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martedì 21 dicembre 2021

Winter tales (Day 90)

 

Come la semente anche la mia anima ha bisogno del dissodamento nascosto di questa stagione (Ungaretti) 

Sala operatoria, gesso, tutore… Sembra sia successo un secolo fa, sono invece trascorsi appena tre mesi da quando il primario mi mostrò le immagini del bisturi che fendeva la mia pelle per aprire il passaggio a quel tendine da ripulire. Otto settimane di (in)sofferenza: il piede, avvolto nella sua corazza, sta zitto e buono. È tutto il resto che scalpita, l’animale in gabbia che non trova pace. E che non sa quale sapore avrà quella libertà tanto sospirata. Perché non è mica vero che, una volta dismesse le armature, risplenderà l’arcobaleno. Al contrario: è proprio adesso che iniziano i dolori: quelli che non si sono mai manifestati nei mesi precedenti, e che invece ora presentano il conto. Sembrava troppo bello. Davvero credevi di uscirne indenne, di poter riprendere a camminare come nulla fosse successo? No, certo, ma nemmeno che facesse tanto male. Ti hanno maciullato un tallone e immobilizzato la gamba per sessanta giorni, è normale che la ripresa del movimento sia traumatica. Normale. Ma per quanto tempo lo sarà? Perché passano i giorni, e non noto miglioramenti. E ciò che più angoscia è che il dolore sia esattamente quello che mi aveva tormentato talmente tanto da convincermi a darci un taglio. L’incubo che non dà tregua: il terrore che anche stavolta tutto sia stato inutile, tutto ‘sto travaglio per tornare la vecchietta zoppa che ero prima. Il chirurgo dice che è la prassi, il fisioterapista - nonché allenatore e vero amico – mi sprona ad insistere: bisogna varcare la soglia, riacquistare la padronanza del gesto, convincere ossa, muscoli e articolazioni che la vita è movimento. Insomma: devi camminare! Va bene, cammino. Effettivamente, aumentando poco poco ogni volta, le sensazioni si fanno più gradevoli – o meno sgradevoli, dipende dall’umore. E pedala, e solleva pesi… Insomma, cerca di rimetterti in careggiata e riconquistare quel magnifico piacere della fatica. È la tua testa che te lo chiede: la mente che domanda e il fisico che risponde. Sentirti bene nel tuo involucro, almeno questo: tu che non ti senti a tuo agio in nessun luogo, appagati almeno del tuo corpo.

Appagamento, appunto. Difficile ottenerlo da una semplice passeggiata. Puoi allungare le distanze, rallegrare il ritmo, ma manca sempre qualcosa. Ti manca l’entusiasmo di mollare i freni e provare a raggiungere quella sagoma che procede davanti a te. Ti mancano i minuti da abbattere, il chilometro che non finisce mai, la sensazione di scoppiare. C’è chi ti dice che presto ritroverai tutto ciò, che occorre solo un po’ di pazienza, ancora un po’. Vorresti crederci, e qualche volta riesci davvero ad illuderti. Ma è sempre più difficile. Un momento sogni il giorno in cui proverai a spiccare il volo, il momento dopo affermi che rassegnarsi è l’unica soluzione. Brutta bestia, l’irrequietudine. Ma forse è proprio questo fermento a tenerti a galla, a non permetterti di raggomitolarti su te stessa. Nel freddo e nel buio che incombono, è più che mai necessario reagire. 


Quattro mesi dall’intervento, questa è stata la magica indicazione del chirurgo. Temo sia una visione oltremodo ottimistica. Sarà comunque una data speciale, che, in qualche modo andrà onorata.

 

giovedì 21 ottobre 2021

I hate fall (Day 34)

 

«Conto a estati, non a anni, il tempo»

 




Siamo sinceri: il tutore è più ingombrante del gesso. Sarà pure la sofferenza di una settimana, durante la quale dovrò indossarlo ininterrottamente, ma questo enorme macigno è una vera tortura. Superati i sette giorni, mi sento come quando, al termine di un’escursione in montagna, si tolgono finalmente gli scarponi: una goduria che non ha eguali. Il piede può finalmente respirare. Lo muovo con cautela, senza esagerare, con molta attenzione e tanta (troppa) paura. Decido che è giunta l’ora di mettere in moto ciò che può essere attivato: giù a terra e via di addominali. Sempre con la “palla” al piede, che complica qualsiasi esercizio. Ma è bene iniziare. Ed è bene anche rivolgersi anche ad un professionista per capire come sia meglio procedere nella riabilitazione. Dapprima, un lungo massaggio alla cicatrice per scongiurare possibili aderenze. Sensazioni piacevoli. Pizzica un po’, ma è quella specie di fastidio che dona tanto benessere, una sorta di risveglio dei sensi dopo un prolungato torpore. Si passa poi ad una serie di mobilizzazioni attive: devo usare la forza, che ovviamente scarseggia, ma spingo meno di quanto potrei, sempre per eccesso di timore. Va bene così, il tallone e vivo e vegeto, non mostra particolari segni di sofferenza – per quanto, ai miei occhi, la ferita appaia orripilante. D’ora in poi dovrò sbrigarmela da sola. Comincio così a dedicare una o due ore di ogni giornata all’esercizio fisico, con l’attrezzatura di cui dispongo: panca, pesi, elastici. Cercando di stimolare il maggior numero possibile di gruppi muscolari, sognando il momento in cui potrò almeno pedalare. Nostalgia della bici, chi l’avrebbe detto? È che non oso ambire ad altro.  Se è vero che conto i giorni che mancano al prossimo controllo, è altrettanto vero che tremo al pensiero di ciò che mi sarà prescritto. Presumibilmente, sarò dispensata dal tutore, ma quali attività potrò svolgere? Riuscirò ad indossare un paio di scarpe, sarò in grado di reggermi sul piede operato: quando avrò la facoltà di camminare? E tra quanti mesi si potrà pensare di azzardare qualche passo di corsa? Ne avrò mai il coraggio, con i fantasmi di tutto il pregresso? Mi sto già martoriando con queste paturnie, che senso ha? La ripresa, adesso, è pura fantascienza. Dovrei stare concentrata sul quotidiano e accontentarmi dei segnali positivi riscontrati fino ad oggi: è così che agirebbe una mente sana ed equilibrata. Ma un soggetto ipocondriaco e maniaco-depressivo scalpita e ulula, scorgendo un baratro dietro ad ogni curva. Eccomi dunque sempre qui a fremere, alternando momenti di iper-attività ad altri di profonda inerzia. Umore perfettamente sintonizzato con la stagione: e siamo solo all’inizio. Vorrei buttare nel fuoco stampelle e tutore: riappropriarmi del mio corpo e delle sue minime abilità. Vorrei riuscire a sperare.

venerdì 8 ottobre 2021

Navigare a vista (Day 21)

Uno potrebbe vivere nel suo buco solo tutta la vita. Sì, certo. Ma avrebbe sempre bisogno di qualcuno per calarlo nella fossa anche se se la fosse scavata con le sue mani. Tutti lo facciamo. Solo l'uomo seppellisce i morti. Quel che colpisce subito. Seppellire i morti. Dicono che Robinson Crusoe è realistico. Bene allora lo seppellì Venerdì. Ogni Venerdì seppellisce un Giovedì a pensarci bene. 
(Joyce)

Giornate che scorrono tutte uguali, ma con sempre maggiore stanchezza. Stanca di far niente, di stare scomoda in qualsiasi posizione, di incontrare difficoltà ad ogni movimento. Sempre con la paura di farmi male, ché è un attimo perdere l’equilibrio e moltiplicare i danni. Ormai ho maturato la convinzione che certe imprese deve affrontarle chi possiede i mezzi appropriati – fisici e mentali: chi può farsi beatamente assistere, chi può organizzare opportunamente gli spazi, chi ha fiducia in se stesso e nel mondo.

