nuovo mondo. Il raggio verde si è spento già da un chilometro, gli angeli custodi sono arretrati: ormai non ha più bisogno di nulla, ormai ha tutto.

Tutto ciò che c’era di costruito, artificioso, commerciale dietro a questo evento, cade in secondo piano. Io ho visto solo uno spettacolo di ineguagliabile bellezza, il capolavoro di un uomo straordinario che ha saputo coinvolgere ed emozionare. Fino alle lacrime.

lunedì 29 luglio 2019

Magiche staffette


Adesso che sono finite, cosa faccio? Mi fermo, di nuovo ai box, guarda caso. Sembra fatto apposta: se ho zigzagato tra gli acciacchi dalla prima all’ultima staffetta, riuscendo ad impegnarmi al massimo ad ogni appuntamento, ora sono sul punto di arrendermi. Il calcagno è insopportabile, non mi concede nessuna tregua. E il mio incedere claudicante destabilizza l’intero organismo. Muscoli e articolazioni in rivolta, mi sto piano piano decomponendo.

Eppure, sembrava che tutto procedesse più che dignitosamente, sono persino riuscita a correre a velocità vicine a quelle dei tempi migliori. Certo, l’esordio non è stato dei più brillanti. Ma in quella fredda sera di inizio primavera potevo avvalermi di diverse attenuanti: totale assenza di allenamento, raffreddore in incubazione, orario, clima e percorso imbarazzanti. Per non parlare dell’inesperienza verso questa tipologia di gara. Di staffette ne avrò corse tre o quattro in tutta la mia vita, in un passato ormai troppo lontano. Non so come si interpretano, né come si gestiscono. So solo che bisogna correre forte. Ecco, qui casca l’asino. Il mio “forte” è all’incirca quello che per i miei compagni di squadra corrisponde al ritmo di riscaldamento. Ho detto compagni, e non si tratta di un refuso. L’idea era quella di ricostruire il fantastico trio del giro delle Eolie 2017, ma il mio entusiasmo coinvolge solo Pez. Il terzo uomo, Daniel, lo conosciamo la sera stessa, e la sua carica sarà determinante. Freddo, pioggerella, buio pesto: condizioni perfette per una pessima figura., Nonostante tutto (soprattutto, nonostante me), non arriviamo ultimi. Una fatica colossale, come una lunga ripetuta - chi se le ricorda più? Scattante ed esplosiva non lo sono mai stata, né potrò mai esserlo, ma se nei prossimi giorni riuscissi ad attivare la modalità “allenamento” qualcosa si potrebbe migliorare. Una certezza comunque l’ho acquisita: quella della staffetta mista è stata un’idea geniale. Non facciamo classifica, non abbiamo nulla da vincere né da perdere: gareggiare senza ansia da prestazione, spremersi al massimo per quei pochi minuti, tra l’incitazione dei compagni. Che, insieme al testimone, ti passano anche la loro foga. Gli avversari non ti considerano, tanto non sei una minaccia: e tu ricambi la cortesia, non curandoti affatto della posizione di chicchessia (e nemmeno della tua). Adrenalina senza stress, è quello che mi serve.

La seconda prova si presenta dopo un mese. Un’altra serata gelida, l’inverno quest’anno non ha fine. E anche questa gara è interminabile: inizia tardi, dura il doppio e termina a notte fonda. Mi tocca correre all’ora in cui di solito abbraccio il cuscino. Mi sarò scaldata abbastanza? Sopporterò le scarpe nuove? Reggerò due frazioni senza cadere a pezzi? Una staffetta moltiplicata per due è una vera agonia. Arrivo in ginocchio, dolorante in ogni cellula. Ma quando leggo la mia prestazione sul Garmin rinasco. Vedi, basta poco. Ci vorrebbe solo un po’ di continuità, tornare alle buone abitudini, riappacificarsi col corpo e con la mente.

L’illusione di un attimo. Provo a riprendere la routine degli allenamenti e alla mia seduta preferita, le salitelle, il polpaccio dice stop. Non avevo mai sofferto in quest’area, e non mi spiego perché da qualche mese a questa parte sia diventato il mio (nuovo) punto debole. Destro e sinistro a fasi alterne. Si deve essere rotto qualche altro ingranaggio: la postura, l’appoggio, la struttura. Sta di fatto che arrivo alla terza prova al culmine dell’incertezza. E stavolta si tratta di un cross, da affrontare con le chiodate: l’ideale per un tallone e un polpaccio andati a male. Mi angoscia l’idea di cedere sul più bello, quando i miei compagni mi aspettano al varco. Invece… Saranno state le scarpette fiammanti, o l’erba fresca, oppure l’energia di un pettorale e di voci incitanti. In quel terreno accidentato, tra quei zigzag, ho volato. Il polpaccio? Chi ci pensa più. 


