lunedì 27 luglio 2009

De Andrè canta De Andrè


Amo il silenzio. Non sono una di quelle persone che necessita di sottofondo musicale per qualsiasi attività. Condivido anzi le osservazioni di Umberto Eco a proposito dell’inquinamento acustico, quel "bagno amniotico che svilisce la musica "e ci perseguita negli aeroporti, nei bar e nei ristoranti, negli ascensori…”
Esistono però alcune eccezioni, note che sanno penetrare nelle mie fibre facendole vibrare, suscitando turbamenti di rara intensità. Pochi gli autori capaci di scatenare in me simili effetti, pochissimi quelli per i quali oso affrontare la folla di un concerto dal vivo.

Vidi Fabrizio De Andrè a Modena, credo fosse il 1991. Era da poco uscito Nuvole, ma io non lo avevo ancora assimilato. Conoscevo poco di lui, non avevo ascoltato altro oltre a quanto inciso nello storico concerto con la PFM: quel poco era stato sufficiente a farmelo amare, ma non fu abbastanza per farmi godere appieno lo spettacolo. Anche a causa della febbre che mi aveva colpito quella sera, non riuscivo ad entrare in canzoni per me nuove. Indispettita con me stessa, mi preoccupai di colmare le lacune della mia ignoranza.

Ero già pronta ad acquistare i biglietti per il concerto di Fabrizio a Bologna, nel settembre del 1998. Peccato che la data fu annullata. Il gennaio seguente lui scomparve.
Difficile accettarlo. Difficile concepire che una simile voce non esista più, che un tale poeta non possa più esprimersi, che quel genio non abbia più occasioni di sconvolgere, emozionare, provocare.
Pullulano tributi e riconoscimenti, omaggi e celebrazioni: ne condivido lo spirito e l’intento, ma percepisco come oltraggi tutti i tentativi di riprodurre le sue canzoni. Sfregi ad un’opera d’arte. Tutti, tranne uno: l’unico che possa cantare De Andrè è…De Andrè. Cristiano è il solo che abbia i requisiti per poterlo fare. Non avessi avuto questa certezza, non avrei certo acquistato i biglietti per il suo concerto a Parma. L’intensità della serata è però stata al di sopra di tutte le mie aspettative. Quante canzoni mi hanno fatto piangere, senza altra ragione che non fosse insita nel valore della canzone stessa? Non saprei dire. Cristiano, però, sabato sera ci è riuscito per almeno due volte.
Suoni limpidi e vibranti, voce calda e potente: uno colpo che non ti aspetti, Fabrizio è rinato.

Ho visto Nina volare tra le corde dell'altalena, un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena. Come fa il vento alla schiena: non è incantevole? Chi era quel “mostro” in grado di elaborare siffatte costruzioni?
Sulle note di Verranno a chiederti del nostro amore crollo definitivamente. La forza del testo, il coinvolgimento dell’interpretazione, il pensiero che nulla di così grande potrà tornare.
C’è qualcosa di sublime in questo concerto. Mi sorprende e mi ferisce: come tutte le più belle cose, vivono solo un giorno…

venerdì 3 luglio 2009

ciao biancone

Nina è sotto al letto, la piccola ha paura del temporale. Anch’io devo aspettare che si calmi la bufera, pur sapendo che oggi sarà impossibile svolgere il lavoro correttamente. 12+12x400, veloce a 3’40, “lento” a 4’00: fantascienza! Non sarà certo colpa delle condizioni meteorologiche se non riuscirò a tenere certi ritmi, ma almeno avrò una piccola attenuante.
Placati tuoni e fulmini, infilo le scarpe e vado. Piove ancora e, ovviamente, c’è vento, ma tant’è. Mi lancio nell’impresa, costretta a prendere fiato tra un 400 e l’altro. Lo so, così sballa il senso dell’allenamento, ma è il massimo che riesco a dare. Perdo ben presto la cognizione del tempo e del numero delle ripetute, capisco solo quando sono ormai al termine – sì, ma quanto manca? Intanto la pioggia ha ceduto il passo al vapore che sale dai campi e dall’asfalto. Mentre annaspo ormai allo stremo delle mie forze, una tenera visione solleva il mio spirito: un micione candido sta attraversando la strada. Buffo come continui ad emozionarmi ogni volta che scorgo un animaletto, se poi si tratta di un piccolo felino mi sento sorridere da capo a piedi.
Un incrocio di auto spezza l’idillio, sono costretta a fermarmi per lasciarle passare. Sciolto l’ingorgo, l’orrore. Il micione giace nel mezzo della strada, immobile.
Eseguo la mia ripetuta più veloce per raggiungerlo, ditemi che è ancora vivo! Occhi sbarrati, linguina tra le labbra, con un filo di sangue. Forse però non è finito, forse si può ancora salvare. Lo prendo tra le braccia, mi sembra di sentire il suo cuore pulsare. Ma sono a tre chilometri da casa, una distanza infinita. Mi avvio veloce sperando in un miracolo. Ti prego, piccolo, dimmi che sei vivo… Non un sussulto, non un cenno di vita. Mi rendo conto che l’unico cuore che pulsa è il mio, sono costretta ad arrendermi. Ti devo lasciare, piccolino. Spero almeno tu non abbia sofferto.
Riprendo a correre piena di rabbia. Maledetto chi ti ha ridotto così. Era impossibile non vederti. Non si è trattato di un incidente inevitabile. Maledetti tutti voi che vi sentite draghi in quella scatola di latta e che sapete usare solo il pedale dell’acceleratore!
Appena a casa crollo, tutte le emozioni si sfogano in pianto. Le mie cucciole si strusciano e mi leccano le gambe salate. Come potrei vivere senza di voi? Invece qualcuno ora forse sta cercando il suo micione bianco, che io non sono riuscita a salvare… Cerco di scacciare questa angoscia, ma l’inquietudine non mi abbandona.
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