mercoledì 17 ottobre 2012

Open. La mia storia

Di tennis capisco ben poco e Agassi è un lontano ricordo: ai tempi non mi stava neppure particolarmente simpatico - gli preferivo di gran lunga Sampras, semplicemente perché lo trovavo alquanto bello: dovendo scegliere per chi tifare, priva di qualsiasi competenza, mi appellavo all’estetica.

E allora perché questo libro? Inutile nasconderlo: principalmente, perché ne parla Baricco nella prima puntata della sua rubrica Il mio mondo in 50 libri. E’ vero che Baricco riesce a farmi innamorare di qualsiasi testo parli, ed è altrettanto vero che molti di quelli che ho poi affrontato si sono rivelati delusioni. Però qui c’è lo sport: la passione e la sofferenza, l’esaltazione e l’angoscia; i conflitti mentali di un grande atleta, i tormenti fisici e psicologici che hanno caratterizzato un autentico fenomeno, il dialogo interiore di chi ha sempre un avversario di fronte a sé: ecco cosa cercavo in queste pagine. Ricerca fruttuosa, oltre qualsiasi aspettativa. Il merito, va detto, non è solo del protagonista: per quanto una vita possa essere straordinaria, resta cosa anonima se nessuno la sa raccontare. Agassi ha consegnato la sua vita nelle mani di un grande scrittore: il risultato è un racconto avvincente, capace di sorprendere ed emozionare. “Io odio il tennis” è il leit-motiv che anima tutte le 493 pagine: una battaglia infinita tra ciò che sei e ciò che altri vorrebbero tu fossi; tra ciò che sei e ciò che vorresti essere; tra ciò che sei e ciò che di te conosci. “A pochi di noi è concessa la grazia di conoscere se stessi, e finché non ci riusciamo, la cosa migliore che possiamo fare è essere coerenti.”

Chissà quanto c’è di vero e quanto di romanzato in questo libro. Ma, in fondo, che importanza ha? Leggendolo, sono riuscita a percepire le sensazioni del narratore, ho quasi vissuto in diretta i suoi match e condiviso i suoi turbamenti. In un campione si cercano spunti di ispirazione: qualcosa che possa spronare, motivare, rafforzare. Qui ce ne sono diversi ma, soprattutto, il libro è ricco di ragioni per cui affezionarsi a quest’uomo: impossibile non desiderare di conoscerlo meglio, chissà come sarebbe chiacchierare con lui… Così fantasticando, mi appunto i passaggi che meritano di essere conservati. L’argomento però non è chiuso: se, citando lo stesso Agassi, questo libro non esisterebbe senza il suo amico J.R. Moehringer , voglio incontrare anch’io questo scrittore – mi ha già colpito con Open, mi colpirà altrettanto con il suo romanzo Il bar delle grandi speranze? Beh, questa volta devo riconoscere a Baricco che aveva ragione, chissà se potrò affermare altrettanto su Agassi.

sabato 15 settembre 2012

Giro podistico delle Isole Eolie - parte 2


La luce ora è trasparente, le isole sono così vicine che sembra di poterle toccare. Mi trovo esattamente dove vorrei essere, dove vorrei restare. Del resto, in un certo senso, qui è cominciato tutto… La caserma dei Carabinieri, ricordi? Era il nostro punto di arrivo: dal villaggio alla caserma e ritorno; io ti staccavo sempre in salita, in fondo anche allora correvo tutti i giorni, pur senza sapere nulla di ritmi, gare o allenamenti.  Tredici anni dopo, ti stacco di nuovo: arrivo alla caserma poi torno a recuperarti. Piano piano, giusto per sgranchirmi le gambe: per godermi al massimo l’isola, ora che la gara è finita e ci restano poche ore di quiete. Dovevamo salire al vulcano, ma il nubifragio della mattina ha sicuramente reso il sentiero una poltiglia: anche quest’anno, niente cratere. Ma torneremo, vero? Perché io non posso pensare che questa sia l’ultima volta. È stato sempre un azzardo, contro ogni logica, oltre qualsiasi senso della ragione. Ma abbiamo fatto il pieno di entusiasmo, come mai avremmo creduto o sperato. Nonostante i mille dolori, il divieto ai bagni di mare, il maltempo. La perfezione non è per noi, il va tutto bene non ci appartiene: eppure questa è la nostra dimensione ideale, qui riusciamo a sentirci vivi e vitali. Sarà per una certa affinità con gli inferi…

