Chissà: se non avessi spinto contro il vento sin dall’inizio,
se non mi fossi preoccupata da subito della media, se avessi provato ad
accodarmi ad un gruppo…
Chissà perché tante maratone si chiudono con una scia di chissà. Qui c’è ben poco da indagare: un
alito di vento è sufficiente a condizionare un mio qualsiasi allenamento, figuriamoci
come possa ridurmi la Bora. Trieste mi ha dato il benvenuto mostrandomi i suoi
gioielli il sabato, per poi schiaffeggiarmi la domenica. Ma io non ho abbassato
la testa: non avrai il mio scalpo, porterò la mia pellaccia in quella magnifica
piazza anche strisciando. Non posso deludere chi mi ha preparata a puntino per
questa occasione, né chi aspetta per ore al traguardo: e nemmeno posso deludere
me stessa con un ritiro che non saprei
perdonarmi. Le condizioni più avverse ci sono tutte: raffiche che quasi
mi gettano a terra, una gamba da buttare via, una notte insonne in una stanza d’albergo
troppo calda e troppo rumorosa. Questa è la sfida: resettare tutto sulla linea
di partenza, concentrandosi su quelle parole famose “Io sono calma e farò una
gran gara” .
Del resto, il clima d’attesa è decisamente tranquillo, si
chiacchiera in bella compagnia in mezzo al verde così si allevia un po’ la mia
tensione. Parto allegra, forse troppo. Cerco di controllare il ritmo, so che la
scorrevolezza della prima parte può fregare. La Bora comincia a frustarmi, ma
io provo a non farmi condizionare: è solo una ventata, poi si calma… Invece
sono io a calmarmi, nel senso che cedo il passo rallentando rovinosamente. E non
conta considerare che è iniziata la salita: ho lottato per metà gara ed ho
esaurito le forze. Ora si tratta di sopravvivere. Tanto più che da adesso in
poi ci si dovrà destreggiare tra il popolo della mezza maratona: se fossi stata
in spinta, a lottare per un tempo o una posizione, questa ressa mi avrebbe
sicuramente irritata, specie in prossimità dei ristori. In queste condizioni,
invece, mi è quasi di aiuto: in fondo, non faccio altro che sorpassare gente, e
mi godo persino qualche apprezzamento. Meno male che c’è la discesa, già tremo
all’idea degli ultimi sette chilometri in piano. Solo sette, che sarà mai? Basta
non fare la fine delle transenne, capovolte sull’asfalto. Il conto alla
rovescia è iniziato, una manciata di minuti ancora. Quando all’improvviso
scorgo uno sbarramento sul percorso: una fila di carrozzine che occupa tutta la
strada, proprio in dirittura d’arrivo. Non ci posso credere, neanche un varco
per passare e poter accennare uno sprint fino al traguardo. Riesco a svicolarmi
inveendo, ma ormai la pedana è lì, e non posso nemmeno godermela.
Sono uno straccio, completamente persa. Nessuno a
raccogliere quel che resta di me, non so dove andare. Raggiungo le corriere con
le sacche personali, ma vedo solo quelle della mezza maratona: sto per cedere
ad una crisi di pianto, quando scorgo il mio pullman. Ritirato lo mio zainetto,
mi siedo sul marciapiede e do finalmente un segno di vita.