Vado a ripetere le analisi del sangue, ricevendo conferma della meschinità del genere umano. Che si palesa con qualcosa che va oltre l’indifferenza: una persona in bilico sulle stampelle viene semplicemente ignorata solo perché non può essere subitamente abbattuta. Manca poco che mi calpestassero, per passarmi davanti. E non va tanto meglio nemmeno là dove gli “invalidi” sono il pane quotidiano: al Rizzoli ho dovuto zampettare lungo un infinito corridoio per raggiungere l’ascensore che conduceva agli ambulatori. Fossi stramazzata al suolo, non se ne sarebbe accorto nessuno. Dopo una lunga attesa, eccomi finalmente al cospetto del mio dottore. Come va? Che dire? Non ne posso più. Già, dovevo saperlo, devo avere pazienza… No, questo non lo dice, me lo dico tra me e me, da momento che dovrei avere ben memorizzato la tiritera. La rimozione dei punti è meno dolorosa di quanto mi aspettassi, e ora pare che non ci sarà bisogno di ulteriori medicazioni. Nessun fastidio nemmeno premendo sulla zona martoriata. Il gesso può dunque essere sostituito dal tutore (nuovo di zecca): da indossare permanentemente per una settimana, sempre osservando le precauzioni adottate sinora, per poi cominciare ad appoggiare e a concedere al piede un po’ di movimento. E qui verrà il bello: stando al referto, potrò iniziare anche idrokinesiterapia e fisioterapia per rinforzo muscolare e esercizi per il ROM. A parte il fatto che non so proprio di cosa si stia parlando, mi chiedo dove andare a sbattere. In acqua, rabbrividisco solo al pensiero, e direi di scartare a priori quest’opzione. Potessi nuotare, farei forse uno sforzo, ma poiché ciò non rientra nella profilassi, opto per l’esclusione di tutte le attività al bagnato. E la fisioterapia? Chi la paga? Se almeno sapessi quali accidenti siano gli esercizi per il ROM, potrei pensare di svolgerli autonomamente. Certo, proverò a documentarmi sul web. Resta in fatto che continuo a navigare a vista – e all’orizzonte non vedo nulla di piacevole. Intanto, ho ancora una settimana di immobilità, durante la quale riflettere e rimuginare (tanto per cambiare). 


Questa condizione, se non altro, favorisce la lettura: ho piacevolmente riesumato tomi che avevo abbandonato anni fa. Letture straordinarie, che evidentemente avevo approcciato con spirito inadeguato. Ora, non so quale genere possa accarezzare il mio stato d’animo, di certo il tempo a disposizione gioca a favore di libri impegnativi. Ho deciso quindi di esagerare: ci riprovo con Joyce, per la terza volta. Duecento pagine sono già andate, ormai non mi fermo più: consapevole che per buona parte vagherò nella nebbia, sono convinta che ne valga la pena.

mercoledì 29 settembre 2021

Voci e nebbie (Day 14)

 

…ti rendi nemmeno conto che sei diventato triste. Non hai più voglia di fare granché, ecco tutto. A forza di fare economie su tutto, per tutto, tutte le voglie ti son passate. (Céline)

 


Mi soffermo di tanto in tanto a gettare lo sguardo là fuori: è un po’ come respirare profondamente, far sì che la bellezza investa i miei sensi e calmi il mio spirito. E cercare di convincermi che ne sia valsa la pena, che gli aspetti positivi superino i fastidi che fatico a tollerare. Possibile che si costruiscano case con muri di cartone? Davvero c’è chi non si cura di vivere con i vicini in casa propria? Respira profondamente, fattene una ragione, continua a sognare. Anche se, così facendo, permarrai in uno stato di sospensione. Che è poi quello in cui ti trovi da sempre: da sempre in attesa di tempi migliori, alla ricerca di un equilibrio che nemmeno tu sai se possa esistere. Quel senso di inadeguatezza che ha caratterizzato tutte le fasi della tua vita, sin dall’infanzia. Quella bambina dalla salute cagionevole, sempre dentro e fuori dagli ospedali, forse non è mai diventata adulta. Di certo non ha mai trovato una sua dimensione. Basterebbe volersi un po’ più bene, per affrontare di petto le difficoltà. Invece continuo a mortificarmi e a rendermi insopportabile.

Sono trascorse due settimane. Siamo a buon punto? Non ne ho idea. Non ho ancora capito quali saranno gli sviluppi. Martedì prossimo mi toglieranno i punti, e poi? Le informazioni, al momento della dimissione dall’ospedale, sono state piuttosto vaghe: e continuano ad esserlo. Il primario aveva parlato di un periodo in cui dovrò indossare un tutore, di esercizi che dovrò svolgere: mi auguro sarà illustrato tutto al prossimo appuntamento, perché questa incertezza mi sta logorando. Ho i nervi a fior di pelle, me ne rendo conto, e inquino chi mi deve sopportare. Sta andando tutto bene, perché ti preoccupi? Hai ragione, se solo riuscissi ad ascoltarti, ad ascoltare le voci che contano. Sono poche, è vero. Ne mancano diverse, ma altre si sono fatte sentire, più inaspettate: belle sorprese che diradano la nebbia.

domenica 26 settembre 2021

Distanze (Day 9)

 

L’aria è frizzante, di prima mattina. Mi copro però più del necessario: non ho ancora preso confidenza con le nuove temperature, né con la reazione del mio corpo all’anomala deambulazione. Infatti, mi è sufficiente percorrere il breve tragitto tra l’uscio e il sentiero di accesso per sentirmi oltremodo accaldata. Un’altra delle tante complicazioni di questa vita da inferma.

Non sono ancora le otto quando entro in pronto soccorso, e non so bene come muovermi. Contatto così il dottore e in men che non si dica mi trovo su una sedia a rotelle, assistita da un robusto infermiere che mi scorta fino all’ambulatorio. Finalmente viene liberato il mio piedone. Dice che la ferita è bellissima (ovviamente, tutto è relativo), che potrebbero essere necessarie meno delle quattro settimane preventivate, e che tra una decina di giorni mi toglierà i punti. Giungono quindi tre sorridenti assistenti per inscatolare nuovamente piede e gamba con una fasciatura veramente elegante.

Dovrei essere tranquilla, ora. Ma le lunghe ore tra queste mura, che non riesco ancora a sentire mie, e le difficoltà nello svolgere qualsiasi piccolo gesto quotidiano non fanno che alimentare il misero stato d’animo. Fortunatamente, uno spicchio di sole illumina il mio grigiore: la visita di un’amica, l’unica che abbia trovato il tempo e la voglia di interessarsi a me – sia in questa, che nelle precedenti simili vicissitudini. Ed io, che continuo a sentirmi irrimediabilmente orso, mi chiedo se la mia riconoscenza riesca ad esprimersi adeguatamente. Forse sì, o forse semplicemente sono io che insisto a martellarmi con infinite paranoie, quando sarebbe molto più salutare affrontare la vita e il mondo con un pizzico di leggerezza. Meglio buttarsi sotto la doccia e lasciare che i pensieri scivolino sotto il getto dell’acqua.

È domenica. Anche oggi Jader è uscito presto, mentre io decido di indugiare ancora a letto. Se non altro, riesco a dormire più del solito. Ho calcolato che tra il momento in cui mi alzo e quello in cui raggiungo il piano di sotto, con un minimo passaggio in bagno, trascorre circa mezz’ora. Cerco quindi di allestire qualcosa che assomigli a una colazione, nonostante la fatica di preparare anche solo una bevanda calda faccia venire meno anche l’appetito – scarso in condizioni normali, figurarsi adesso. Che cosa bisognerebbe mangiare quando ci si trova in uno stato di semi immobilità, con ossa e tendini mortificati e gestualità del tutto alterata? Vorrei tanto saperlo: conoscere cosa potrebbe giovarmi e cosa invece sarebbe meglio evitare. Ho provato a documentarmi, ma è sempre complicato destreggiarsi tra il proliferare d’informazioni, spesso contrastanti. L’esperta alla quale ho chiesto aiuto si è guardata bene dal rispondermi (avrei preferito un semplice e diretto “non ho tempo”), così mi sforzo di buttare giù qualcosa, spinta essenzialmente dalla consapevolezza che, nonostante l’inattività, nutrirsi resta una necessità fondamentale.