Castenaso, di nuovo erba, e per finire un po’ di pista. Questo campionato permette di sperimentare ogni sorta di terreno, mi dovrò adeguare. La nostra squadra, del resto, deve adeguarsi alla defezione di Pez, che preferisce solcare altre strade. Peggio per lui, fortunatamente non mancano degni sostituti. Fabio prima, Ladislao oggi. La parola d’ordine è divertirsi. E poco importa che quello che ho stampato sul volto assomigli più ad un ghigno che ad un sorriso. Ogni volta credo di morire, ma ogni volta mi sento al settimo cielo.

Arriva giugno, e la mia staffetta preferita. Non chiedetemi perché. Obiettivamente di bello non ha proprio nulla: strade anonime in una zona squallida. Forse perché è stata la mia prima staffetta, nei miei anni migliori; forse perché qui mi sono espressa degnamente anche in tempi non troppo remoti. Insomma, per gli arcani misteri del cuore, al Pioppeto sono affezionata e sono oltremodo contenta di poterla affrontare. Spingo al massimo nei rettilinei, cerco di non rovinare tutto nelle curve, e realizzo un tempo per me stratosferico. Sono talmente entusiasta da lasciarmi convincere a partecipare al diecimila della domenica successiva: le colline del Secchia. Bella corsa, per quel po’ che ricordo: poteva essere il 2003 o il 2004, correvo per il Ghinelli e andammo in rappresentanza della Uisp per contenderci non so quale trofeo. Diluviava, e un’avversaria di stazza mastodontica cercò di farmi fuori con una spallata – non mi è ancora andata giù. Me la ritrovo sulla linea di partenza anche stavolta. La domino per un po’, fino al risveglio del tallone maledetto. Se al dolore aggiungiamo la scarsa condizione generale, ne esce una gara penosa.

Una decina di giorni per rimettermi in piedi: si gioca in casa, vietato mancare. Manca invece Daniel, anche lui acciaccato: e io che pensavo di avere l’esclusiva dei malanni.  Fabio e Ladislao sono i miei fidi scudieri. Il drago da infilzare consiste in un perimetro rettangolare di un chilometro scarso, ostacolato da fittoni e tratti bui, da ripetere due volte. Esatto, un’altra staffetta “doppia”. No, questa formula non trova alcun consenso, ma vediamo di farcela piacere. Come sempre, temo di fallire, di crollare anzitempo. Invece, denti stretti e cuore in gola, mi spremo fino all’ultimo metro.

Percorso bizzarro quello di Casalecchio. Un po’ di asfalto, un po’ di erba e un po’ di bossoli. Siamo in un campo di tiro a volo, e meno male che non siamo noi i bersagli. Troppe curve, secche, a gomito; troppi cambi di direzione e di terreno. Fatico a spingere, non trovo passo né ritmo. Stavolta non mi sono piaciuta, e il calcagno riprende a disturbare troppo.

Una settimana difficile quella che precede la staffetta di Ca’ de Fabbri. Il dolore è di nuovo al centro della mia attenzione, ancora a disturbare il mio quotidiano. Rincorro una sorta di condizione atletica che continua a sfuggirmi, e la sconfitta è sempre più concreta. Devi insistere, convincerti che è solo una questione di resistenza: di riabituare il tuo piede e il tuo organismo al gesto della corsa. Puoi riuscirci solo correndo. Già, ma come? Con un coltello conficcato nel calcagno, con muscoli, tendini e ossa tesi e disarticolati come in un burattino impazzito? Non è meglio rassegnarsi all’evidenza? No, non ci riesco. E porterò a termine anche la penultima prova. Impegnativa come tutte, come tutte tirata al massimo. Ridicola in termini assoluti, importantissima per me. 
 

