A
due settimane dall'intervento, sarebbe opportuno stilare una sorta di bilancio.
Peccato che i rendiconti non siano mai stati il mio forte, finisco sempre col
fornire giudizi drastici, il più delle volte negativi, senza troppe sfumature. Raramente
concedo delle attenuanti e altrettanto raramente oso tornare sui miei passi. Quindi?
Quindi sono entrata nella fase più pericolosa. Se fino ad ora potevo
considerarmi reduce dall'operazione, giustificando così ogni forma di sofferenza,
adesso mi trovo in una zona ambigua: ho superato l’ambito ospedaliero e mi
affaccio alla soglia del recupero. Ma non sono né di qua né di là. O forse sono
sia di qua che di là. Insomma, nel caos. Tra chi dice che sia normale avvertire
ancora dolore, e chi ritiene che dovrei già essermene librata. Io ovviamente
parteggio per la seconda fazione, perciò impreco ogni volta che mi alzo in
piedi e inizio a muovermi.

Vorrei
avere la stessa fiducia riguardo alla sorte del mio calcagno – cioè alla mia.
- Tornerò a correre?
- Lo spero. Io mi sto
impegnando per quello.
Avrei
preferito un Ma certo, prima di quanto immagini! Mi devo accontentare. Devo soprattutto
ascoltare chi mi chiede di non lasciarmi andare, chi patisce per la mia pena, chi
tollera la mia infermità persino meno di quanto la tolleri io. Lo devo a me
stessa: per la mia salute psicofisica, per il mio benessere mentale e per la
cura della mia persona. Lo devo a noi: per l’equilibrio del nostro quotidiano e
per i tasselli del nostro domani. Per non avere paura di addormentarmi, per
svegliarmi senza paura.
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