foto tratta da www.modenacorre.it
L’inferno si è scatenato questa mattina. Sembrava una giornata tranquilla, non certo radiosa, ma neppure troppo cupa. Invece, appena terminati i soliti rituali pre- gara, il cielo si infuria lanciandoci secchiate d’acqua. Ci stringiamo sotto un tendone, già fradici e infreddoliti. Si potrebbe sospendere la tappa, tanto i giochi sono fatti, no? No, nessun cenno ad una simile ipotesi. Se almeno la riducessero di un giro… No, neppure quello: soffrite fino alla fine, siete o non siete forti atleti? Mah, la mia gamba ha molti dubbi in proposito e quando, già dopo pochi passi dal via, sprofondiamo nel fiume che scorre tra le strette vie del paese, riesco solo ad augurarmi che tutto finisca il più presto possibile. Schivare le pozzanghere è impossibile, ormai non esiste più la strada. Con un misero stile da palombaro guadagno comunque da subito la mia posizione: è vero, oggi potrei lasciarmi un po’ andare, gestire il vantaggio con serenità. Quando mai? Non può essere che io mi senta sicura. Anzi, in queste condizioni non sono neppure certa di poter arrivare alla fine. Perché, oltre al rischio di annegamento, aleggia il pericolo di non poter più tollerare il dolore. Come mai si è così incarognito? Spingere è davvero difficile, provo a conservarmi un po’ per spremere il massimo nell’ultimo giro: arriverà, prima o poi. Arriverà quel maledetto traguardo che sancirà una volta per tutte il mio quarto posto. Stavolta li ho contati bene i passaggi, non come ieri che, nel dubbio, stavo per proseguire la corsa oltre il dovuto. Quel terribile circuito di Lipari: pietrini insidiosi, villeggianti distratti, e un muro da scalare per cinque volte. Attenzione ai massimi livelli, facile perdere il conto: specie quando monta la stanchezza e la fatica percepita non è affatto proporzionale al chilometraggio svolto. Ero comunque riuscita a condurre ottimamente la mia gara, con discreta spinta e notevole slancio. Anche il dolore, incredibilmente, si è fatto notare appena. Strano davvero: dopo la sofferenza durante il tappone, e il costante disagio nella giornata di riposo (giusto una sgambatina, tanto per gradire), temevo un riacutizzarsi del problema. Tutt’altro. Mi ero illusa, vuoi vedere che sto guarendo davvero? No no, eccolo di nuovo qui, bastardo più che mai. Che avverta la stagione, come i reumatismi? Qualcuno mi vuole dire cosa accidenti ho? 

Domani si fa ritorno. Un viaggio lunghissimo. Poi? La luce di Vulcano non si potrà riprodurre. E, considerato come mi sento, neppure quella carica. Credevo che questo potesse essere un punto di (ri)partenza, invece temo sia stato solo uno squarcio nel buio: ho trovato l’isola felice, ma ora la devo abbandonare. Inutile fare programmi, tutto è ancora da provare – sarebbe bello anche poter capire, ma questa resta un’utopia.

mercoledì 12 settembre 2012

Giro podistico delle Isole Eolie - parte 1


Zolfo.  Amo questo odore. E questi fumi che sbottano dalle rocce, dalla terra, dal mare. Forse è il demone che è in me a rendermi così succube al fascino di quest’isola. E mai come adesso avrei bisogno di un patto col diavolo: per guarire dall’infortunio che mi blocca da mesi e, soprattutto, per liberarmi dalle avversità che mi perseguitano da sempre. Supereremo anche questa: quante volte ce lo siamo ripetuti, negli ultimi anni? Sperando sempre di approdare in acque più quiete. Invece, ogni volta una tempesta: non appena credi di avere domato la zattera, ti ritrovi nuovamente naufrago.

Visite ed esami, cure e terapie, concluse con un “non hai niente”. Sì, ma allora, questo dolore? Vabbè, mi convinco che sto bene e rimetto le scarpe da corsa. Che fatica! Più di 2mila chilometri di bici sono serviti a ben poco, se ora arranco come l’ultimo dei tapascioni. Ciò che conta, però, è ripartire: perché non ho niente, quindi si deve andare. Un mese di tempo per riacquisire una condizione quanto meno accettabile. Non tanto da poter essere competitiva, ma sufficiente a poter svolgere un buon allenamento. Alle Eolie. Un colpo di vita, nel vero senso della parola: un azzardo, forse un salto nel vuoto, ma l’isola sta lanciando segnali ai quali non possiamo sottrarci.
Peccato che la preparazione non proceda come da programma: ritmi assurdi, quelli proposti, e magari fosse questo l’unico intoppo. Il problema è che la gamba inferma ha in qualche modo condizionato l’appoggio, e ora a dolere è la caviglia. Tanto da non riuscire a correre. A dieci giorni dalla partenza. Ultima domenica a casa, niente collinare – sostituito da 100 km in bici. E niente corsa nemmeno lunedì e martedì. Mercoledì si prova. Sentenza: nessun problema alla caviglia, ma il gluteo che sembrava essersi zittito è tornato a farsi sentire. Ma come? Non ho niente! Lo vuoi capire o no?! Domani qualche ripetuta, 400 e 800 (dovrò pure farle girare, queste gambe), poi solo fartlek e corsa lenta. Ultima sgambata prima della partenza: un sabato mattina come tanti, percorso già collaudato. Si attraversa Stiatico, e si ritorna sulla ciclabile lungo la Galliera. Ecco là il Mercatone, mancano ormai 3km. Il dolore è lì, acuto e persistente, ma io non ho niente quindi non l’ascolto. La strada curva a destra, un gradino per tornare sulla pista: prendo male le misure, e mi schianto al suolo. Il gomito destro è andato, si è aperta una voragine orripilante. Riprendo a correre grondando sangue. Cosa penserà vedendomi arrivare in queste condizioni? Come ho fatto? Perché anche questa? Perché oggi? Lavo la ferita, tampono l’emorragia e tremo al pensiero della diagnosi. “No, non ci sono segni di frattura, mi sento di escluderla”. Dottoressa, posso baciarla? Cucire? È proprio indispensabile? “Signora, ha visto la ferita?” Cucia pure… No, niente bagni. Pazienza, basta che possa correre.