Affossare l’entusiasmo è questione di un attimo. Basta avvertire di nuovo una scossa al polpaccio, e tornare sui tuoi passi con la coda tra le gambe. Dai, che non è nulla. Un bel massaggio, qualche giorno di riposo, e sarai pronta per l’ultima staffetta. Forse. Intanto, di riprendere ad allenarsi non se ne parla proprio. Riesci giusto a sgambettere attorno a casa, come nemmeno l’ultimo dei tapascioni. Quasi speri che la prova della Ca’ Bura venga annullata. Con questo diluvio, tra tuoni e fulmini, sarebbe legittimo: ne va dell’incolumità dei podisti. Invece no, bisogna rendere onore al gran finale. Così non resta che confidare nell’effetto del Voltaren – e in quello del pettorale. Quando Daniel mi passa il testimone, do sfogo a tutta la grinta e la rabbia che ho in corpo. Cerco di non farmi intimidire dalla salita scivolosa, e di minimizzare i danni in discesa. Ora dovrei sprintare fino al traguardo, ma fatico a tenere alto il ritmo. Potevo chiudere meglio, non mi è riuscito. Scarsa di rendimento, di condizione, di tutto. 


Adesso che sono finite, cosa faccio? Manca un mese all’evento più importante dell’anno e io sono lontana anni luce dall’essere pronta. Contavo nella ripresa, ma qui si continua ad affondare. Peggio dell’anno scorso. Con le ambizioni azzerate, anche le speranze si riducono al lumicino – e l’idea di mollare definitivamente tutto si fa sempre più assordante. Non vedo appigli, e il naufragare in questo mare non mi è affatto dolce. Mi aggrappo a chi ancora crede in me. Dobbiamo essere più forti del dolore. Ricordamelo ogni giorno, ogni istante.


martedì 23 aprile 2019

Da Lovoleto a Soragna, attraverso la Romagna: la sfida è iniziata


A ogni incontro con la primavera
non so star quieta – sorge il desiderio
antico, un’ansia mista ad un’attesa,
una promessa di bellezza
e una gara di tutto il mio essere
con qualcosa che in essa si nasconde.
Quando la primavera svanisce
v’è il rimorso di non averla guardata abbastanza.
(Emily Dickinson)

Rassegnarsi o perseverare? Ammettere l’ineluttabile o confidare in altri orizzonti? In termini concreti: accontentarsi di quattro passi in compagnia o impegnarsi per nuove sfide? Credendoci ancora. Che sia questo l’errore? Credere nell’impossibile. Come se le favole avessero un fondamento, come se a tutto potesse porsi rimedio. Non essere così negativa, ti dicono. Già, perché mai dovrei esserlo? Perché abbattersi se dopo due anni, due interventi chirurgici, infiniti farmaci e terapie d’ogni sorta l’unico risultato è il nulla? Proviamo pure a non pensarci e corriamoci sopra. Che magari, così come è arrivato, quel dolore se ne andrà, hai visto mai. Dimenticati di lui, come se non esistesse: anzi, come se non fosse mai esistito. Cancellalo dai tuoi pensieri, dal tuo vissuto: rimuovilo da tutti i ricordi, da ogni pagina della tua storia. È altro da te. Tu non sei quel dolore: tu sei GoValeGo! Che non significa piangere sulla beata gioventù che non può tornare: significa concederti la possibilità di gioire ancora. Qui e ora. Gioire della sofferenza: quella bella, data dai polmoni che esplodono, dalle gambe di piombo, dalla vista che si annebbia nel fissare il miraggio del traguardo. Questa è l’agonia che ti rende viva. Vuoi proprio che uno stupido calcagno infiammato, un noioso muscolo contratto, una banale influenza ti sottraggano la tua linfa vitale? Probabilmente nella tua vita precedente eri un orribile criminale, e ora stai scontando tutte le tue pene. Ma verrà il giorno del riscatto, e dovrai essere pronta. Non importa se ora ti senti un gambero (per tre passi avanti, due sono a ritroso); non ti curar del male che un giorno sembra dormire e il giorno dopo scalcia come un indiavolato; non contare i troppi secondi che appesantiscono la tua media al chilometro. Concentrati su quel chilometro in più, su quel sorpasso che non speravi di compiere, sulla meraviglia di ciò che stai realizzando. Stai correndo. Non come vorresti, non quanto vorresti. I risultati non ti soddisfano, le incertezze ti destabilizzano, il supplizio è una costante. Ma tu non abbassi la testa. Anche a costo di sfiorare il ridicolo. Perché buttarsi in una staffetta composta da soli uomini, rischiando l’ultimissimo piazzamento, richiede un grande coraggio. Così come inanellare quattro gare in tre settimane, senza nessun allenamento, sfidando acciacchi cronici, contratture nuove, tosse, febbre e… Cosa manca? Forse un giorno troverai un bravo esorcista. Nel frattempo, si sappia che GoValeGo è viva e lotta insieme a voi. Antipatica come sempre, scontrosa e intrattabile come solo lei sa essere. Ma smaniosa di buttarsi a capofitto su di una tosta tabella di allenamento, verso allettanti obiettivi. Che ad aggiustare il tiro c’è sempre tempo.

