lunedì 5 maggio 2014

Placentia Half Marathon: un tentativo

Dovessi esprimere un giudizio sulle città in cui ho gareggiato, me la caverei con poche parole: E chi l’ha vista? Il monumento più maestoso, il centro storico più elegante, l’architettura più singolare: tutto scorre indifferente ai miei occhi di podista. Davvero la maratona di Londra si conclude al cospetto di Buckingham Palace? E quella di Firenze transita in Piazza della Signoria? A Venezia si attraversano tanti ponti, questo lo so. Ma non mi si chieda che aspetto abbia la piazza principale di Piacenza.
Quando la si attraversa ad inizio gara, si è ancora troppo ammucchiati: l’attenzione è concentrata su tutti quei piedi da cui tenersi alla larga. Mentre alla fine dei 21,097 km si è troppo storditi per notare alcunché – e io stordita lo ero un bel po’.
Cosa potevo aspettarmi dopo appena tre settimane di allenamento? Il 2 febbraio mi ero dovuta arrendere all’evidenza: sei un rottame, lascia perdere; pedala, fai ginnastica, leggi un libro, ma a correre no, non provarci neppure. A metà marzo, forse, se ne potrà riparlare: partendo da zero, per l’ennesima volta. Come una principiante, come non avessi mai corso in vita mia, come un’estranea a questo sport. Demoralizzata. Pensavo fosse questione di giorni, invece passano le settimane e ancora arranco: riuscirò mai più a correre senza dovermi continuamente fermare per prendere fiato? Serve uno stimolo forte, una valida motivazione, un obiettivo preciso: la gara. Approfittiamo di un’occasione e fissiamo la data: il 4 maggio si va a Piacenza. I chilometri cominciano a scorrere un po’ più agili, muscoli e articolazioni iniziano a rispondere senza troppe lamentele, l’idea di allenarsi smette di spaventare. Certo, età e fisico sono quello che sono e rispondono come meglio possono, ma ricominciare a godere della fatica è già una gran conquista.
A dire il vero, a Piacenza non godo poi tanto. Comincio a soffrire proprio nel tratto che maggiormente apprezzo, l’argine del Po. Qui il panorama si apre, il paesaggio mi è familiare, ma il vento contrario mi infastidisce e un dolore al fianco destro inizia ad insidiare la mia andatura. Davanti a me i palloncini dell’ora e 35 minuti: stai qui fino al dodicesimo, quindicesimo al massimo, poi prendi e vai. Questo l’intento, che si fa via via più nebuloso. Continuo ad esserci, magari un po’ ad elastico, ma sempre a ruota. Figure e rumori annunciano che ci stiamo approssimando al cuore della città: quegli ultimi chilometri che dovevo aggredire di slancio vedono invece il mio progressivo spegnimento. Se non altro, non ho subito nessun sorpasso, anzi, ho superato diverse atlete lungo il percorso. Magra consolazione. Più soddisfatto Jader, che si aspettava almeno tre minuti in più. Io invece contavo su due o tre in meno. Ci ho provato. Ci riproverò.
PS: per un resoconto più tecnico, vedi qui.
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