Adesso, Vulcano amatissimo, mi devi assistere. Perché ho sfidato la cattiva sorte pur di essere qui: non importa se non andrò in classifica, ciò che conta è che riesca a chiudere ogni tappa con grinta e gioia. Del resto, i percorsi li conosco bene, so quali sono i punti critici e dove ho avuto più difficoltà nella passata edizione. Due anni fa, quando ero discretamente in forma, arrancai su tutte le salite, addirittura fermandomi  in molti tratti. Ora sono tutta rotta, niente affatto allenata: devo solo sopravvivere.
Vulcano, lunedì 10 settembre, ore 10. Parto nelle retrovie. Il podio è già composto, tutto il resto è un’incognita, ma poco importa. Me la prendo comoda, senza forzare. Oso un sorpasso, ma più piano di così non potrei procedere. Ecco l’attacco della salita, che dovremo percorrere tre volte. Agguanto un’altra ragazza, e una terza la supero proprio in cima, prima di buttarmi in discesa. Eppure non ho spinto, questo muro tanto temuto non mi è neppure sembrato particolarmente duro. Adesso però non riesco a lasciarmi andare come vorrei, un po’ per paura, essendo l’asfalto alquanto sconnesso, un po’ per il dolorino che non dà tregua. Credo però di avere guadagnato la quarta posizione, e questo mi rende alquanto euforica. Anche Jader non può credere ai suoi occhi quando mi vede, al primo giro di boa. Tengo il ritmo, il secondo giro rispecchia il primo. Chissà quanto margine ho… No, non mi guardo alle spalle, non sia mai che perda l’equilibrio. Al terzo passaggio la salita si fa sentire, ma è l’ultimo, e ormai è fatta. Adesso sì che sto dando tutto: sarà poco, ma per me è il massimo. Anche in discesa: non so quale sia il mio vantaggio, ma corro come se avessi il fiato sul collo. Così, fino alla fine.

Concentratissima!
Lipari, martedì 11 settembre. Un minuto di vantaggio non è tanto. Se però penso che non credevo sarei rientrata nemmeno nelle prime dieci… Sono in gara, zoppa e monca, ma in gara. Con una notte insonne alle spalle. Sì, perché i guai non sono mai abbastanza. Ignoro le cause, ma non ho chiuso occhio. Non ci penso, non mi importa. Faccio come se non fosse successo nulla, perché nulla è successo. Devo solo pensare a correre – e a gestire il mio vantaggio. Stai lì, non tirare tu la gara: stai attaccata e non farle andare via. Rampa iniziale, poi saliscendi impegnativo, ultimo chilometro tutta discesa.  Parto cauta, davvero, a testa bassa, senza saltellare. Tranquilla. Ma dietro non riesco a starci, non è proprio possibile. Se mi riagguanteranno, sarà per merito loro, non per colpa mia. Io vado sul mio ritmo, le gambe girano: lente e acciaccate, ma girano. Nessun segno di cedimento su quella strada che nel 2010 mi vide procedere di passo sull’ultimo tratto critico. Ora invece crisi non ce ne sono, anzi. Un altro minuto conquistato, il distacco si fa interessante.