Per la cronaca, queste sono le recenti competizioni sulle quali ho lasciato un’insignificante traccia:
  • 31 marzo – 5mila di Lovoleto (non ultima, ma quasi)
  • 7 aprile – 10mila di Alfonsine (non correvo 10 km da novembre)
  • 12 aprile – Staffetta della Montagnola (1km di agonia, più piano di così si cammina, ma che ridere!)
  • 14 aprile – 5mila di Russi (la miglior media dell’ultimo anno di corsa)
  • 22 aprile – 9,8 km, Criterium degli Assi a Soragna (tosse, febbre, antibiotici: cosa aspettarsi?)

What’s next? Difficile dirlo. Sogno il giorno in cui potrò affermare con determinazione i miei progetti immediati e futuri. Per ora so che oggi mi alienerò sui rulli: l’inverno è duro a morire, ma io lo sono di più.



venerdì 1 marzo 2019

Trofeo Otto Comuni - Finale


Mi si nota di più se vado e non mi piazzo, o se resto a casa e realizzo che avrei potuto piazzarmi? Sì, ma quante possibilità ho? Il calcolo delle probabilità è a mio sfavore, e l’idea di guidare un’ora per correre 6 chilometri non alletta molto. Però, qual è l’alternativa? Tentare una corsa solitaria, col rischio di fermarmi a ripetizione per il dolore, oppure partecipare alla camminata domenicale, col sorriso di circostanza di fronte ai tanti come stai. Domenica rovinata in entrambi i casi. Certo che, anche andare fino là per un pugno di mosche… Insomma, mai una volta che prendi una decisione senza se e senza ma. Vai a quella cacchio di gara, somara! Ne avessi corsa almeno un’altra, il podio del trofeo sarebbe assicurato. Così invece puoi solo sperare in magico incrocio di evenienze: un numero al lotto, perché la tua condizione non ti concede nessuna certezza. Nemmeno quella di riuscire a completarli, quei miseri sei chilometri. Puoi solo fare affidamento sulla santa adrenalina, grazie alla quale dolori e affanni vengono ridimensionati – mentre nei pochi e maldestri allenamenti danni fisici e turbe mentali incombono come mannaie, aggravando ogni minuto di corsa. Esasperante.

Due giri, non mi piace: non amo tornare sui miei passi, preferisco l’andata e ritorno, vedere l’arrivo solo alla fine. Partenza imbottigliata, strade strette, curve e ricurve. Scalpito. E mi innervosisco. Il primo chilometro è decisamente lento, e le mie avversarie sono tremendamente lontane. Che poi, quali sono le mie avversarie? Non so proprio con chi mi stia giocando il terzo posto e, onestamente, preferisco non saperlo. Ho risorse limitate, che gestisco a fatica. Questa distanza, poi, per me è un’assoluta incognita. Non così corta da permetterti di sparare tutto e subito, né così lunga da consentirti giochi tattici. Senza contare il fatto che io, quanto a tattica, sono sempre stata una schiappa. Domenica scorsa sono partita come un razzo, per poi pagarla nel finale. Oggi, con l’intasamento, ho da subito tirato i freni, ma poi? L’aria è decisamente fredda, troppo per i  miei gusti. Rispetto ad una settimana fa, mi sento più impacciata. Cerco di curare l’andatura - piedi gambe braccia, controlla! Sarebbe bello sciogliere le briglie nel secondo giro, è così che si dovrebbe fare. Se solo avessi più chilometri nei miei muscoli, se solo avessi potuto allenarmi decentemente…succederà mai? Non è il momento, nessun dubbio è ammesso ora: ora l’imperativo è spingere al massimo fino all’ultimo metro. Insomma, più o meno. Impegnarsi, dai: che non si dica potevi fare meglio.   