Il clima, oggi, è la perfetta espressione del mio umore. O forse è il mio umore che risente della pessima stagione. Non trovo pace, qualsiasi posizione risulta scomoda, gambe e schiena gridano vendetta: ho bisogno di muovermi! Quando potrò riprendere anche solo a svolgere qualche esercizio che non coinvolga la gamba? Volevo chiederlo ieri, al dottore, ma mi è passato di mente. Dovrò ricordarlo al prossimo appuntamento. E starmene zitta e buona fino allora. Devi crederci, mi dice un amico. Ogni tanto me lo ripeto, così come stamattina, guardando sul web la maratona di Berlino, mi sono ripromessa che tornerò a correre quella distanza. Radichiamo l’idea, chissà che non generi i suoi frutti.

 

 

 

 

sabato 25 settembre 2021

"Il mio equilibrio nasce dall'instabilità" (Day 8)

 

Impulsi, slanci, amori, intensità, svagatezza appassionata fanno d’un uomo un malato. Quanto tempo potrò sopportare queste percosse interiori? La parete frontale di questo corpo s’abbandonerà. La mia vita intera che batte contro i propri limiti, e l’impeto di desideri inibiti che ritorna in forma di veleno lancinante. Male, male, male… Frenetico, caratteristico, estatico amore che si trasforma in male. (Saul Bellow)

Quando dicevo che i libri ci chiamano e ci rispondono: come non ritrovarsi in questa irrequietudine? Potrei tappezzare le pareti con le migliori pillole di saggezza, ma a nulla servirà indossare occhiali rosa se l’ottimismo vive altrove. È per questo che continuo a pensare che sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano: per affrontare simili situazioni occorre animo sereno, oltre a fiducia incondizionata – fiducia negli altri ma, soprattutto, in se stessi. Caratteristiche che, si sa, non mi appartengono. E se è vero che la testa condiziona ciò che accade nel fisico, la vedo davvero grigia.


Un’altra giornata in solitudine, che decido di prendere di petto sin dall’inizio: mi butto subito sotto la doccia. Ormai ci ho preso la mano, mi gestisco con discreta disinvoltura. Sono sempre in apprensione, invece, nell’affrontare le scale, con le stampelle da spostare e gli appoggi che non mi sembrano mai sufficientemente sicuri. Quanto manca alla liberazione dal gesso? Meglio non pensarci, non siamo neppure a metà. Divano, sedia; sedia, divano. La crio-magnetoterapia scandisce le ore, mentre tv, libri e internet creano l’atmosfera. Atmosfera oggi movimentata dal campanello, che suona più di due volte. Ho così modo di appurare quanto sia necessario risolvere al più presto almeno un paio dei difetti di questa abitazione: il cancello che non si chiude e il citofono che funziona solo verso l’esterno. So che oggi dovrebbero consegnarmi due pacchi, ma chi mi assicura che quello che suona sia il corriere? Fortunatamente dalla finestra vedo chi si approssima alla porta, resta comunque una situazione anomala. Presumo che il primo fattorino abbia lasciato il cancello aperto, visto che il secondo entra senza nemmeno lasciarmi il tempo di rispondere. Dopo qualche ora, ancora uno squillo. Non aspetto più nessuno, chi potrà essere? Guardo fuori e vedo il padrone di casa che vaga in giardino. Arzillo vecchietto, peccato sia già annebbiato dalla demenza senile. Vuole a tutti i costi appiopparmi una busta che si è ritrovato in buchetta: peccato che non riporti né i nostri nomi, né il nostro indirizzo. Come fargli capire che non posso impossessarmene, e tantomeno sono in grado di andarmene in giro a cercare il corretto destinatario? A forza di insistere, riesco a liberarmene. Ma che fatica. Perché deve essere tutto così opprimente? Perché vorrei scappare lontano ogni volta che sento i rumori dei vicini, oggi particolarmente insopportabili? La salvezza è sull’isola: dovrà venire quel giorno.

giovedì 23 settembre 2021

Big foot - Day 6


Insomma, cosa si fumano alla RAI? Quale mente perversa ha considerato di mandare in onda contemporaneamente il primo episodio della nuova serie di Coliandro e Pretty Woman? Non si può costringere l’utente medio ad una scelta così sofferta: quel film non si può perdere, nemmeno alla milionesima visione. E ogni volta si piange, non si scappa. D’accordo, ho scelto l’ispettore per pure questioni affettive (che poi, se proprio vogliamo dirla tutta, visto uno visti tutti), ma il finale su Rai1 l’ho acchiappato, giusto in tempo per “voglio la favola”: e giù lacrime. 


Una settimana fa mi trovavo in una stanza d’ospedale, attaccata ad una flebo che instillava nella mia vena dosi massicce di antidolorifici. Efficaci, senza dubbio. Fortunatamente, finora non sono più stati necessari. Qualche fitta, un leggero fastidio: pressoché nulla che non avvertissi anche prima dell’intervento. Solo stasera ho cominciato a percepire una strana sensazione di pizzicore, una sorta di sfrigolio nella zona operata. Non vedo l’ora di scoprire cosa stia succedendo lì, sotto a quell’ingessatura che mi sembra già da sistemare – per non dire eliminare. Questione di percezioni. Ciò che a me sembra enorme, e simbolo di indubbia sofferenza, ad altri appare quasi inesistente. L’ho notato stamattina, davanti all’ingresso del punto prelievi di Bentivoglio. Porte ancora chiuse, col guardiano a controllare: ci si potrebbe aspettare che una persona in equilibrio su una gamba e due stampelle fosse invitata ad accomodarsi all’interno, in attesa dell’arrivo del personale sanitario. Col cavolo! Chissà perché mi aspetto ancora qualcosa dalla gente, non ho ancora imparato nulla. Ho dovuto invece mettermi in coda prima per la misurazione della temperatura, poi allo sportello di accettazione, appoggiandomi maldestramente a qualsiasi muro o sedia fossero a portata di mano. Solo l’infermiera che mi ha tolto il sangue si è impegnata a mettermi a mio agio: uno su mille…

Le temperature si sono notevolmente abbassate, troppo per i miei gusti. Noto però che anche la mia sensibilità al caldo e al freddo è variata: spostarmi con quegli attrezzi infernali deve comportare un discreto dispendio energetico, considerato come mi accaloro, specie quando zompo al piano di sopra. Sul divano, invece, in maniche corte e piedi nudi non si può più stare. E sulle gambe? Con cotanto zampone non riesco ad infilarmi quasi nulla, se non un pigiama che però vorrei indossare solo a letto. Certo, ci sono problemi più gravi, ma anche a questa quisquilia dovrò trovare una soluzione. Intanto mi godo Saul Bellow. Avevo preso in mano questo romanzo nel 2010, abbandonandolo dopo poche pagine. Evidentemente, allora lo trovai ostico, chissà perché. È sempre una questione di percezioni: forse non siamo noi a scegliere i libri, ma sono essi a scegliere noi. Oggi Herzog aveva bisogno di me – o io di lui. Lettura straordinaria, stavolta mi ci tuffo e mi ci perdo. Un toccasana. 


martedì 21 settembre 2021

Surgery - Day 4

Metto il naso fuori di casa per la seconda volta, da quando sono stata dimessa. Può essere che sia scarsa di tecnica, ma avanzare con una gamba e due stampelle mi procura una notevole fatica. Temo inoltre di essere eccessivamente tesa, manco di sicurezza: in sostanza, ho paura di cadere. Ostento tuttavia un’improbabile spigliatezza: va tutto bene, non ho bisogno di nessuno. Ovviamente è una mezza verità, alla quale mi aggrappo per abituarmi ai prossimi giorni, quando davvero dovrò arrangiarmi. Sarebbe utile smettere di misurare quanto tempo sia trascorso, essendo ancora troppo lontana la meta – e tremendamente infestato di dubbi il tragitto.

