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domenica 26 settembre 2021

Distanze (Day 9)

 

L’aria è frizzante, di prima mattina. Mi copro però più del necessario: non ho ancora preso confidenza con le nuove temperature, né con la reazione del mio corpo all’anomala deambulazione. Infatti, mi è sufficiente percorrere il breve tragitto tra l’uscio e il sentiero di accesso per sentirmi oltremodo accaldata. Un’altra delle tante complicazioni di questa vita da inferma.

Non sono ancora le otto quando entro in pronto soccorso, e non so bene come muovermi. Contatto così il dottore e in men che non si dica mi trovo su una sedia a rotelle, assistita da un robusto infermiere che mi scorta fino all’ambulatorio. Finalmente viene liberato il mio piedone. Dice che la ferita è bellissima (ovviamente, tutto è relativo), che potrebbero essere necessarie meno delle quattro settimane preventivate, e che tra una decina di giorni mi toglierà i punti. Giungono quindi tre sorridenti assistenti per inscatolare nuovamente piede e gamba con una fasciatura veramente elegante.

Dovrei essere tranquilla, ora. Ma le lunghe ore tra queste mura, che non riesco ancora a sentire mie, e le difficoltà nello svolgere qualsiasi piccolo gesto quotidiano non fanno che alimentare il misero stato d’animo. Fortunatamente, uno spicchio di sole illumina il mio grigiore: la visita di un’amica, l’unica che abbia trovato il tempo e la voglia di interessarsi a me – sia in questa, che nelle precedenti simili vicissitudini. Ed io, che continuo a sentirmi irrimediabilmente orso, mi chiedo se la mia riconoscenza riesca ad esprimersi adeguatamente. Forse sì, o forse semplicemente sono io che insisto a martellarmi con infinite paranoie, quando sarebbe molto più salutare affrontare la vita e il mondo con un pizzico di leggerezza. Meglio buttarsi sotto la doccia e lasciare che i pensieri scivolino sotto il getto dell’acqua.

È domenica. Anche oggi Jader è uscito presto, mentre io decido di indugiare ancora a letto. Se non altro, riesco a dormire più del solito. Ho calcolato che tra il momento in cui mi alzo e quello in cui raggiungo il piano di sotto, con un minimo passaggio in bagno, trascorre circa mezz’ora. Cerco quindi di allestire qualcosa che assomigli a una colazione, nonostante la fatica di preparare anche solo una bevanda calda faccia venire meno anche l’appetito – scarso in condizioni normali, figurarsi adesso. Che cosa bisognerebbe mangiare quando ci si trova in uno stato di semi immobilità, con ossa e tendini mortificati e gestualità del tutto alterata? Vorrei tanto saperlo: conoscere cosa potrebbe giovarmi e cosa invece sarebbe meglio evitare. Ho provato a documentarmi, ma è sempre complicato destreggiarsi tra il proliferare d’informazioni, spesso contrastanti. L’esperta alla quale ho chiesto aiuto si è guardata bene dal rispondermi (avrei preferito un semplice e diretto “non ho tempo”), così mi sforzo di buttare giù qualcosa, spinta essenzialmente dalla consapevolezza che, nonostante l’inattività, nutrirsi resta una necessità fondamentale.


Il clima, oggi, è la perfetta espressione del mio umore. O forse è il mio umore che risente della pessima stagione. Non trovo pace, qualsiasi posizione risulta scomoda, gambe e schiena gridano vendetta: ho bisogno di muovermi! Quando potrò riprendere anche solo a svolgere qualche esercizio che non coinvolga la gamba? Volevo chiederlo ieri, al dottore, ma mi è passato di mente. Dovrò ricordarlo al prossimo appuntamento. E starmene zitta e buona fino allora. Devi crederci, mi dice un amico. Ogni tanto me lo ripeto, così come stamattina, guardando sul web la maratona di Berlino, mi sono ripromessa che tornerò a correre quella distanza. Radichiamo l’idea, chissà che non generi i suoi frutti.