Sarebbe bello se, a giochi conclusi, si potessero consultare le classifiche. Invece no, tocca assistere alla premiazione di tutte le categorie, dai neonati agli anziani. Naturalmente, le vecchie sono le ultime ad essere considerate. A teatro ormai svuotato, apprendo che potevo tornarmene a casa subito. Pazienza. Ci ho provato, no? Vado a sfogarmi un po’ sulla cyclette, meditando sul da farsi nei giorni a venire. Senza un obiettivo mi manca la motivazione; senza uno stimolo mi manca la forza di sfidare il dolore. Rischio di spegnarmi proprio quando la stagione va accendendosi. Reagisci!



martedì 5 febbraio 2019

Cross di Rubiera: a volte ritornano


Devo ancora metabolizzare la mia prestazione alla Cinque Mulini, quando mi si prospetta l’opportunità di partecipare ad un altro cross. Non ci starai mica prendendo gusto? Sono io la prima a non capacitarmi.  Dove si sono nascoste tutte le mie paranoie? Dov’è finita la Valentina irresoluta, recalcitrante, quasi sprezzante? Quella che, undici anni fa, riflettendo sul cross di Rubiera, si esprimeva senza mezzi termini (qui)? Polverizzata, insieme ai frammenti di un calcagno martoriato. Sempre lui il responsabile: è lui che, ormai da due anni, determina i miei movimenti – nel senso più ampio del termine. Li consente e li vieta, a fasi alterne, senza logica. Un interruttore: mi accende e mi spegne, buio e luce, luce e buio. Da stordire. Brancolando tra ombre e abbagli, mi butto dove capita. Pur di correre. Quello che non uccide fortifica, si dice così? Sia crisi di astinenza oppure rifiuto di marcire nella fossa: si tratti di irresponsabilità o di istinto di sopravvivenza, il risultato non cambia. Jader intende fotografare una gara? Allora gareggio anch’io. Nei limiti del possibile, ovvio. Sempre col dubbio, va da sé. Intanto mi iscrivo, poi vedremo. Vivere nella nebbia è deprimente: mi manca l’orizzonte. Mi butto nella mischia per godere di una botta di adrenalina, per sentirmi viva e combattente, ma la lotta è sempre impari. L’illusione di un attimo.

foto: https://www.facebook.com/Jadersimages/
Però, come puoi pensare di rinunciare a tutto questo? Quando persino le condizioni più avverse non ti piegano, quando non ti curi di pioggia, fango e neve, quando salti i fossi come non avessi mai fatto altro nella vita (beh, quasi): questo è il tuo mondo, non ne esiste uno diverso. Arrivi al campo e inizia il diluvio. Non credo di farcela, sospiri. Non sei obbligata, ti rincuorano. Naturale, perché dovresti esserlo? Eppure è così che ti senti: obbligata verso te stessa. Rinunciare sarebbe semplice, quasi scontato: in una giornata così, nessuno ti biasimerebbe. Torneresti a casa asciutta e indenne. Peccato che ti ritroveresti rammaricata e abbattuta. Se proprio devi abbatterti, fa che avvenga al termine della battaglia. Armati di chiodi e buttati. Coprirsi troppo non serve, i tessuti si inzuppano, mentre la pelle può resistere. Questione di minuti. Il percorso, già solcato dalle categorie precedenti, è ridotto in poltiglia. L’alternativa è correre sulla neve, più compatta. Dovendo scegliere il male minore, preferisci affidarti all’istinto – cioè, preoccuparti esclusivamente di procedere senza volare a terra. Temi di non farcela, non tanto per le difficoltà strutturali, quanto per la tua forma fisica: del tutto inesistente. Gambe piantate e respiro affannato, annaspi nella melma temendo di affogare. Perché tanta fatica? Perché come un’oca sei partita in tromba,  perché da una vita non riesci ad allenarti, perché queste gare non ti saranno mai congeniali. Dai, ancora tre giri, cerca di sopravvivere. Che dopo un po’ il ritmo si fa amico e smetti di sentirti ridicola. Stai correndo, eccome se stai correndo. Non sarai un esempio di stile, ma hai conosciuto momenti peggiori. Ebbene si: la tua figura più misera l’hai realizzata quando eri giovane e forte. Adesso, vecchia e malandata, ci credi più di allora. Ti impegni a spingere, a non badare al piede che scivola, a gestire gli appoggi incerti. Ultimo giro. Il cuore in gola, vorresti abbandonarti al pensiero che ormai è fatta e brancolare fino al traguardo. Invece no, tenere fino all’ultimo, così bisogna fare. Spremiti fino all’osso, guadagnati l’orgoglio che ti devi. 