Salina, mercoledì 12 settembre. Questa tappa è la bestia nera di molti, spesso il banco di prova: qui la classifica si può stravolgere. Perché quasi 15 km, di cui 10 di salita, possono fare la differenza. Io sono sempre tranquilla, il mio gluteo un po’ meno. Lancia brutti segnali di allarme, già in fase di riscaldamento, ma non lo ascolto. Non ho niente! Anche oggi si tratta di gestire il vantaggio. La strada è tanta, e dura, può accadere di tutto. Le lascio andare, non forzo il passo, eppure riprendo subito la mia posizione. Fa male, accidenti! Non vorrà lasciarmi a piedi proprio qui? Sia mai! In fondo basta non pensarci: basta concentrarsi sulla bella gara che sto correndo, sulla soddisfazione negli occhi di Jader quando mi vedrà sbucare, sulla granita con briosche che mi concederò all’arrivo. Certo che 10 km di questi tornanti… Ne mancano solo 8, solo 7, solo 6… A meno due già vedo le stelle. Ho modo di voltarmi indietro, non vedo nessuna. Ho ancora qualche energia per superare uomini in difficoltà. L’ultimo chilometro è, come sempre, il più lungo. Ma, una volta scollinato, mi sento più sicura. Se non fosse per il dolore che non molla, e per l’altra gamba che decide di addormentarsi. Il tratto in piano lo corro come una papera, se mi vogliono abbattere è questo il momento buono. Poi riprende la discesa, riesco a sciogliermi un po’, ma non a lanciarmi del tutto. Se non altro, i tornanti permettono di scorgere chi insegue: non c’è pericolo. Non bisogna però accomodarsi, anche i secondi sono preziosi, specie nelle mie condizioni: spingere con tutte le forze, che manca poco. Con i due minuti di oggi, il vantaggio raddoppia: un buon margine, in prospettiva delle due ultime tappe – quelle che amo meno. La competizione è lungi dall’essere conclusa, ma la mia gara io l’ho già vinta.

martedì 15 maggio 2012

Oltre...


  
Facciamo un po’ di conti:
  • 22 aprile, Maratonina di Lovoleto – una schifezza
  • 25 aprile, Trofeo Liberazione di Ozzano – buon risultato e buone sensazioni
  • 1 maggio, Giro delle Mura di Ferrara – buon risultato e buone sensazioni
  • 5 maggio, Camminata di Viadagola – una super schifezza (ritirata)
  • 13 maggio, Camminata Montanara di Vergato – una schifezza umiliante (battuta anche dai cani)


Cosa vogliamo fare di questa altalena, che oscilla allo stesso modo anche negli allenamenti? Da un’occhiata veloce al rapporto gara-risultato emerge un dato interessante: sfaceli nelle gare sociali e soddisfazioni in quelle al di fuori del campionato. Può essere un caso, certo, ma non è escluso che una riduzione delle aspettative possa favorire il rendimento – specie in un periodo già esageratamente colmo di fattori stressanti. E’ comunque un campanello di allarme: lo stato di impotenza sta prendendo il sopravvento, la capacità di reazione è ridotta ai minimi termini, fiducia e determinazione sono allo stadio terminale.

Alt! Chiudiamo gli occhi e respiriamo profondamente. Inspirare, espirare. C’è bisogno di prendere fiato, e di fare un po’ di pulizie: lasciamo che la primavera segua il suo corso e aspettiamo fiduciosi che il risveglio si completi.

mercoledì 25 aprile 2012

Jon Krakauer, ARIA SOTTILE


Non è un libro per te. Perché no? Forse perché non ho mai provato interesse per l’alpinismo? O forse perché la montagna non ha saputo scatenare in me un’autentica passione (tante magnifiche escursioni, è vero, alcune decisamente indimenticabili, ma archiviate nel cassetto dei ricordi dopo lo schianto su quello stupido sentiero)? Oppure a causa della mia totale avversione verso tutto ciò che è estremo? Questo è vero. Ma non è l’impresa in sé ad attrarmi, né il luogo nella quale si svolge. È che ho un disperato bisogno di infilarmi negli ingranaggi della motivazione, carpire i meccanismi mentali che permettono di dominare le reazioni fisiche, cogliere spunti che possano fungermi da ispirazione. Certo, la bibliografia pullula di testi che promettono metamorfosi strabilianti, ma i facili indottrinamenti restano carta stampata. Io devo immergermi nelle pagine, perdermi tra le parole, entrare nel libro e scordarmi di tutto il resto: solo così potrò conservarne fertili tracce. E per far sì che ciò accada, è necessario che chi scrive non sia un saggio qualsiasi: per quanto colto, preparato, competente, se non riesce a catturarmi lo abbandono al primo capitolo.
Di Krakauer conosco ben poco. E, a ben pensarci, quel poco non è molto invitante. Il film da cui è stato uno dei suoi libri è infatti tra i più insopportabili che abbia mai visto: fossi stata sola, sarei uscita dal cinema dopo una ventina di minuti, anziché sopportare per  tre ore le cazzate di un bamboccio odioso. Un film, appunto: i libri sono altra cosa. Mi auguro che un autore affermato sappia narrare con profondità fatti tanto sconvolgenti quanto dibattuti.
Mi sono spesso chiesta cosa spinga un individuo a sfidare la sorte, in una prova che ha scarsissime possibilità di successo. E successo, in questo caso, non significa conquistare la vetta: significa sopravvivere. Uno su quattro ce la fa, media agghiacciante. Disinteresse per la propria sorte, presunzione di onnipotenza, ossessione totale e totalizzante verso un obiettivo che si impone come unica ragione di vita? Krakauer non fornisce una risposta: Krakauer descrive i fatti esattamente come li ha vissuti, riportando pensieri, impressioni, deliri di un uomo che è stato protagonista di un’immensa tragedia. Ho divorato questo libro, ripetendomi in continuazione: "Com'è possibile?". È vero che la vicenda è già sconvolgente in sé, come probabilmente lo sono tutte le avventure analoghe. Ma un conto è la fredda cronaca di un episodio, toccante sul momento, ma svanita un attimo dopo. Aria sottile è tutt’altro. L’autore rende tangibile l’inimmaginabile,  dà concretezza all’inverosimile, e quasi ti trascina nel suo vortice di follia. Sfidare la morte, sfiorare la morte,  portare la morte in sé – irrimediabilmente. È questo che Krakauer racconta, trafiggendoti con le sue considerazioni. Non fornisce risposte, perché risposte non esistono. Domande, dubbi, inquietudini: questo è ciò che resta. Un testo inquietante, che è difficile lasciare. Appena terminato, l’ho subito ricominciato: dovevo tornare su certi concetti, riappropriami di alcune riflessioni, sottolineare, annotare, meditare. Mi sono sentita vicina a quest’uomo, una sorta di affinità elattiva - chi l’avrebbe detto? E pensare che non doveva essere un libro per me…

