martedì 6 marzo 2018

Se un giorno d'inverno...


Erano sempre pronti in cantina, recuperarli era ogni volta un’emozione. I doposcì. La versione povera di quelli costosissimi, ovviamente, ma che importava? Grandi, morbidi, caldi: indispensabili per scorrazzare nei campi e sulle strade innevate. Perché mica c’era bisogno di andare in montagna per trovarsi sommersi dalla neve, a quei tempi era normale che l’inverno si colorasse di bianco anche nella “bassa”. Qualche volta mancava la corrente, e ci si attrezzava con le stufette a gas, senza invocare allarmi o emergenze. 

Mi piaceva la neve, come piace a tutti i bambini. Raggiungere la scuola, bardata come Davy Crockett, aveva qualcosa di eroico: scarpinavo per quasi due chilometri, con i miei piedoni imbottiti, per unirmi agli altri piccoli eschimesi che riempivano le aule. Nessuno pensava che le lezioni potessero interrompersi, nessuno lo pretendeva. La via del ritorno risultava un po’ più lunga, ma solo in termini di tempo: impossibile resistere alla tentazione di lanciare una pallata a chi ti camminava davanti, o rispondere a chi ti aveva colpito alle spalle. Così arrivavo a casa già fradicia, ma a che pro asciugarsi? Là fuori c’era tutto un mondo ad aspettarmi: affondare nella neve, sdraiarsi sulla neve, mangiare la neve. La fortuna di avere la campagna sotto casa: un mare candido, infinito, in cui tuffarsi senza limiti. Per poi ritrovarmi febbricitante di lì a breve, e subito all'ospedale. Ormai lo sapevo: arrivava il dottore, auscultava il mio torace, e sentenziava. Questa bambina dovrebbe restare sotto una campana di vetro. Pochi anticorpi, dicevano. Nessun rimedio, se non aspettare: con lo sviluppo si risolverà. Così avevo familiarizzato con medici e infermieri, un po’ meno con le suore, che ogni mattina si mettevano ad urlare come forsennate le loro preghiere. Quanto tempo ho perso in quelle stanze? Difficile quantificarlo, così come è difficile dare un ordine ai ricordi, che pure sono ancora vivi: la flebo attaccata al braccio, la disposizione dei letti, i compagni di sventura; la busta di stoffa con le posate portate da casa, i biscotti pregiati del bambino grassoccio, le iniezioni indolori dell’infermiere Gianni. E poi, una volta dimessa, ricominciare, tutto da capo. Passare dagli antibiotici ai ricostituenti: lo sciroppo dolcissimo, che l’avresti scolato tutto in un sorso, o le fialette scure da inghiottire tappandosi il naso, tanto erano disgustose - un sapore che ho riconosciuto da adulta, assumendo il ginseng puro (quello vero, nulla a che vedere con la bevanda tutta zucchero ora tanto di moda, che del ginseng contiene a malapena l’odore). Le energie ritrovate le sfogavo sui miei bambolotti, poveri pazienti che infilzavo con terribili siringhe, per esorcizzare il trauma dei tanti forotti subiti. Il rientro a scuola, giusto un po’ frastornato, ché tanto alle elementari è difficile rimanere indietro. Per quanto un passo indietro io dovevo sempre restarci: non correre fuori al freddo, non correre se no sudi, non correre che sei ancora debole. Che abbia avuto un senso tutto ciò? Di certo, i vari luminari avevano visto bene: superata l’infanzia, avrei superato anche l’incubo delle broncopolmoniti. E, da adolescente che si rispetti, cominciai ad andare in giro indossando il minimo indispensabile, nonostante gli inverni non avessero allentato le loro tenaglie. Maglie leggere sulla pelle nuda, cappottini strizzati più per bellezza che per protezione, un paio di guanti e via, ad aspettare l’autobus che ci portava a ballare. Si facevano i turni alla fermata: una fuori in vedetta, le altre dentro al portone del palazzo antistante, per patire un po’ meno. Anche nel gennaio del 1985, quando i cumuli di neve superavano le nostre altezze. Avevo appena festeggiato il mio compleanno, tante cose stavano cambiando. Nuova scuola, in città, nuove amicizie e nuovi ritmi. Gli orizzonti si ampliavano e io mi restringevo. Teen-ager ribelle a momenti, secchiona introversa molto più spesso. Mai contenta, mai soddisfatta, mai sicura. In conflitto col mondo e con me stessa. Perdersi, nascondersi, scappare. Correre. È così che cominciai. Per ossigenarmi, per ritrovarmi, per uscire dal guscio senza perdere la corazza. Cominciai e nessun inverno riuscì a fermarmi. Nemmeno quando, con l’avanzare dell’età, il freddo divenne un incubo. Incubo sì, ma non così terribile come smettere di correre.

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