Credo di essere arrivata ultima. Credo che da domani tornerò nel mio guscio uggioso. Ma oggi mi sono proprio divertita. Fatemi giocare ancora!

mercoledì 30 gennaio 2019

Cinque passi nella storia: la Cinque Mulini


Avendo ormai constatato che la medicina è un’opinione e che, oltre ad essere zoppa, sono ormai anche bipolare, cerco di sopravvivere a questo inverno che sembra non avere fine (e non mi riferisco a quello astronomico). Il dolore aumenta, e nessuno sa spiegarmi il perché: perché, fisiologicamente e anatomicamente, non sussiste nulla che giustifichi una simile sofferenza, non in quel punto e non in quella forma. Qualcuno lo esponga anche al mio calcagno, vi prego: non ne posso davvero più. E non si tratta solo dello sfinimento provocato dalla sensazione di un coltello infilzato nel tallone, dal non riuscire a camminare umanamente, dal non trovare una scarpa adatta né una posizione tranquilla. È il non arrivare a dare un nome a questo supplizio ciò che maggiormente esaspera: non conoscere il nemico, ignorare contro cosa combattere, perdere fiducia e speranza verso il mondo intero. Due settimane senza muovere un passo di troppo, un’infiltrazione, una manipolazione, un paio di dosi di antinfiammatori: vediamo cosa succede. Proviamo, almeno, a festeggiare correndo i nostri compleanni. Per poi ricadere nel tunnel. Voglia di sparire, di non farmi vedere, di eliminare qualsiasi forma di contatto: a nessuno interessano le mie disgrazie, sono venuta a noia perfino a me stessa. Non ho nulla di nuovo da raccontare, nulla di vecchio che valga la pena riesumare; niente da chiedere né tantomeno da ascoltare. Riesco solo a piangere. So benissimo che non serve a nulla, che non è la soluzione, che le disgrazie vere sono altre. Ma questa nebulosa in cui vivo ormai da anni è sul ciglio di un buco nero. Ho paura. Paura che le risposte tanto anelate possano all’improvviso rivelarsi indesiderate; paura di perdere di vista i pochi punti di riferimento a cui mi sto aggrappando; paura di abbandonarmi, trascurarmi, abbruttirmi. Fa che la passione continui a bruciare, affinché non manchi la forza per reagire.

Le reazioni di un individuo al limite della sopportazione sono spesso sproporzionate. Un giorno mi sento uno zombie e fatico ad alzarmi dal letto, il giorno dopo mi iscrivo ad una gara che nemmeno nei miei anni d’oro avrei pensato di affrontare. Avevo addirittura sempre creduto che la Cinque Mulini fosse roba da extraterrestri, non mi ero proprio posta la questione che potesse esserci spazio anche per i comuni mortali. Invece, incredibile a dirsi, possono correrla anche i rottami come me. Oddio, perché voglio farmi del male? Semplice: me ne farei molto di più restando a casa o, peggio ancora, inducendo persino il “mio” fotografo a non andare. Miseri e tapini a flagellarsi a vicenda, che bel quadretto. No, grazie, mi sono già fustigata abbastanza. Se devo proprio soffrire, che almeno soffra correndo.