domenica 22 aprile 2012

Lovoleto nella tormenta

Le illusioni hanno vita breve, svaniscono nel nulla come palloncini trasportati dal vento. Il vento, appunto. Da spostare le gambe. Ma sarebbe troppo facile attribuire alla bora il triste esito di una gara tanto sospirata. Ormai è storia, con Lovoleto ho un rapporto speciale – forse troppo speciale. Sì, perché succede che finisca per caricare di eccessive aspettative un evento che dovrebbe essere ponderato come tutti i suoi simili: prendendo cioè in considerazione ogni fattore che abbia caratterizzato la preparazione fino a quel giorno. Quindi, se le condizioni fisiche, mentali, ambientali non hanno prodotto allenamenti brillanti, inutile aspettarsi miracoli. Peccato che la mente a volte abbia voglia di crogiolarsi in belle speranze, alimentate da sparuti episodi di sorprendente efficienza. Insomma, dopo una mezza da non buttare e un diecimila conquistato con i denti, credevo di trovarmi in una fase di crescita. Invece, a crescere sono stati solo i minuti accumulati, in una gara che ho portato a termine solo grazie all’incoraggiamento della buon anima che mi ha seguito in bici. Senso di pesantezza sin dai primi chilometri, quando ancora pensavo di poter restare agganciata alle ragazze poco più avanti. Le gambe non girano come vorrei, sono già impiccata e siamo appena a metà. Il peggio, inoltre, deve ancora arrivare: oltre quella curva il vento si accanirà contro di me, e io soccomberò come una foglia in autunno. Mi sento già sconfitta, mentalità perdente, senza speranze. Avessi solo la metà della grinta di chi mi precede… Ma sono qualità che non si costruiscono, o ci sono o non ci sono. E io non ci sono. Non oggi, non qui. Mi sembra di retrocedere anziché avanzare, un passo avanti e due indietro, ogni accenno di reazione viene spazzato via dall’ennesima folata. E lo speaker, al mio arrivo penoso, osa persino accennare alle mie numerose presenze nell’albo d’oro - come dire: ecco l’ex atleta sul viale del tramonto.

Ora bisognerebbe analizzare le ragioni di un simile sfacelo: errori nella programmazione, acciacchi condizionanti, preoccupazioni incidenti? Le ipotesi si sprecano, tanti i fattori da valutare ma nessuna certezza sulla quale intervenire. E adesso? Adesso sarebbe già buona cosa riuscire ad evitare previsioni catastrofiche. Il 2012 è iniziato nel peggiore dei modi, si dovrebbe ipotizzare che possa solo migliorare, no? Difficile però diradare i nuvoloni che si accumulano all’orizzonte di un anno dal quale ci si attendeva tanto. Inutile, non posso permettermi rosee prospettive, nemmeno nelle rarissime giornate in cui il vento sembra a favore. Azzerare tutto e ricominciare da capo. Ancora una volta. Finché avrò energie per farlo.