La monotonia delle giornate non può che alimentare il malumore.  È vero che si fa sera sempre prima, ma le lancette dell’orologio sembrano muoversi a rallentatore. Un po’ come me, del resto. Col mio passo da bradipo (zoppo), sono comunque riuscita a superare brillantemente un’ulteriore prova: ho salito le scale in completa autonomia. Mano destra sul corrimano, sinistra sulla stampella: forza sulle braccia e salto con un piede; sosta ogni due/tre gradini per spostare in alto la seconda stampella. Si può fare! A questo punto provo ad esagerare. Infilo la seggiola di plastica nel box doccia e mi ci siedo. Col gambone steso all’esterno, mi bagno, insapono e risciacquo con immenso piacere. La parte più complicata è rialzarsi e infilarsi l’accappatoio ma, seppur con qualche brivido, nulla è impossibile. Asciugata, rivestita e tornata di sotto: tutto da sola. Dai, dimmi almeno che sono stata brava.


La sera mi ritrovo in compagna soltanto di Cleopatra. Ci sistemiamo entrambe davanti alla tv, sono finalmente tornati I bastardi di Pizzofalcone – ebbene sì, in un mondo drogato di “serie”, io ne seguo solo qualcuna sulla Rai: mi risultano perciò incomprensibili molte discussioni di tendenza, ma non ne sono affatto preoccupata. Fuori, intanto diluvia, e Jader tarda a rientrare. Non che lo aspettassi per un preciso orario ma, devo ammettere, speravo tornasse in tempo per aiutarmi a salire in camera da letto. Invece, spengo tv e luci in sala e affronto nuovamente la rampa in modalità un due tre stop. Passaggio in bagno, poi si chiudono scuri e finestra e si sistema il piedone sul cuscino. Il sonno impiega sempre troppo tempo a raggiungermi, temo che non mi abituerò mai ad una casa così sorprendentemente rumorosa. Ogni volta mi chiedo quale potrebbe essere la soluzione, restando ovviamente senza risposta. E il sogno dell’isola che profuma di zolfo anima la mia inquietudine.

 

lunedì 20 settembre 2021

Ritorno al calcagno - Day 3

 

Strano, vagare nella nebbia!
È solo ogni cespuglio ed ogni pietra,
né gli alberi si scorgono tra loro,
ognuno è solo.
Pieno di amici mi appariva il mondo
quando era la mia vita ancora chiara;
adesso che la nebbia cala
non ne vedo più alcuno.
Saggio non è nessuno
che non conosca il buio
che lieve ed implacabile
lo separa da tutti.
Strano, vagare nella nebbia!
Vivere è solitudine.
Nessun essere conosce l'altro
ognuno è solo.

Potrei non aggiungere altro, Hermann Hesse ha già detto tutto. I suoi versi illustrano alla perfezione le ragioni del mio mutismo in quest’ultimo anno. Certo, non avere mai ricevuto neppure un “come stai” fa un po’ male, ma va bene così: nulla è più prezioso (ed eloquente) del silenzio. Questo diario ha la pura funzione di passatempo e di pro-memoria: mi aiuta, ora, a spezzare la monotonia delle giornate e mi servirà, in futuro, a ricordare fatti e pensieri lontani.




Se ne avessi tenuto uno anche in passato, avrei avuto la risposta immediata al mio interrogativo di qualche giorno fa: da quanto tempo non salivo in cima al Corno alle Scale? Esattamente da quando, scendendo, inciampai sulle pietre del sentiero e finii al pronto soccorso per farmi cucire il ginocchio: allora dichiarai chiusa per sempre la mia esperienza col trekking. Peccato che non ricordi affatto quanti anni siano trascorsi. Tanti, sicuramente: evidentemente un numero sufficiente a ridimensionare l’accaduto e a farmi tornare sui miei passi. Lunedì 13, una volta eseguiti gli esami preoperatori, non potevo rinchiudermi tra quattro mura e lasciarmi infestare da cupi pensieri: portami in montagna, ché ho bisogno di muovere le gambe e ossigenare la mente. Confesso: mi sono emozionata a ritrovarmi al cospetto della croce, dopo aver ricevuto il saluto di un maestoso rapace. Ho finalmente esorcizzato quel trauma: sia questo di buon auspicio.


Richiamo quella boccata d’aria, ora che annaspo nell’infermità. Ci sono mali peggiori, è vero. Perciò provo a non lamentarmi e ad affermare che sto abbastanza bene. Ma ancora non sono sicura di aver fatto la cosa giusta. Essendo, d’altronde, inutile rimuginare, faccio il possibile per alleggerire la convalescenza, compiacendomi delle piccole conquiste quotidiane. Arrivare quasi al termine del voluminoso romanzo e buttare sulla carta qualche riflessione, curiosare sui social e godermi lo spettacolo di Ganna e del volley. Jader è arrivato a casa in anticipo, quindi ci siamo preparati la cena insieme. La prima domenica col gambone è andata. Questo gesso non lo sopporto già più, ma dovrò farmene una ragione.

domenica 19 settembre 2021

Ritorno al calcagno - Day 2

 

Cominciamo a capire fino a dove posso spingermi senza assistenza. Jader è uscito prestissimo, a caccia di podisti da fotografare. Dovrò quindi alzarmi dal letto senza barcollare (i primi movimenti sono i più critici, l’ho realizzato andando in bagno nel pieno della notte: equilibrio oltremodo precario, incedere instabile, necessità di appoggiarsi al muro), aprire gli scuri della finestra, raggiungere la stanza accanto e compiere le indispensabili operazioni di toilette. Per poi affrontare le scale. In realtà, scendere non è un problema, risulta abbastanza agile sostenendosi sul corrimano a sinistra e sul muretto parallelo a destra. La parte più antipatica è la gestione delle stampelle, che sembrano fatte apposta per rifiutarsi di restare appoggiate. Ogni due o tre gradini le devo spostare più in basso, finché regolarmente cadono, per rotolare in fondo alla rampa. Sarebbe utile disporne di due paia, uno su ogni piano. Ma tant’è, ci si industria come si può.

Bisogna poi mettere qualcosa nello stomaco: uno sforzo in condizioni ottimali, figurarsi in questo stato di infermità. Nulla è a portata di mano, anche preparare un tè è un’impresa. Saltello da una mensola all’altra, sostando su uno sgabello quando possibile. Ho comunque escogitato un sistema per non essere costretta a mangiare sulla cucina: una sosta di staffetta. Prima appoggio il piatto sullo sgabello, poi sulla mensola, poi sulla sedia e da lì finalmente in tavola. Se non altro, mi tengo in attività. Perché il resto della giornata trascorre tra la sedia e il divano. Essendomi lasciata abbindolare dal tecnico dello staff del primario, ogni due ore circa mi attacco al piede l’aggeggio per la crio-magnetoterapia. Servirà a qualcosa? Chi può dirlo? Di certo contribuisce a far passare il tempo. Piedone fasciato, gatto accoccolato, libro in mano: sembra tutto molto rilassante. Se non fosse che assimilo nemmeno la metà di quanto leggo e dopo un po’ non riesco più a star seduta da nessuna parte. La mente vaga in tutte le direzioni e le membra lanciano altrettanti segni di insofferenza. Forse, per quanto riguarda l’impegno intellettuale, avrei dovuto optare per qualcosa di più leggero. Ho deciso, invece, di abbandonare temporaneamente la biblioteca per dedicarmi alla mia libreria, appena messa in ordine. Sono troppi i libri ancora da leggere, ci sarà pure una ragione se sono stati acquistati. Così ho preso in mano il primo tuttora intonso, fermamente decisa a portarlo a termine. Sono più di seicento pagine, quale momento migliore per buttarsi su un simile tomo? E comprendo che potrebbe essere affascinante, preso con lo spirito adatto. Il mio, di spirito, in questo frangente non sarebbe adeguato neppure a Topolino, quindi continuo a leggere senza leggere, accontentandomi di quel po’ che riesco ad assorbire. 