Dopo una notte trascorsa a combattere coi miei spauracchi, il campo sportivo pare un luogo celestiale. Sono emozionata. E non si tratta della consueta tensione pre- gara, che tanto dalla competizione mi aspetto ben poco. Mi entusiasma perlustrare i sentieri che ho sempre visto in TV, mi eccita pensare che tra poco solcherò anch’io quei tracciati. E quei mulini! Il passaggio al loro interno è uno spettacolo unico, ripenso a quanto ci faceva ridere immaginare il mio caracollare in una simile situazione. Ti vorrei proprio vedere su quei gradini. Ecco, oggi mi vedrai. Non mi spaventano, neanche un po’. Nulla mi spaventa ora. La mente è completamente sgombra: intendo semplicemente godermi il momento. Fatico un po’ a trovare il mio assetto, meglio dire che non lo trovo affatto. Le variazione del terreno mi creano qualche difficoltà, dovute soprattutto alla mia totale estraneità alle scarpe chiodate. Paradossalmente, comincio a sentirmi a mio agio una volta in mezzo ai campi. Nonostante le buche e i fossi da saltare, riesco persino a guadagnare qualche posizione. Quando me lo ricordo, cerco di controllare l’andatura: sollevo le ginocchia, oscillo le braccia, spingo sui piedi. Insomma, ascolto le voci. Difficile esprimersi sul risultato, ma intanto metà gara è andata e i mulini sono nei paraggi. Qui il fondo è più duro, e i chiodi risultano fastidiosi. Ma dico, stai correndo nella storia, te ne rendi conto? La gente, le luci, io che entro e calpesto il tappeto verde. Si fa appena in tempo a realizzarlo, e Jader sta quasi per perdersi il mio grido di gioia, avendomi dato forse per persa. Un altro ingresso, altri gradini, poi via, verso il tratto più duro. Certo, l’ultimo chilometro è sempre il più ostico. Vorrei spingere ma non ho più le gambe, o forse è il fiato che manca, oppure entrambe le cose. L’incapacità di dosare le forze, di decidere quando staccare, quando partire alla morte. La mancanza di allenamento, la scarsa attitudine alla competizione, la paura di non farcela. È in momenti come questi che mi servirebbero incitamenti a squarciagola. Sarà una mia debolezza, ma ne avrei davvero bisogno. Ecco perché mi ha tanto commossa la scena di Daniele Caimmi che correva gridando accanto a Meucci: l’allenatore che sprona il suo atleta, lo carica, lo spinge virtualmente. Ho avvertito la passione, la dedizione, l’affiatamento: una sinergia esplosiva, che produrrà senz’altro eccellenti risultati. Ma quello è un altro pianeta, che ho ammirato una volta conclusa la mia piccola fatica. Da brava perenne insoddisfatta, posso confessare che la posizione e il crono mi inorridiscono, e tutti i bla bla bla sulla mia schifosa condizione fisica consolano ben poco. Non mi sono spremuta abbastanza, sempre troppo prudente e controllata. Insomma, non ho aggredito la gara. Però… Che spettacolo! Lo sto realizzando lentamente, giorno dopo giorno, che ho preso parte ad un evento straordinario: e lentamente sto caricando le pile. L’inverno è ancora lungo, ma ha le ore contate.




giovedì 3 gennaio 2019

Di corsa verso la fine dell'anno - S. Agata e Masi S. Giacomo


Siamo nel pieno di quella stagione in cui ti chiedi se mai rivedrai il sole. L’inverno, da noi, è un film in bianco e nero: giornate monocromatiche, opache e lattiginose. Perfette per l’umore, del tutto adeguate alla mia condizione. Lo stato d’animo di chi brama per un barlume da oltre un anno, di chi ha ormai assunto le sembianze di quel paesaggio: inerte e ammuffito. Si azzerano i tempi di reazione, si annichilisce l’entusiasmo, spenta è la motivazione. Il gelo impera, sui campi e sull’indole. Può una zoppa arrischiarsi su strade ghiacciate? Proprio no. Meglio dirottare su attività alternative, giusto per non rattrappirsi. Trascinarsi fino alle feste, lasciarle scorrere come niente fosse, e presentarsi sulla linea di partenza con i soliti dubbi: raggiungerò il traguardo? Che angoscia. Ogni giorno chiedermi se e quanto riuscirò a correre, sondare di volta in volta lo stato dei vari acciacchi, evitare di posare lo sguardo sul calcagno per paura di vederlo paurosamente lievitato. Cosa c’è lì dentro che non mi dà pace? Cosa devo fare (o non fare) per uscire da questo stallo? Non pensarci, non ora. Oggi ho una grande opportunità: quella di attaccarmi a una lepre – sperando non decida di abbandonarmi al mio destino. Ma certo che lo farà, impossibile sopportare la mia andatura da passeggio. Sono anzi io a spronarlo: vai pure, tu che ne hai. Ma figurati, stiamo andando benissimo! Ad ogni chilometro controlla la media e mi rassicura. Sarà. Io devo fare i conti col dolore e con la mia pessima forma: cosa aspettarsi da chi corre poco e male, da chi vorrebbe onorare complesse tabelle di allenamento, ma a malapena riesce a seguire uno straccio di schema? Dai, che all’ultimo giro andiamo a prendere quella là. Certo, aspetta proprio me. Significherebbe dare tutto proprio nel finale, impossibile quando mancano le risorse da cui attingere. Proprio impossibile? Sembra di no: sembra che lo spazio tra me e l’altra si stia restringendo, pare davvero che mi stia avvicinando. Nonostante senta di non averne più, nonostante anche lei sia scortata. Effettuato il sorpasso, monta l’orgoglio. L’obbligo è non farsi riagguantare. Pazienza se ci supera un marciatore, pazienza pure se ci doppia il vincitore della gara. Ormai si tratta di affrontare l’ultimo chilometro: quello in cui non si vede la fine, quello nel quale le gambe diventano piombo, quello che affronti annaspando come un pesce fuor d’acqua. Traguardo raggiunto. Degnamente. Grazie al gabbiano che mi ha protetto con le sue ali. Avevo dimenticato cosa significhi avere qualcuno che ti accompagna, che sa incoraggiarti, motivarti: ti distoglie dai pensieri più cupi e ti lancia una sfida. Perché devi meritarlo, quell’aiuto; devi essere all’altezza, non puoi permetterti cedimenti, guai deludere chi ti porge il fianco. Sono stata brava, siamo stati bravi. Sì, ma poi? Poi succederà che, esaurita l’adrenalina, il calcagno presenterà nuovamente il conto e se ne fregherà del ghiaccio e dell’arnica che gli verserò addosso. Mi rialzerò zoppicando e zoppicando trascorrerò la giornata. Fino a quando non riproverò a correre, sempre con lo spirito di un condannato: uscire senza sapere cosa succederà.  