PS: Naturalmente questi crucci sono inezie rispetto a quanto accaduto sul campo. Nerio però lo sa bene, noi parliamo solo di corsa: e non aspettiamo altro che tornare a farlo insieme a lui.

domenica 1 aprile 2012

S. Agata col botto

Un evento straordinario. Non era mai successo, e ancora mi chiedo come sia potuto accadere. Sul rettilineo finale mi sentivo ormai al sicuro – sciocco errore di valutazione, frequente per chi non si guarda mai alle spalle. Invece, ecco una fantastica Maggie che sfreccia agguerrita: giusto che sia così, la ragazza ha ormai preso il volo e presto scomparirà dal mio orizzonte. Sono più morta che viva, ma riesco ad emettere un flebile “Brava Maggie”. Dunque, ho ancora una minima riserva di fiato, devo proprio stare a guardare? Aspetta che ci provo. L’arco è lì, a uno sputo, giusto lo spazio sufficiente per una lotta all’ultima goccia di sudore. Uno scatto d’orgoglio, e riaggancio la quinta posizione che avevo appena perso. Il pubblico incita, sono tre i nomi che avverto: c’è quindi un’ulteriore minaccia in avanzamento. Spingere alla morte, nessuna tregua è ammessa, non ora. Resisti, resisti, resisti. È fatta! Mai traguardo è stato più combattuto, l’arrivo in volata è un’emozione che non avevo ancora provato. Maggie mi scuserà ma, si sa, la gara… Lei, poi, chissà quante soddisfazioni potrà ancora togliersi: questa vecchietta, invece, deve giocarsi al meglio le poche cartucce che ormai le sono rimaste. Non che abbia perso mordente, sia chiaro, ma è inevitabile fare i conti con margini sempre più ristretti. L’esperienza di oggi, però, è di quelle che lasciano il segno, e per questo devo ringraziare chi ha fatto scattare in me una forza che non credevo mi appartenesse: devo fare mia questa reazione, e conservare in uno scrigno le sue belle parole del dopo gara.

Gara sulla quale non avrei giocato un centesimo e che, tutto considerato, privata di questo evento (personalmente, storico), potrebbe essere archiviata senza lasciare traccia. Perché correre alle cinque di pomeriggio è già di per sé un atto di violenza. È vero, sì, che questa è l’ora in cui solitamente mi alleno, quindi il mio metabolismo dovrebbe essere ben rodato, ma un conto è svolgere un compito quotidiano, altra storia è affrontare una competizione: un’intera giornata in cui non puoi né fare né pensare ad altro. Con l’aggravante di un raffreddore e martello in testa da due giorni. Devo proprio esserci? Certo che sì! Uff, non se ne può più di queste gare, tutti gli anni le stesse. Ma che lo dico a fare? Il menu non offre altro, e migrare verso altri lidi è un sogno irrealizzabile. Perciò, eccoci qui, anche oggi. Entusiasmo zero, forma fisica più o meno uguale, perciò vale sempre la medesima regola: dare il massimo, qualunque esso sia. Brillante nei primi cinque km, fase calante nella seconda metà. Solita gestione da principiante. E imprevedibile chiusura col botto - come si è già detto.

È arrivata la primavera, speriamo di uscire definitivamente dal letargo.

domenica 25 marzo 2012

Eclissi


Anche le parole si ingolfano. Non trovano una via d’uscita. Il flusso di pensieri, anziché prendere forma di espressione, si riavvolge su se stesso. Perché nel buio è impossibile dare una consistenza alle idee – idee che tornano a martellare, sempre loro, sempre le stesse. Da quanto tempo? Troppo. Troppo per essere tollerato, per concedere spazio ad un respiro, per far credere che finirà. E non mi si venga a dire che bisogna essere positivi, che basta la salute, che c’è chi sta peggio: potrei reagire violentemente. Sarà anche vero che il mondo pullula di disgrazie, ma sono troppo distanti da me per potermici confrontare direttamente. E i discorsi che mi circondano mi rendono sempre più aliena da tutto e da tutti. A forza di non posso la gabbia si restringe – e le energie si affievoliscono.