La prima esperienza solitaria è filata abbastanza liscia. Sono anche riuscita a pulire la lettiera di Cleopatra. Non ho però trovato il coraggio di salire in camera, ma arriverò anche lì. Anzi, potrei cronometrare quanto impiego ad affrontare i diciannove scalini, così da monitorare i miglioramenti. Magari salvo il segmento.

sabato 18 settembre 2021

Ritorno al calcagno - Day 1

 

Ad un giorno dall’intervento mi trovo in modalità “perché l’ho fatto”. A dire il vero, il dubbio è affiorato abitualmente in questi mesi d’attesa: che senso ha rischiare nuovamente, dopo i precedenti fallimenti? Ormai, non sarebbe più saggio accontentarsi di ciò che sono in grado di fare? Qualche passeggiata, allenamenti con i pesi a casa, un giretto in bici ogni tanto: vita attiva per un’anziana signora. Invece no. La vecchietta non riesce a rassegnarsi: non è in grado di accettare che dopo sedute di buoni allenamenti, con la prospettiva di una discreta mezza maratona, si ritrovi di nuovo a zoppicare. Il piede versa ancora in condizioni disastrose: due interventi non sono serviti ad altro che a peggiorare la situazione. Persino camminare diventa un’impresa, ad ogni passo tocca stringere i denti per il dolore. Di tornare da chi mi ha fresato il calcagno, non se ne parla proprio: avrà pure sistemato brillantemente fior di atleti, ma io preferisco censurare la mia opinione sul soggetto. Non disponendo di conoscenze, né di possibilità economiche, opto per l’istituto ortopedico più accreditato della città, che vanta un reparto specializzato sul piede. Mi visita un dottore giovane, dal curriculum decisamente accattivante, che reputa utile aprire quel tallone per perfezionare ciò che non è stato sufficientemente ripulito. Mi metto dunque in lista, conscia che l’attesa sarà lunga. Avrebbe potuto persino non esserlo tanto, se l’interessata non fosse perseguitata dalla sfiga. Prima il Covid, che agisce su due fronti: inizialmente comporta il blocco degli interventi poi, superata l’emergenza, capita che la data proposta per l’operazione coincida con quella della seconda dose di vaccino, improrogabile. La chiamata successiva andrebbe invece a sovrapporsi all’appuntamento fissato per la firma del contratto d’affitto. Sì, perché i teneri padroni di casa ci hanno chiesto gentilmente di levarci di torno il prima possibile. Giusto, no, che a possidenti milionari siano concessi contributi economici per ristrutturare i loro immobili, alla faccia di chi ha rimpinguato per anni le loro casse, senza sostegno alcuno. Tocca così trovare in fretta una soluzione, la meno dolorosa possibile. Il trasloco è comunque un evento traumatico e adattarsi al nuovo ambiente lo è ancora di più: tra me e Cleopatra, non so chi si ambienterà prima. E mentre agosto trascorre tra pulizie e scatoloni, arriva la telefonata dell’ospedale, stavolta non si scappa.

L’organizzazione lascia alquanto a desiderare: mi avevano chiesto disponibilità per il 16 settembre, ma quando mi chiamano per definire i dettagli è diventato il 15. In realtà il tutto inizia lunedì 13, con gli esami di preparazione. E martedì 14 vengo ricoverata, nel primo pomeriggio. A che pro? Che senso ha occupare inutilmente una stanza per un giorno intero? Non passa mai, nemmeno sanno dirmi a che ora entrerò in sala operatoria, l’indomani. Solo nella tarda mattinata del fatidico giorno mi avvisano che sono l’ultima della lista. Ho quasi un mancamento. L’attesa termina quando mancano pochi minuti alle due di pomeriggio. E dopo un paio d’ore sono di nuovo in camera. Come sia andata lo scoprirò solo in futuro. Nell’immediato, spero solo che le gambe si risveglino in fretta e che possa finalmente dissetarmi.

Ingessata fin sotto il ginocchio, non potrò appoggiare il piede per le prossime quattro settimane. È questa la parte più difficile: la mancanza di autonomia. Spostarsi con le stampelle è ovviamente un disagio: quando la casa è su due piani diventa un delirio. Diciannove gradini per raggiungere la stanza da letto e il bagno più grande: sapevo che salire sarebbe stato impegnativo, ma non immaginavo lo fosse così tanto. Non riuscire a lavarsi, a prepararsi i pasti, a spostare le cose. Sempre con la paura di sbilanciarsi, di cadere, di procurarsi ulteriori danni. Sempre con la sensazione di sentirsi un peso, di rompere le scatole, di porsi in modo sbagliato. Se non altro, il dolore è più che sopportabile. Almeno quello. I nervi, invece, sono prossimi al punto di rottura. Perché, ovviamente, tutto sembra remare contro. Il medico di famiglia è in ferie, la farmacista si rifiuta di consegnarmi i medicinali prescritti sul documento di dimissione, la visita di controllo è fissata nel giorno in cui Jader sarà lontano. Insomma, vorrei sbattere le stampelle in testa al mondo e maledico il giorno in cui ho accettato di sottopormi a questa prova. E sono solo all’inizio.



venerdì 30 ottobre 2020

Tutti giù per terra

 

Cleopatra è già saltata su e giù dal letto diverse volte quando suona la sveglia. Le prova tutte per farmi alzare, così da poter conquistare un cantuccio caldo in cui accoccolarsi. E io le ho provate tutte per farle perdere questa pessima abitudine. Invano. Due anime irrequiete, già dalle prime ore della mattina. Con la differenza che lei scalpita per tornare al più presto a ronfare, io invece mi dimeno alla ricerca del sistema meno traumatico per rimettermi in piedi. Mi stiracchio, sgranchisco le gambe, e ascolto. Cosa dirà stamattina? Sarà sempre un grido insopportabile? Tutti i giorni lo stesso assillo. Da quanto tempo? Troppo. Ormai dovrei essermene fatta una ragione, ma assuefarsi al dolore non è così facile: non quando ti accompagna ad ogni passo, e rende allucinante persino lo spostamento dalla sedia al divano. Provo a fare finta di niente, a condurre una vita “normale”: cosa vuoi che sia, con tutte le disgrazie che infestano questo mondo? Peccato che fingere mi riesca malissimo – e questo mondo, fondamentalmente, mi faccia abbastanza schifo. E pensare che mi ero illusa. Avevo creduto di avere ancore delle speranze. Non di tornare quella che ero, ovvio. Ma riprendere la buona strada sì, questo lo avevo ritenuto possibile. Perché il quadro che si era definito dalla disanima del mio caso era ineccepibile, e le prospettive si delineavano severe ma convincenti. Stabilito il metodo, si trattava di sperimentarlo: sondandone gli effetti e aggiustando il tiro se necessario, procedendo con tanta cautela ma con altrettanta convinzione. Percorso complesso. Perché il ricordo del dolore è esso stesso dolore, e pare impossibile liberarsene: quanto sia il reale e quanto il percepito è difficile da comprendere. Nella consapevolezza che non mi abbandonerà mai, devo riuscire a tenerlo sotto controllo: gestirlo e dominarlo. Un gioco di incastri, un puzzle sempre alla ricerca della tessera adeguata, un mosaico scheggiato nei dettagli ma armonico nell’insieme. Questione di prospettive. E di equilibrio: avanzare su di un filo sottile con lo sguardo fisso all’orizzonte, a dispetto della paura di cadere.

Ma la corda si è spezzata. Quando il piano sembrava procedere alla perfezione. Succede sempre così, no? Sul più bello crolla tutto. Possibile che in un attimo si frantumi quanto era stato costruito con tanta dedizione? Non potrebbe essere solo un disagio passeggero? Qualche giorno di riposo poi si riparte. Facciamo una settimana. Anzi due. Che diventano tre, quattro, e… Segni di miglioramento? Zero. Anzi, va sempre peggio, peggio che mai. Diagnosi e prognosi, cause ed effetti, tesi e antitesi: un film già visto. Il ritorno di un incubo. Dove ho sbagliato? Cosa dovrei riconsiderare – o ritentare? Proprio nel più nefasto dei periodi, con la pandemia che dilaga e i soldi che ormai non bastano neppure per mangiare, mi ritrovo inerme e sfiduciata. Completamente spenta, Mi ostino a sfiancarmi con attività alternative, pur chiedendomi a che scopo, tanto non correrò più. Temo il giorno in cui la stanchezza, ora solo mentale, si abbatterà anche sul mio fisico, così da ridurmi ad un’ameba. Il tanto vituperato 2020 sta per finire. Al 2021 non voglio neppure pensare.  

