lunedì 10 dicembre 2018

Strisciando verso il Cross di San Lazzaro


L’equilibrio è un’arte. E io, naturalmente, non sono un’artista. Ho giocato d’abilità per mesi: con cocciutaggine, determinazione e speranza. Agendo sulla fiducia – e sull’esasperazione. Ma destreggiarsi su un filo significa esporsi all’imprevedibilità degli elementi: destabilizzarsi è questione di un attimo. Il freddo, il buio, la nebbia. Gli imprevisti, le sgradevoli sorprese, gli acciacchi di stagione. Tante, troppe condizioni sfavorevoli: la caduta è inevitabile. Sbam! A terra. Ovviamente succede quando stai marciando a testa bassa, spinta dalle migliori intenzioni. Il primo stop lo decreta la bronchite: tosse lacerante, antibiotici a dosi massicce, impensabile muovere un passo. Una settimana scivola via così. Quando ti decidi a rimettere fuori il naso, tocca subire le grida acute provenienti dal calcagno. Ma come? L’avevi tenuto a riposo per diversi giorni, dovrebbe essersi tranquillizzato almeno un po’… Macché, più incazzato che mai. Stringi i denti e porti a termine l’allenamento. Così pure il giorno successivo, completando con entusiasmo un’interessante seduta di sprint in salita e sul piano (adoro questa fatica). Peccato che il resto della giornata lo trascorri zoppicando, e quando in seguito riprovi ad accennare un movimento di corsa incedi come un burattino impazzito e una fitta alla schiena quasi ti abbatte al suolo. Torni a casa mestamente, cercando di controllare le scosse inquietanti che si irradiano dal gluteo. Non riuscire a correre è drammatico, ma non poter camminare è oltremodo tragico. Affidiamoci al riposo e a mani sapienti, magari si è trattato solo di un colpo di vecchiaia. Così domenica mattina, sotto la pioggia, mi schiero sulla linea di partenza della 5 Fossi. Gara per me nuova, su una distanza che non affronto da chissà quanto e che non ho idea di come affrontare. Parto come una forsennata, per non dare tempo alle mie articolazioni di avvinghiarsi. Ovviamente scoppio di lì a poco. Il vento contrario e il tratto fangoso faranno il resto. Arrivo in ginocchio, decisamente delusa. Ma, se non altro, non eccessivamente dolorante. Perché mi lascio abbattere da una scarsa prestazione, quando non potevo aspettarmi nulla? Non credevo di poter far peggio della gara precedente, è vero, ma in queste condizioni, con tutti gli annessi e i connessi, dove fantasticavo di andare? Niente da fare, il pessimismo la fa da padrone. E quando, due giorni dopo, devo gettare la spugna dopo una decina di minuti a causa del dolore insopportabile al solito maledetto tallone, è l’inferno. Cocciutaggine, determinazione e speranza: crolla tutto. Tra le lacrime. Rabbia? Forse, ma più che altro stanchezza. Stanca di combattere con questo dolore che non ha un nome né una causa; stanca di sforzarmi di essere forte; stanca di illudermi che sia solo questione di pazienza. Dovrò arrendermi all’evidenza: smettere di correre una volta per tutte. Ci sono disgrazie peggiori, no? Allora perché non riesco a rassegnarmi? Mi butto su attività alternative ma, come se non bastasse, anche la cyclette mi lascia a piedi. Qualcuno ha detto che la sfiga non esiste? Arriva così la domenica, e fatico ad alzarmi dal letto. Mi sento un’ameba, incapace di reagire, refrattaria a qualsiasi attività. Lasciatemi stare, oggi voglio solo piangere: concedetemi il diritto di strisciare per un po’. Poi mi rialzerò, promesso. Già da domani. Cinque di mattina, pedalare! E tornata dal lavoro, sotto col potenziamento. Un altro giorno è andato. Martedì significa allenamento, che si fa? Ci si prova? Fisso fuori dalla finestra, immobile. Stamane mi sono alzata con le migliori intenzioni, mantenute durante tutta la giornata in ufficio. Poi, una volta a casa, il vuoto. L’abbassarsi della temperatura, col calar del sole, intorpidisce la mia volontà. Avrei bisogno di un pungolo, magari di un calcio nel sedere. Jader tace. Forse è distratto, forse si aspetta che sia io a scuotermi. Allora ti sorprenderò: mi cambio in fretta, do una stuzzicata alle giunture, e via. Poco convinta, è vero, ma non intendo restare col dubbio. Se il dolore è ormai scontato, non lo è la sua intensità: tollerarlo significa crederci ancora, al contrario… Concludo l’allenamento, in condizioni precarie (correre al buio non è nelle mie corde), ma lo concludo. Domani zoppicherò, mi dedicherò ad altro. E giovedì mi tirerò il collo col lavoro che preferisco. Sabato c’è il cross, ne ho già saltato uno a causa della bronchite, non posso perdermi anche questo: mi sono comprata le scarpe apposta! Questo bruciore alla gola, però, non mi piace affatto. Una serie di starnuti annunciano l’arrivo del raffreddore. Evviva, mi mancava proprio, soprattutto sapendo che l’immediata conseguenza sarà la tosse. Di nuovo. L’incubo di tutti gli inverni: inizia all’improvviso e non si sa se e quando finirà. Quali salite e quali sprint? È già tanto se non mi butto sotto le coperte. Le mie scarpette nuove, le userò mai? Se le mettessi in vendita? Giornata lunghissima, quella del venerdì. Tossisco in maniera imbarazzante, l’aria secca dell’ufficio mi devasta e non arriva mai l’ora di staccare. Continuo a rimuginare sul da farsi: sul mio destino immediato. Correre o non correre l’indomani. E, optando per la prima ipotesi, allenarsi attorno a casa o rischiare la vita al cross? Tra gli scaffali del supermercato i pensieri, più che al carrello da riempire, vagano tra una possibilità e l’altra, alla vana ricerca di quell’incognita che possa appesantire uno dei piatti della bilancia. Finalmente, sulla via di casa, Jader fa muovere l’ago: la sua presenza come fotografo è condizionata dalla mia presenza come podista. E sia: sferriamo il colpo definitivo, così finirò quest’anno schifoso all’obitorio.

