domenica 13 ottobre 2019

01:59:40


Ho accolto la notizia con scetticismo, per non dire indifferenza. Un altro circo come quello allestito due anni fa a Monza, giusto per aumentare le vendite di quelle fantascientifiche scarpe – che fanno credere anche all’ultimo dei tapascioni di poter battere tutti i record. Poi comincio a dare un’occhiata a qualcuno dei video che promossi da Ineos. Un’operazione di marketing di tutto rispetto, al fine di rendere l’evento un’esperienza a cui è impossibile sottrarsi. Al centro di tutto c’è l’uomo, prima che il campione: più che i primati, le vittorie, le prestazioni straordinarie, ne viene mostrata l’umiltà, la dedizione, la vita spartana. Una rosa nel deserto. Concentrarsi su un obiettivo e vivere in funzione di esso, senza fronzoli e senza distrazioni, lavorando sulle proprie capacità e fondando su di esse una sicurezza inossidabile.

Sveglia alle 7.30, per essere in perfetto orario davanti alla TV. Non so cosa aspettarmi, non riesco a farmi un’idea circa il risultato, né so cosa mi soddisferebbe: un fallimento, per poter credere che il futuro sia ancora là da venire e tanta strada sia ancora da percorrere, o un successo, per dare una scossa all’intero panorama atletico e far sognare un po’ noi piccoli esseri. Di sicuro io, che sono nata nell’anno del primo uomo sulla Luna, ora sto per assistere a qualcosa di simile.

Le immagini che precedono la partenza assomigliano a quelle di qualsiasi grande maratona: un manipolo di africani che scalpitano sulla linea di partenza. Lo sparo apre le danze: con una coreografia perfetta prende forma lo schieramento che scorta il predestinato verso l’impresa. Sette uomini in posizioni strategiche scandiscono e riparano un ritmo che sfiora l’impossibile. Tutto all’interno di una corsia ben tracciata, seguendo un raggio verde proiettato dall’auto che determina l’andatura. Terminato un giro, con sapienti pennellate sfumano le prime lepri e si innesta il secondo gruppo: la stessa geometria, la medesima figura costruita ad arte. Sì, quello che stanno realizzando questi 41 uomini è un’opera d’arte. Qui non viene sublimata solo la prestanza fisica: quello che è stato pianificato in mesi di studio è un vero inno alla bellezza del gesto atletico. Sono incantata dalla perfezione con cui questi corpi si muovono: e non si tratta solo  della tensione dei muscoli o dell’equilibrio dell’incedere, elementi che si possono ammirare in qualsiasi manifestazione di alto livello. Ciò che rende unico questo spettacolo è la costruzione armonica dei gesti. In una sincronia impeccabile, persino le espressioni sembrano rivelare un ruolo ben preciso: più tesi i volti degli atleti in posizione laterale, più rilassato quello del capitano che precede Kipchoge. Lui, appunto, il fulcro di tutta l’operazione. Non lascia trasparire nulla. Cosa starà pensando? Che cosa passa nella testa di un uomo che sta correndo verso la storia? Impassibile, quasi  come non respirasse neppure. È umano costui? Poi lo vedi sbuffare e capisci che, forse, un po’ di fatica la stia provando. Però, nell’ultimo giro, quando ormai il miracolo ha preso forma, lo vedi attento alle inquadrature: si accorge di essere inquadrato e sorride. Dico: dopo quasi 40 chilometri ad un ritmo forsennato, quest’uomo riesce a sorridere! E il sorriso si allarga a mano a mano che si avvicina al traguardo. Una gioia serena, sicura, intensa. Di chi sa quanto vale e non ha bisogno di ostentarlo. Alza le braccia e si batte il petto verso la linea di un nuovo mondo. Il raggio verde si è spento già da un chilometro, gli angeli custodi sono arretrati: ormai non ha più bisogno di nulla, ormai ha tutto.

Tutto ciò che c’era di costruito, artificioso, commerciale dietro a questo evento, cade in secondo piano. Io ho visto solo uno spettacolo di ineguagliabile bellezza, il capolavoro di un uomo straordinario che ha saputo coinvolgere ed emozionare. Fino alle lacrime.

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