 




                                                                                                                                                   

lunedì 29 luglio 2019

Magiche staffette


Adesso che sono finite, cosa faccio? Mi fermo, di nuovo ai box, guarda caso. Sembra fatto apposta: se ho zigzagato tra gli acciacchi dalla prima all’ultima staffetta, riuscendo ad impegnarmi al massimo ad ogni appuntamento, ora sono sul punto di arrendermi. Il calcagno è insopportabile, non mi concede nessuna tregua. E il mio incedere claudicante destabilizza l’intero organismo. Muscoli e articolazioni in rivolta, mi sto piano piano decomponendo.

Eppure, sembrava che tutto procedesse più che dignitosamente, sono persino riuscita a correre a velocità vicine a quelle dei tempi migliori. Certo, l’esordio non è stato dei più brillanti. Ma in quella fredda sera di inizio primavera potevo avvalermi di diverse attenuanti: totale assenza di allenamento, raffreddore in incubazione, orario, clima e percorso imbarazzanti. Per non parlare dell’inesperienza verso questa tipologia di gara. Di staffette ne avrò corse tre o quattro in tutta la mia vita, in un passato ormai troppo lontano. Non so come si interpretano, né come si gestiscono. So solo che bisogna correre forte. Ecco, qui casca l’asino. Il mio “forte” è all’incirca quello che per i miei compagni di squadra corrisponde al ritmo di riscaldamento. Ho detto compagni, e non si tratta di un refuso. L’idea era quella di ricostruire il fantastico trio del giro delle Eolie 2017, ma il mio entusiasmo coinvolge solo Pez. Il terzo uomo, Daniel, lo conosciamo la sera stessa, e la sua carica sarà determinante. Freddo, pioggerella, buio pesto: condizioni perfette per una pessima figura., Nonostante tutto (soprattutto, nonostante me), non arriviamo ultimi. Una fatica colossale, come una lunga ripetuta - chi se le ricorda più? Scattante ed esplosiva non lo sono mai stata, né potrò mai esserlo, ma se nei prossimi giorni riuscissi ad attivare la modalità “allenamento” qualcosa si potrebbe migliorare. Una certezza comunque l’ho acquisita: quella della staffetta mista è stata un’idea geniale. Non facciamo classifica, non abbiamo nulla da vincere né da perdere: gareggiare senza ansia da prestazione, spremersi al massimo per quei pochi minuti, tra l’incitazione dei compagni. Che, insieme al testimone, ti passano anche la loro foga. Gli avversari non ti considerano, tanto non sei una minaccia: e tu ricambi la cortesia, non curandoti affatto della posizione di chicchessia (e nemmeno della tua). Adrenalina senza stress, è quello che mi serve.

La seconda prova si presenta dopo un mese. Un’altra serata gelida, l’inverno quest’anno non ha fine. E anche questa gara è interminabile: inizia tardi, dura il doppio e termina a notte fonda. Mi tocca correre all’ora in cui di solito abbraccio il cuscino. Mi sarò scaldata abbastanza? Sopporterò le scarpe nuove? Reggerò due frazioni senza cadere a pezzi? Una staffetta moltiplicata per due è una vera agonia. Arrivo in ginocchio, dolorante in ogni cellula. Ma quando leggo la mia prestazione sul Garmin rinasco. Vedi, basta poco. Ci vorrebbe solo un po’ di continuità, tornare alle buone abitudini, riappacificarsi col corpo e con la mente.

L’illusione di un attimo. Provo a riprendere la routine degli allenamenti e alla mia seduta preferita, le salitelle, il polpaccio dice stop. Non avevo mai sofferto in quest’area, e non mi spiego perché da qualche mese a questa parte sia diventato il mio (nuovo) punto debole. Destro e sinistro a fasi alterne. Si deve essere rotto qualche altro ingranaggio: la postura, l’appoggio, la struttura. Sta di fatto che arrivo alla terza prova al culmine dell’incertezza. E stavolta si tratta di un cross, da affrontare con le chiodate: l’ideale per un tallone e un polpaccio andati a male. Mi angoscia l’idea di cedere sul più bello, quando i miei compagni mi aspettano al varco. Invece… Saranno state le scarpette fiammanti, o l’erba fresca, oppure l’energia di un pettorale e di voci incitanti. In quel terreno accidentato, tra quei zigzag, ho volato. Il polpaccio? Chi ci pensa più. 


Castenaso, di nuovo erba, e per finire un po’ di pista. Questo campionato permette di sperimentare ogni sorta di terreno, mi dovrò adeguare. La nostra squadra, del resto, deve adeguarsi alla defezione di Pez, che preferisce solcare altre strade. Peggio per lui, fortunatamente non mancano degni sostituti. Fabio prima, Ladislao oggi. La parola d’ordine è divertirsi. E poco importa che quello che ho stampato sul volto assomigli più ad un ghigno che ad un sorriso. Ogni volta credo di morire, ma ogni volta mi sento al settimo cielo.

Arriva giugno, e la mia staffetta preferita. Non chiedetemi perché. Obiettivamente di bello non ha proprio nulla: strade anonime in una zona squallida. Forse perché è stata la mia prima staffetta, nei miei anni migliori; forse perché qui mi sono espressa degnamente anche in tempi non troppo remoti. Insomma, per gli arcani misteri del cuore, al Pioppeto sono affezionata e sono oltremodo contenta di poterla affrontare. Spingo al massimo nei rettilinei, cerco di non rovinare tutto nelle curve, e realizzo un tempo per me stratosferico. Sono talmente entusiasta da lasciarmi convincere a partecipare al diecimila della domenica successiva: le colline del Secchia. Bella corsa, per quel po’ che ricordo: poteva essere il 2003 o il 2004, correvo per il Ghinelli e andammo in rappresentanza della Uisp per contenderci non so quale trofeo. Diluviava, e un’avversaria di stazza mastodontica cercò di farmi fuori con una spallata – non mi è ancora andata giù. Me la ritrovo sulla linea di partenza anche stavolta. La domino per un po’, fino al risveglio del tallone maledetto. Se al dolore aggiungiamo la scarsa condizione generale, ne esce una gara penosa.

Una decina di giorni per rimettermi in piedi: si gioca in casa, vietato mancare. Manca invece Daniel, anche lui acciaccato: e io che pensavo di avere l’esclusiva dei malanni.  Fabio e Ladislao sono i miei fidi scudieri. Il drago da infilzare consiste in un perimetro rettangolare di un chilometro scarso, ostacolato da fittoni e tratti bui, da ripetere due volte. Esatto, un’altra staffetta “doppia”. No, questa formula non trova alcun consenso, ma vediamo di farcela piacere. Come sempre, temo di fallire, di crollare anzitempo. Invece, denti stretti e cuore in gola, mi spremo fino all’ultimo metro.

Percorso bizzarro quello di Casalecchio. Un po’ di asfalto, un po’ di erba e un po’ di bossoli. Siamo in un campo di tiro a volo, e meno male che non siamo noi i bersagli. Troppe curve, secche, a gomito; troppi cambi di direzione e di terreno. Fatico a spingere, non trovo passo né ritmo. Stavolta non mi sono piaciuta, e il calcagno riprende a disturbare troppo.

Una settimana difficile quella che precede la staffetta di Ca’ de Fabbri. Il dolore è di nuovo al centro della mia attenzione, ancora a disturbare il mio quotidiano. Rincorro una sorta di condizione atletica che continua a sfuggirmi, e la sconfitta è sempre più concreta. Devi insistere, convincerti che è solo una questione di resistenza: di riabituare il tuo piede e il tuo organismo al gesto della corsa. Puoi riuscirci solo correndo. Già, ma come? Con un coltello conficcato nel calcagno, con muscoli, tendini e ossa tesi e disarticolati come in un burattino impazzito? Non è meglio rassegnarsi all’evidenza? No, non ci riesco. E porterò a termine anche la penultima prova. Impegnativa come tutte, come tutte tirata al massimo. Ridicola in termini assoluti, importantissima per me. 
 

