mercoledì 16 maggio 2018

Diario di un calcagno - Giorno 14


A due settimane dall'intervento, sarebbe opportuno stilare una sorta di bilancio. Peccato che i rendiconti non siano mai stati il mio forte, finisco sempre col fornire giudizi drastici, il più delle volte negativi, senza troppe sfumature. Raramente concedo delle attenuanti e altrettanto raramente oso tornare sui miei passi. Quindi? Quindi sono entrata nella fase più pericolosa. Se fino ad ora potevo considerarmi reduce dall'operazione, giustificando così ogni forma di sofferenza, adesso mi trovo in una zona ambigua: ho superato l’ambito ospedaliero e mi affaccio alla soglia del recupero. Ma non sono né di qua né di là. O forse sono sia di qua che di là. Insomma, nel caos. Tra chi dice che sia normale avvertire ancora dolore, e chi ritiene che dovrei già essermene librata. Io ovviamente parteggio per la seconda fazione, perciò impreco ogni volta che mi alzo in piedi e inizio a muovermi. 

L’incubo dei primi passi. Che si dissolve mantenendosi in cammino. Attraversando la piazza ho persino pensato che oggi sto quasi bene. È vero, ho percorso un breve tragitto quasi incolume: dalla strada alla biblioteca. Saranno 200 metri? Andata e ritorno, un successo! Mi sono recata a restituire Haruf, sperando di trovare il primo libro della sua trilogia. Non c’era, l'ho prenotato. Ma, mentre ero lì, mi è caduto l’occhio su un volume esposto sullo scaffale: “Ho sposato un comunista”, di Philip Roth. Potevo resistere? Finalmente ottempero al mio proponimento di leggere altre opere di questo immenso autore, dopo l’entusiasmo per “La macchia umana” e la delusione per “Pastorale americana”. Sono fiduciosa. Quantomeno, sono certa di avere tra le mani qualcosa di possente. 


Vorrei avere la stessa fiducia riguardo alla sorte del mio calcagno – cioè alla mia.
-       Tornerò a correre?
-       Lo spero. Io mi sto impegnando per quello.
Avrei preferito un Ma certo, prima di quanto immagini! Mi devo accontentare. Devo soprattutto ascoltare chi mi chiede di non lasciarmi andare, chi patisce per la mia pena, chi tollera la mia infermità persino meno di quanto la tolleri io. Lo devo a me stessa: per la mia salute psicofisica, per il mio benessere mentale e per la cura della mia persona. Lo devo a noi: per l’equilibrio del nostro quotidiano e per i tasselli del nostro domani. Per non avere paura di addormentarmi, per svegliarmi senza paura.

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