Concludere un allenamento è già una vittoria, ovviamente non prendendo in considerazione i tempi. Sempre senza avere un idea dei tempi mi ripresento su un campo di gara. Per l’esattezza, un gomitolo di strade tra i campi, nel gelido abbraccio della nebbia. Sono le terre della mia infanzia, qui ho respirato i primi tre anni della mia vita. Anche per questo ho voluto essere presente. Non mi era mai capitato di correre in prossimità del luogo in cui sono nata, luogo di cui ho ricordi sfumati – così come sono sfumati dalla bruma i contorni di case, alberi e persone. Temo che, quand’anche sopravvivessi al dolore, oggi sarà il freddo a finirmi. Fatico a respirare, l’aria gelida penetra il mio essere rendendomi catatonica. Vi prego, fateci partire prima che muoia. Un giro attorno al caseggiato, appena cinquecento metri, poi fuori, verso il nulla. Subito un cavalcavia, tanto per spezzarci subito le gambe. Nonostante tutto, il primo chilometro risulta abbastanza veloce. Per modo di dire, certo. Insomma, più di quanto avessi ipotizzato. È che in questo stato di “corsa e non corsa” fatico ad avere una percezione della mia andatura, mi manca proprio la sensibilità al ritmo. Stavolta, poi, non ho nessuno a cui affidarmi. Posso contare solo su me stessa – il che è tutto dire. Ad un certo punto le strade di chi va e di chi viene si incrociano, un giro di boa e siamo di nuovo sul cavalcavia. Accidenti, vogliono proprio renderlo cattivo questo Trofeo 8 Comuni. Ancora un passaggio in paese, prima di perderci nelle lande desolate. Non è uno scherzo. Quando scocca il sesto chilometro, cioè l’ipotetica distanza della gara, prevale il senso di smarrimento. Non ho la minima idea di dove siamo, né di dove sia l’arrivo. Un margine di errore ci sta, non mi aspettavo certo un percorso misurato al centimetro, ma qui si vede solo campagna. O meglio, non si vede proprio nulla. Nebbia, nebbia e solo nebbia. Suona il settimo chilometro, la situazione si fa grottesca – per non dire drammatica. Quanto mancherà? Sarebbe bello saperlo. Invece davanti a noi si profila l’ennesimo cavalcavia. Oh no! È quello di prima o è un altro? Siamo quasi alla fine o da tutt’altra parte? Intanto, pur arrancando, in salita supero una ragazzina in seria difficoltà. Poi, in discesa, agguanto anche un’altra podista. Odo delle voci: a meno che non stia delirando, il traguardo si avvicina. Otto chilometri e spicci. Pare che il tragitto sia stato improvvisato sul momento.
Non so se sia peggio questo, o fare la fila per transitare sull’arrivo. Prendiamola in ridere, che sono ancora viva. E, nonostante tutto, ho corso pressoché allo stesso ritmo di qualche giorno fa. Mi godo il momento, che so avrà breve durata. Tra poco tornerò a zoppicare, e a domandarmi se e quanto riuscirò ancora a correre.

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