Affossare l’entusiasmo è questione di un attimo. Basta avvertire di nuovo una scossa al polpaccio, e tornare sui tuoi passi con la coda tra le gambe. Dai, che non è nulla. Un bel massaggio, qualche giorno di riposo, e sarai pronta per l’ultima staffetta. Forse. Intanto, di riprendere ad allenarsi non se ne parla proprio. Riesci giusto a sgambettere attorno a casa, come nemmeno l’ultimo dei tapascioni. Quasi speri che la prova della Ca’ Bura venga annullata. Con questo diluvio, tra tuoni e fulmini, sarebbe legittimo: ne va dell’incolumità dei podisti. Invece no, bisogna rendere onore al gran finale. Così non resta che confidare nell’effetto del Voltaren – e in quello del pettorale. Quando Daniel mi passa il testimone, do sfogo a tutta la grinta e la rabbia che ho in corpo. Cerco di non farmi intimidire dalla salita scivolosa, e di minimizzare i danni in discesa. Ora dovrei sprintare fino al traguardo, ma fatico a tenere alto il ritmo. Potevo chiudere meglio, non mi è riuscito. Scarsa di rendimento, di condizione, di tutto. 


Adesso che sono finite, cosa faccio? Manca un mese all’evento più importante dell’anno e io sono lontana anni luce dall’essere pronta. Contavo nella ripresa, ma qui si continua ad affondare. Peggio dell’anno scorso. Con le ambizioni azzerate, anche le speranze si riducono al lumicino – e l’idea di mollare definitivamente tutto si fa sempre più assordante. Non vedo appigli, e il naufragare in questo mare non mi è affatto dolce. Mi aggrappo a chi ancora crede in me. Dobbiamo essere più forti del dolore. Ricordamelo ogni giorno, ogni istante.


martedì 23 aprile 2019

Da Lovoleto a Soragna, attraverso la Romagna: la sfida è iniziata


A ogni incontro con la primavera
non so star quieta – sorge il desiderio
antico, un’ansia mista ad un’attesa,
una promessa di bellezza
e una gara di tutto il mio essere
con qualcosa che in essa si nasconde.
Quando la primavera svanisce
v’è il rimorso di non averla guardata abbastanza.
(Emily Dickinson)

Rassegnarsi o perseverare? Ammettere l’ineluttabile o confidare in altri orizzonti? In termini concreti: accontentarsi di quattro passi in compagnia o impegnarsi per nuove sfide? Credendoci ancora. Che sia questo l’errore? Credere nell’impossibile. Come se le favole avessero un fondamento, come se a tutto potesse porsi rimedio. Non essere così negativa, ti dicono. Già, perché mai dovrei esserlo? Perché abbattersi se dopo due anni, due interventi chirurgici, infiniti farmaci e terapie d’ogni sorta l’unico risultato è il nulla? Proviamo pure a non pensarci e corriamoci sopra. Che magari, così come è arrivato, quel dolore se ne andrà, hai visto mai. Dimenticati di lui, come se non esistesse: anzi, come se non fosse mai esistito. Cancellalo dai tuoi pensieri, dal tuo vissuto: rimuovilo da tutti i ricordi, da ogni pagina della tua storia. È altro da te. Tu non sei quel dolore: tu sei GoValeGo! Che non significa piangere sulla beata gioventù che non può tornare: significa concederti la possibilità di gioire ancora. Qui e ora. Gioire della sofferenza: quella bella, data dai polmoni che esplodono, dalle gambe di piombo, dalla vista che si annebbia nel fissare il miraggio del traguardo. Questa è l’agonia che ti rende viva. Vuoi proprio che uno stupido calcagno infiammato, un noioso muscolo contratto, una banale influenza ti sottraggano la tua linfa vitale? Probabilmente nella tua vita precedente eri un orribile criminale, e ora stai scontando tutte le tue pene. Ma verrà il giorno del riscatto, e dovrai essere pronta. Non importa se ora ti senti un gambero (per tre passi avanti, due sono a ritroso); non ti curar del male che un giorno sembra dormire e il giorno dopo scalcia come un indiavolato; non contare i troppi secondi che appesantiscono la tua media al chilometro. Concentrati su quel chilometro in più, su quel sorpasso che non speravi di compiere, sulla meraviglia di ciò che stai realizzando. Stai correndo. Non come vorresti, non quanto vorresti. I risultati non ti soddisfano, le incertezze ti destabilizzano, il supplizio è una costante. Ma tu non abbassi la testa. Anche a costo di sfiorare il ridicolo. Perché buttarsi in una staffetta composta da soli uomini, rischiando l’ultimissimo piazzamento, richiede un grande coraggio. Così come inanellare quattro gare in tre settimane, senza nessun allenamento, sfidando acciacchi cronici, contratture nuove, tosse, febbre e… Cosa manca? Forse un giorno troverai un bravo esorcista. Nel frattempo, si sappia che GoValeGo è viva e lotta insieme a voi. Antipatica come sempre, scontrosa e intrattabile come solo lei sa essere. Ma smaniosa di buttarsi a capofitto su di una tosta tabella di allenamento, verso allettanti obiettivi. Che ad aggiustare il tiro c’è sempre tempo.

Per la cronaca, queste sono le recenti competizioni sulle quali ho lasciato un’insignificante traccia:
  • 31 marzo – 5mila di Lovoleto (non ultima, ma quasi)
  • 7 aprile – 10mila di Alfonsine (non correvo 10 km da novembre)
  • 12 aprile – Staffetta della Montagnola (1km di agonia, più piano di così si cammina, ma che ridere!)
  • 14 aprile – 5mila di Russi (la miglior media dell’ultimo anno di corsa)
  • 22 aprile – 9,8 km, Criterium degli Assi a Soragna (tosse, febbre, antibiotici: cosa aspettarsi?)

What’s next? Difficile dirlo. Sogno il giorno in cui potrò affermare con determinazione i miei progetti immediati e futuri. Per ora so che oggi mi alienerò sui rulli: l’inverno è duro a morire, ma io lo sono di più.



venerdì 1 marzo 2019

Trofeo Otto Comuni - Finale


Mi si nota di più se vado e non mi piazzo, o se resto a casa e realizzo che avrei potuto piazzarmi? Sì, ma quante possibilità ho? Il calcolo delle probabilità è a mio sfavore, e l’idea di guidare un’ora per correre 6 chilometri non alletta molto. Però, qual è l’alternativa? Tentare una corsa solitaria, col rischio di fermarmi a ripetizione per il dolore, oppure partecipare alla camminata domenicale, col sorriso di circostanza di fronte ai tanti come stai. Domenica rovinata in entrambi i casi. Certo che, anche andare fino là per un pugno di mosche… Insomma, mai una volta che prendi una decisione senza se e senza ma. Vai a quella cacchio di gara, somara! Ne avessi corsa almeno un’altra, il podio del trofeo sarebbe assicurato. Così invece puoi solo sperare in magico incrocio di evenienze: un numero al lotto, perché la tua condizione non ti concede nessuna certezza. Nemmeno quella di riuscire a completarli, quei miseri sei chilometri. Puoi solo fare affidamento sulla santa adrenalina, grazie alla quale dolori e affanni vengono ridimensionati – mentre nei pochi e maldestri allenamenti danni fisici e turbe mentali incombono come mannaie, aggravando ogni minuto di corsa. Esasperante.