Sarà per questo che non sono riuscita a sopravvivere all’inverno?  Sarà un caso che sia crollata alla prima nevicata? Febbre a trentanove, influenza con tanto di svenimento: non mi accadeva da almeno quindici anni. Una settimana in catalessi quindi, per favorire la riabilitazione, altra neve. Uscire a correre potrebbe essere la soluzione definitiva: suicidio assicurato. Non mi sento però ancora pronta. Mi sbatto allora sulla cyclette, e mi industrio a tagliare e cucire qua e là per concedermi qualche ingresso in palestra: il tapis roulant è un inferno, ma è l’ultima spiaggia prima della rinuncia definitiva. Sì, perché in testa ho una maratona. Bella idea davvero! Preparare una maratona in inverno, ma come mi è venuto in mente? Non mi sono bastati i tentativi precedenti, tutti falliti miseramente? Sono proprio irrecuperabile… E la neve non da tregua. Riesco a rullare come un criceto fino a due ore, almeno fosse l’ultima volta. Basterebbero qualche grado in più e strade accessibili, giusto per riprendere confidenza con la corsa – quella vera. E’ come ricominciare tutto da capo, come uscire dal letargo, come (effettivamente è) rimettersi in moto dopo la convalescenza. E pretendere che la macchina possa essere perfettamente allineata alla tabella di marcia. La carriola invece scricchiola: i primi giorni si limita ad annaspare, poi ti dice che vuole fermarsi. Ancora!? Ebbene sì, il muscolo duole, decisamente troppo per andare avanti. Trenta chilometri? Ma non scherziamo! È già tanto riuscire a camminare. Ciao ciao maratona… Ciao ciao anche alla prima gara dell’anno. Beh, non che perdere Castenaso sia una gran disdetta. Ma, si sa, la società, il campionato, il trofeo… la solita barba, è vero, ma dire di no in fondo dispiace sempre.  Mani miracolose sostengono che la gamba sia in ordine (o quasi): per lo meno, idonea ad affrontare una prova di 10 km. Proviamoci pure. E realizziamo il peggior tempo che la nostra memoria abbia registrato: dopo un mese atrofizzato, aver tagliato il traguardo è già un miracolo. Rimettersi in sesto è un’ardua impresa. Acciacchi in ogni dove, proprio come un principiante della corsa. Due settimane per poter affrontare una mezza. Cosa aspettarsi? Naturalmente, sempre troppo. Infatti, un minuto in più dell’anno precedente ha il sapore di una sconfitta devastante. Tutto il mondo avanza e io resto indietro. Certo, lo so che non è così, ma questa è la percezione – e probabilmente lo sarebbe anche se avessi realizzato un risultato migliore. C’è un baco nel sistema, ormai è appurato. Quindi, perché non prendere un’altra bastonata. Ma sì, andiamo a correre anche a Imola, hai visto mai? Hai visto mai che, con questo ridicolo allenamento e questa penosa condizione di forma, tu non riesca a peggiorare ulteriormente?…

Colpo incassato. Passa oltre. Cerca di concentrarti sul qui e ora, perché non è possibile che in pochi mesi si sia sgonfiato tutto. Con la mente oppressa e il morale a terra la fatica è amplificata, ma non è una novità: è solo l’ennesima prova, una tra le tante. E tu non vuoi dargliela vinta, vero?








domenica 4 marzo 2012

domenica 8 gennaio 2012

Meglio stare a letto?

Contare i tornanti non è una buona idea, se si sa quanti sono quelli che portano alla vetta. Ci mancava solo la tosse, un attacco e sono ferma. Perché l’hai fatto, accidenti a te. Lo sai che se ti blocchi una volta rovini tutto, poi magari lo farai anche una seconda e l’allenamento va a rotoli. Certo che lo so, ma quando connetto è troppo tardi. Colpa di quella frazione di secondo in cui il cervello va in apnea e non comunica più con le gambe: il black out di un momento, per il quale mi maledico ogni volta e ogni volta mi ripeto che non dovrà più succedere. Fino alla successiva. Oggi, però, ho una misera giustificazione: la tosse non è una scusa, né uno scherzo. E quel martello che mi picchiava in testa, stamattina, avrebbe dovuto dissuadermi dall’affrontare percorsi collinari. Tesoro, come potrai sopportarmi oggi, se non corro? È vero che tra il riposo assoluto e 18 chilometri spaccacuore ci sarebbero infinite variazioni, ma perché stravolgere il programma per un banale raffreddore? Fatico a respirare e rantolo un po’, robetta. E sprecare una così bella giornata sarebbe un delitto. Cieli così limpidi, in questa stagione, sono una rarità. I colli si mostrano in tutto il loro splendore: denudati dalla vegetazione che cela anfratti segreti, si aprono in panorami nudi e fieri della loro ricchezza. Io ne colgo solo qualche spicchio, si sa che quando corro non ci sono per nessuno. Entro comunque nell’atmosfera – o forse è l’atmosfera che entra in me: deve essere questa la ragione che mi ha spinto fino a qui, alla faccia del mio stato di salute.
I tornanti sono finiti, non li ho contati. Ora posso prendere fiato, ma il peggio deve ancora venire. Jader, in bici, mi raggiunge non appena mi immetto su via dei Colli – evidentemente sto andando come un bradipo, visto che l’ultima volta mi prese al Cavaioni. Figurati, sono io che mi sono buttato in discesa come mai prima. Sarà. Certo è che lo strappo in curva, in prossimità di quell’incredibile villa bianca, mi stronca definitivamente. Dai, alla fine di tutto sarai guarita. Sempre che ci arrivi viva, alla fine. Forza, il percorso spiana e le gambe riprendono a girare. Il muro dopo il parco è poco più di una sfida mentale: il segreto è affrontarlo a testa bassa, senza alzare lo sguardo. Se controlli quando manca sei fregata, lo sconforto ti blocca. Se invece procedi passettino passettino, ti ritrovi in cima quasi senza accorgertene – quasi, ho detto. Anche questa è fatta, e i tre podisti che si intravedono là davanti sono una bella sfida. Che ci posso fare? È una molla che scatta anche in allenamento, e quando capita è un bell’aiuto, perché magicamente scompare la fatica. Oddio, il rischio è di ritrovarsi più avanti svuotati di energie, ma perché negarsi una piccola soddisfazione? Siamo sul tratto per me più critico: non è infinito come quello iniziale a tornanti, né ripido come quello del parco Cavaioni, ma è l’ultimo prima della discesona ed è un gran bastardo, perché ti frega nascondendosi dietro ad una curva. Quello dei tre che prova ad attaccarsi si arrende disperato, urlando come in preda ad un terribile dolore. Mah… Io spero di riprendermi, ora che potrei semplicemente lasciarmi andare, ma anziché sciogliermi mi irrigidisco ulteriormente. Sarà l’idea che ormai è finita, o la prospettiva dei diversi chilometri che ancora mancano, di fatto mi sembra di non poterne più. Avverto una fastidiosa tensione a braccia e spalle, le scuoto ma non passa, sensazione orrenda. Il viavai di podisti mi distrae, altri da raggiungere davanti a me: fortunatamente la zona oggi è molto trafficata. Ritrovo il giusto slancio per affrontare il finale. Via Saragozza tira un po’, ma dopo si vola. Certo, qui occorre fare attenzione alle auto – e stavolta anche ai tifosi che si approssimano allo stadio (a quest’ora?!), ma la Certosa è lì: sei arrivata.