 Temperatura accettabile, timido sole, tanta paura. Ormai ci convivo. Paura e dolore, che brutta coppia. Sorridi, che c’è tanta gente e ti puoi distrarre. Chiacchierando con questo e quella, riesci persino a realizzare un riscaldamento decente: hai visto, come niente hai corricchiato per mezz’ora e sei ancora viva. Va bene che il bello (o il brutto) deve ancora venire, ma allora sarà tutta un’esplosione di adrenalina. Appena il tempo di infilare le scarpe sgargianti. Come sono belle! Così vivaci, così leggere: oddio, quanto sono leggere! Non saranno dannose? Questi chiodi, poi, come li gestisco dal parcheggio al campo? Non si romperanno? O, peggio, non mi faranno scivolare? Sono sicura di ciò che sto per fare? Neanche un po’. E meno male che non c’è margine di ripensamento. Raggiungo lo start pochi istanti prima dello sparo, mai affrontato una gara con scarpe totalmente intonse. Che sarà mai, sono solo tre chilometri… Tre chilometri? A me sembrano almeno il doppio. Il percorso è abbastanza lineare, il terreno agevole, giusto un paio di dossi. Ma a metà del primo giro sono già impiccata, come ci arrivo alla fine? Ne manca uno e mezzo e sto arrancando. Alza quelle gambe, spingi un po’. Hai due scarpe che sono uno spettacolo, non puoi fare la figura della papera. Recupero qualche risorsa, ma che fatica. Meglio non pensare che mi sto ammazzando per procedere a passo di bradipo. Soprattutto, meglio non pensare a tutte quello che mi sono davanti… Forza, non sarai l’ultima, ha ancora senso sbattersi: su con quelle gambe, tira fuori la grinta. Eh, manca poco, lo so. Alla fine di questo rettilineo c’è la curva a destra, poi a sinistra, poi ancora a sinistra ed è fatta. Ma la prima curva non arriva mai, le gambe sono di piombo e dai polmoni non arriva più aria. Ci manca solo che inizi a tossire. No, dai, è questo il momento che conta: sono gli ultimi metri che fanno la differenza. Qui si vede chi cede e chi no, chi molla e chi morde l’osso fino al midollo. Eccolo il mio osso, bruciata sulla linea del traguardo. Non vale niente, lo so, ma lo dovevo a me stessa: dare tutto fino alla fine. Se ci riesco ancora, ancora ho qualche speranza. 

Qualche minuto di defaticamento, voglio proprio esagerare. Mi piace fare le cose per bene. Mi piace pensare che, dopo una dose massiccia di ghiaccio e di arnica (non serviranno a nulla, ma mi rasserenano), potrò tornare ad allenarmi. Il bello di gareggiare di sabato è che resta tutta la domenica davanti – e di domenica, vuoi non correre? Sprint in salita e in piano. Col freddo, con la nebbia, col dolore. Ma con la soddisfazione di avercela fatta ancora una volta. Detesto non potermi permettere piani a lungo a termine, tremo all’idea di dovermi fermare per chissà quanto – se non per sempre. Per vederci più chiaro, ho prenotato una risonanza: tra un paio di settimane saprò qualcosa in più. Forse. Nel frattempo, ogni giorno è un giorno conquistato. Continuo a remare contro un mare ostile. Ma, fortunatamente, so nuotare bene.

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