Due giri, non mi piace: non amo tornare sui miei passi, preferisco l’andata e ritorno, vedere l’arrivo solo alla fine. Partenza imbottigliata, strade strette, curve e ricurve. Scalpito. E mi innervosisco. Il primo chilometro è decisamente lento, e le mie avversarie sono tremendamente lontane. Che poi, quali sono le mie avversarie? Non so proprio con chi mi stia giocando il terzo posto e, onestamente, preferisco non saperlo. Ho risorse limitate, che gestisco a fatica. Questa distanza, poi, per me è un’assoluta incognita. Non così corta da permetterti di sparare tutto e subito, né così lunga da consentirti giochi tattici. Senza contare il fatto che io, quanto a tattica, sono sempre stata una schiappa. Domenica scorsa sono partita come un razzo, per poi pagarla nel finale. Oggi, con l’intasamento, ho da subito tirato i freni, ma poi? L’aria è decisamente fredda, troppo per i  miei gusti. Rispetto ad una settimana fa, mi sento più impacciata. Cerco di curare l’andatura - piedi gambe braccia, controlla! Sarebbe bello sciogliere le briglie nel secondo giro, è così che si dovrebbe fare. Se solo avessi più chilometri nei miei muscoli, se solo avessi potuto allenarmi decentemente…succederà mai? Non è il momento, nessun dubbio è ammesso ora: ora l’imperativo è spingere al massimo fino all’ultimo metro. Insomma, più o meno. Impegnarsi, dai: che non si dica potevi fare meglio.   

Sarebbe bello se, a giochi conclusi, si potessero consultare le classifiche. Invece no, tocca assistere alla premiazione di tutte le categorie, dai neonati agli anziani. Naturalmente, le vecchie sono le ultime ad essere considerate. A teatro ormai svuotato, apprendo che potevo tornarmene a casa subito. Pazienza. Ci ho provato, no? Vado a sfogarmi un po’ sulla cyclette, meditando sul da farsi nei giorni a venire. Senza un obiettivo mi manca la motivazione; senza uno stimolo mi manca la forza di sfidare il dolore. Rischio di spegnarmi proprio quando la stagione va accendendosi. Reagisci!



mercoledì 30 gennaio 2019

Cinque passi nella storia: la Cinque Mulini


Avendo ormai constatato che la medicina è un’opinione e che, oltre ad essere zoppa, sono ormai anche bipolare, cerco di sopravvivere a questo inverno che sembra non avere fine (e non mi riferisco a quello astronomico). Il dolore aumenta, e nessuno sa spiegarmi il perché: perché, fisiologicamente e anatomicamente, non sussiste nulla che giustifichi una simile sofferenza, non in quel punto e non in quella forma. Qualcuno lo esponga anche al mio calcagno, vi prego: non ne posso davvero più. E non si tratta solo dello sfinimento provocato dalla sensazione di un coltello infilzato nel tallone, dal non riuscire a camminare umanamente, dal non trovare una scarpa adatta né una posizione tranquilla. È il non arrivare a dare un nome a questo supplizio ciò che maggiormente esaspera: non conoscere il nemico, ignorare contro cosa combattere, perdere fiducia e speranza verso il mondo intero. Due settimane senza muovere un passo di troppo, un’infiltrazione, una manipolazione, un paio di dosi di antinfiammatori: vediamo cosa succede. Proviamo, almeno, a festeggiare correndo i nostri compleanni. Per poi ricadere nel tunnel. Voglia di sparire, di non farmi vedere, di eliminare qualsiasi forma di contatto: a nessuno interessano le mie disgrazie, sono venuta a noia perfino a me stessa. Non ho nulla di nuovo da raccontare, nulla di vecchio che valga la pena riesumare; niente da chiedere né tantomeno da ascoltare. Riesco solo a piangere. So benissimo che non serve a nulla, che non è la soluzione, che le disgrazie vere sono altre. Ma questa nebulosa in cui vivo ormai da anni è sul ciglio di un buco nero. Ho paura. Paura che le risposte tanto anelate possano all’improvviso rivelarsi indesiderate; paura di perdere di vista i pochi punti di riferimento a cui mi sto aggrappando; paura di abbandonarmi, trascurarmi, abbruttirmi. Fa che la passione continui a bruciare, affinché non manchi la forza per reagire.

Le reazioni di un individuo al limite della sopportazione sono spesso sproporzionate. Un giorno mi sento uno zombie e fatico ad alzarmi dal letto, il giorno dopo mi iscrivo ad una gara che nemmeno nei miei anni d’oro avrei pensato di affrontare. Avevo addirittura sempre creduto che la Cinque Mulini fosse roba da extraterrestri, non mi ero proprio posta la questione che potesse esserci spazio anche per i comuni mortali. Invece, incredibile a dirsi, possono correrla anche i rottami come me. Oddio, perché voglio farmi del male? Semplice: me ne farei molto di più restando a casa o, peggio ancora, inducendo persino il “mio” fotografo a non andare. Miseri e tapini a flagellarsi a vicenda, che bel quadretto. No, grazie, mi sono già fustigata abbastanza. Se devo proprio soffrire, che almeno soffra correndo.

Dopo una notte trascorsa a combattere coi miei spauracchi, il campo sportivo pare un luogo celestiale. Sono emozionata. E non si tratta della consueta tensione pre- gara, che tanto dalla competizione mi aspetto ben poco. Mi entusiasma perlustrare i sentieri che ho sempre visto in TV, mi eccita pensare che tra poco solcherò anch’io quei tracciati. E quei mulini! Il passaggio al loro interno è uno spettacolo unico, ripenso a quanto ci faceva ridere immaginare il mio caracollare in una simile situazione. Ti vorrei proprio vedere su quei gradini. Ecco, oggi mi vedrai. Non mi spaventano, neanche un po’. Nulla mi spaventa ora. La mente è completamente sgombra: intendo semplicemente godermi il momento. Fatico un po’ a trovare il mio assetto, meglio dire che non lo trovo affatto. Le variazione del terreno mi creano qualche difficoltà, dovute soprattutto alla mia totale estraneità alle scarpe chiodate. Paradossalmente, comincio a sentirmi a mio agio una volta in mezzo ai campi. Nonostante le buche e i fossi da saltare, riesco persino a guadagnare qualche posizione. Quando me lo ricordo, cerco di controllare l’andatura: sollevo le ginocchia, oscillo le braccia, spingo sui piedi. Insomma, ascolto le voci. Difficile esprimersi sul risultato, ma intanto metà gara è andata e i mulini sono nei paraggi. Qui il fondo è più duro, e i chiodi risultano fastidiosi. Ma dico, stai correndo nella storia, te ne rendi conto? La gente, le luci, io che entro e calpesto il tappeto verde. Si fa appena in tempo a realizzarlo, e Jader sta quasi per perdersi il mio grido di gioia, avendomi dato forse per persa. Un altro ingresso, altri gradini, poi via, verso il tratto più duro. Certo, l’ultimo chilometro è sempre il più ostico. Vorrei spingere ma non ho più le gambe, o forse è il fiato che manca, oppure entrambe le cose. L’incapacità di dosare le forze, di decidere quando staccare, quando partire alla morte. La mancanza di allenamento, la scarsa attitudine alla competizione, la paura di non farcela. È in momenti come questi che mi servirebbero incitamenti a squarciagola. Sarà una mia debolezza, ma ne avrei davvero bisogno. Ecco perché mi ha tanto commossa la scena di Daniele Caimmi che correva gridando accanto a Meucci: l’allenatore che sprona il suo atleta, lo carica, lo spinge virtualmente. Ho avvertito la passione, la dedizione, l’affiatamento: una sinergia esplosiva, che produrrà senz’altro eccellenti risultati. Ma quello è un altro pianeta, che ho ammirato una volta conclusa la mia piccola fatica. Da brava perenne insoddisfatta, posso confessare che la posizione e il crono mi inorridiscono, e tutti i bla bla bla sulla mia schifosa condizione fisica consolano ben poco. Non mi sono spremuta abbastanza, sempre troppo prudente e controllata. Insomma, non ho aggredito la gara. Però… Che spettacolo! Lo sto realizzando lentamente, giorno dopo giorno, che ho preso parte ad un evento straordinario: e lentamente sto caricando le pile. L’inverno è ancora lungo, ma ha le ore contate.




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