17,1 km, anziché i 18 programmati. Proseguire oltre il parcheggio? E chi ne ha voglia? Uff, così non va bene, e non va bene nemmeno questa media. Sei malata, oggi dovevi stare a letto. Già, forse sarebbe stato meglio. O forse no.

domenica 1 gennaio 2012

Di anno in anno...

Difficile stabilire se il 2011 sia stato migliore o peggiore del 2010. Se analizzo solo la mia principale passione, dovrei considerare  quello appena terminato un anno decisamente significativo: ho conquistato diversi podi, di cui uno di carattere “internazionale” (per quanto passato del tutto inosservato); ho realizzato tempi che non sfioravo da secoli; ho quindi acquistato fiducia e alimentato nuove motivazioni.
Questi piccoli successi hanno quasi del miracoloso, se si osserva il contesto in cui si sono compiuti. Ho lasciato scadere la ricetta medica per un antidepressivo, non volendo innestare un meccanismo di dipendenza alquanto rischioso. Ma sedare le notti insonni solo con le proprie forze è risultato tutt’altro che facile, non intravedendo alcuna luce in fondo al tunnel: alle cause conosciute era impossibile porre rimedio, e gli eventi senza spiegazione non potevano che approfondire il baratro. Perché di fronte a fattori ambientali, o quantomeno tangibili, puoi cercare di costruirti una sorta di difesa: puoi, se non altro, imbastirvi attorno una rete di ragionamenti; puoi elaborare qualche strategia di sopravvivenza; puoi, insomma, confidare in una soluzione – forse lontana, ma non impossibile. Di fronte all’opportunismo, all’indifferenza e alla meschinità, invece, sei completamente indifeso. Specie quando non te l’aspetti, quando il terreno sotto ai piedi ti manca all’improvviso, proprio quando cominciavi a credere che la base potesse acquistare solidità. Dicono che, toccato il fondo, si possa solo risalire. Stringi i denti, sei abituata alle prove di resistenza, no? Ecco, anche con l’acqua alla gola, a cosa vado a pensare? Quasi mi sento in colpa, nello sfascio totale mi preoccupo di riuscire a correre: come rifiutassi di soffermarmi sui problemi reali. Ma, del resto, se mi fermo cosa risolvo? Un’incazzatura in più, e nulla di concluso. E allora corri, e cerca di farlo meglio che puoi. Non sarà quel paio d’ore in cui stacchi il cervello da casa, lavoro e spese a peggiorare la situazione. Ricordi? Si può solo risalire…
Può succedere che una porta si apra, un piccolo spiraglio, ma meglio di niente. Può accadere che qualcuno ti sorrida, nonostante il tuo brutto muso. Può realizzarsi un sogno che credevi impensabile. C’è qualcosa da ricordare, in questo 2011. Tutto è ancora molto precario, è vero, ma la salita è un po’ meno affannosa.
A proposito di salite, ovviamente ho iniziato il nuovo anno correndo. Non che mi interessasse celebrare l’evento, trattandosi di un qualsiasi giorno festivo – utile, in quanto tale, a dimenticare la sveglia e allenarmi nelle ore che preferisco. E cosa potevo scegliere se non il Giro dei Colli? Appuntamento fisso da diverse settimane: mi sto ubriacando di saliscendi, speriamo producano gli effetti sperati. “Podisticamente” parlando, obiettivi ambiziosi per questo 2012 (devo averlo già detto…). Di altri versanti preferisco tacere: meglio mettere a tacere il mio pessimismo cosmico e non azzardare visioni future – tanto, a breve finirà il mondo, no?

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