Erano sempre
pronti in cantina, recuperarli era ogni volta un’emozione. I doposcì. La
versione povera di quelli costosissimi, ovviamente, ma che importava? Grandi,
morbidi, caldi: indispensabili per scorrazzare nei campi e sulle strade innevate.
Perché mica c’era bisogno di andare in montagna per trovarsi sommersi dalla
neve, a quei tempi era normale che l’inverno si colorasse di bianco anche nella
“bassa”. Qualche volta mancava la corrente, e ci si attrezzava con le stufette
a gas, senza invocare allarmi o emergenze.
Mi piaceva la neve, come piace a
tutti i bambini. Raggiungere la scuola, bardata come Davy Crockett, aveva qualcosa di eroico: scarpinavo
per quasi due chilometri, con i miei piedoni imbottiti, per unirmi agli altri
piccoli eschimesi che riempivano le aule. Nessuno pensava che le lezioni
potessero interrompersi, nessuno lo pretendeva. La via del ritorno risultava un
po’ più lunga, ma solo in termini di tempo: impossibile resistere alla
tentazione di lanciare una pallata a chi ti camminava davanti, o rispondere a chi
ti aveva colpito alle spalle. Così arrivavo a casa già fradicia, ma a che pro
asciugarsi? Là fuori c’era tutto un mondo ad aspettarmi: affondare nella neve,
sdraiarsi sulla neve, mangiare la neve. La fortuna di avere la campagna sotto
casa: un mare candido, infinito, in cui tuffarsi senza limiti. Per poi
ritrovarmi febbricitante di lì a breve, e subito all'ospedale. Ormai lo sapevo:
arrivava il dottore, auscultava il mio torace, e sentenziava. Questa bambina dovrebbe restare sotto una
campana di vetro. Pochi anticorpi, dicevano. Nessun rimedio, se non
aspettare: con lo sviluppo si risolverà. Così avevo familiarizzato con medici e
infermieri, un po’ meno con le suore, che ogni mattina si mettevano ad urlare
come forsennate le loro preghiere. Quanto tempo ho perso in quelle stanze?
Difficile quantificarlo, così come è difficile dare un ordine ai ricordi, che
pure sono ancora vivi: la flebo attaccata al braccio, la disposizione dei
letti, i compagni di sventura; la busta di stoffa con le posate portate da
casa, i biscotti pregiati del bambino grassoccio, le iniezioni indolori
dell’infermiere Gianni. E poi, una volta dimessa, ricominciare, tutto da capo.
Passare dagli antibiotici ai ricostituenti: lo sciroppo dolcissimo, che l’avresti
scolato tutto in un sorso, o le fialette scure da inghiottire tappandosi il
naso, tanto erano disgustose - un sapore che ho riconosciuto da adulta,
assumendo il ginseng puro (quello vero, nulla a che vedere con la bevanda tutta
zucchero ora tanto di moda, che del ginseng contiene a malapena l’odore). Le
energie ritrovate le sfogavo sui miei bambolotti, poveri pazienti che infilzavo
con terribili siringhe, per esorcizzare il trauma dei tanti forotti subiti. Il
rientro a scuola, giusto un po’ frastornato, ché tanto alle elementari è
difficile rimanere indietro. Per quanto un passo indietro io dovevo sempre
restarci: non correre fuori al freddo, non correre se no sudi, non correre che
sei ancora debole. Che abbia avuto un senso tutto ciò? Di certo, i vari
luminari avevano visto bene: superata l’infanzia, avrei superato anche l’incubo
delle broncopolmoniti. E, da adolescente che si rispetti, cominciai ad andare
in giro indossando il minimo indispensabile, nonostante gli inverni non
avessero allentato le loro tenaglie. Maglie leggere sulla pelle nuda,
cappottini strizzati più per bellezza che per protezione, un paio di guanti e
via, ad aspettare l’autobus che ci portava a ballare. Si facevano i turni alla
fermata: una fuori in vedetta, le altre dentro al portone del palazzo
antistante, per patire un po’ meno. Anche nel gennaio del 1985, quando i cumuli
di neve superavano le nostre altezze. Avevo appena festeggiato il mio
compleanno, tante cose stavano cambiando. Nuova scuola, in città, nuove
amicizie e nuovi ritmi. Gli orizzonti si ampliavano e io mi restringevo.
Teen-ager ribelle a momenti, secchiona introversa molto più spesso. Mai
contenta, mai soddisfatta, mai sicura. In conflitto col mondo e con me stessa. Perdersi,
nascondersi, scappare. Correre. È così che cominciai. Per ossigenarmi, per
ritrovarmi, per uscire dal guscio senza perdere la corazza. Cominciai e nessun
inverno riuscì a fermarmi. Nemmeno quando, con l’avanzare dell’età, il freddo
divenne un incubo. Incubo sì, ma non così terribile come smettere di correre.
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