 

 

 

 

domenica 13 ottobre 2019

01:59:40


Ho accolto la notizia con scetticismo, per non dire indifferenza. Un altro circo come quello allestito due anni fa a Monza, giusto per aumentare le vendite di quelle fantascientifiche scarpe – che fanno credere anche all’ultimo dei tapascioni di poter battere tutti i record. Poi comincio a dare un’occhiata a qualcuno dei video che promossi da Ineos. Un’operazione di marketing di tutto rispetto, al fine di rendere l’evento un’esperienza a cui è impossibile sottrarsi. Al centro di tutto c’è l’uomo, prima che il campione: più che i primati, le vittorie, le prestazioni straordinarie, ne viene mostrata l’umiltà, la dedizione, la vita spartana. Una rosa nel deserto. Concentrarsi su un obiettivo e vivere in funzione di esso, senza fronzoli e senza distrazioni, lavorando sulle proprie capacità e fondando su di esse una sicurezza inossidabile.

Sveglia alle 7.30, per essere in perfetto orario davanti alla TV. Non so cosa aspettarmi, non riesco a farmi un’idea circa il risultato, né so cosa mi soddisferebbe: un fallimento, per poter credere che il futuro sia ancora là da venire e tanta strada sia ancora da percorrere, o un successo, per dare una scossa all’intero panorama atletico e far sognare un po’ noi piccoli esseri. Di sicuro io, che sono nata nell’anno del primo uomo sulla Luna, ora sto per assistere a qualcosa di simile.

Le immagini che precedono la partenza assomigliano a quelle di qualsiasi grande maratona: un manipolo di africani che scalpitano sulla linea di partenza. Lo sparo apre le danze: con una coreografia perfetta prende forma lo schieramento che scorta il predestinato verso l’impresa. Sette uomini in posizioni strategiche scandiscono e riparano un ritmo che sfiora l’impossibile. Tutto all’interno di una corsia ben tracciata, seguendo un raggio verde proiettato dall’auto che determina l’andatura. Terminato un giro, con sapienti pennellate sfumano le prime lepri e si innesta il secondo gruppo: la stessa geometria, la medesima figura costruita ad arte. Sì, quello che stanno realizzando questi 41 uomini è un’opera d’arte. Qui non viene sublimata solo la prestanza fisica: quello che è stato pianificato in mesi di studio è un vero inno alla bellezza del gesto atletico. Sono incantata dalla perfezione con cui questi corpi si muovono: e non si tratta solo  della tensione dei muscoli o dell’equilibrio dell’incedere, elementi che si possono ammirare in qualsiasi manifestazione di alto livello. Ciò che rende unico questo spettacolo è la costruzione armonica dei gesti. In una sincronia impeccabile, persino le espressioni sembrano rivelare un ruolo ben preciso: più tesi i volti degli atleti in posizione laterale, più rilassato quello del capitano che precede Kipchoge. Lui, appunto, il fulcro di tutta l’operazione. Non lascia trasparire nulla. Cosa starà pensando? Che cosa passa nella testa di un uomo che sta correndo verso la storia? Impassibile, quasi  come non respirasse neppure. È umano costui? Poi lo vedi sbuffare e capisci che, forse, un po’ di fatica la stia provando. Però, nell’ultimo giro, quando ormai il miracolo ha preso forma, lo vedi attento alle inquadrature: si accorge di essere inquadrato e sorride. Dico: dopo quasi 40 chilometri ad un ritmo forsennato, quest’uomo riesce a sorridere! E il sorriso si allarga a mano a mano che si avvicina al traguardo. Una gioia serena, sicura, intensa. Di chi sa quanto vale e non ha bisogno di ostentarlo. Alza le braccia e si batte il petto verso la linea di un nuovo mondo. Il raggio verde si è spento già da un chilometro, gli angeli custodi sono arretrati: ormai non ha più bisogno di nulla, ormai ha tutto.

Tutto ciò che c’era di costruito, artificioso, commerciale dietro a questo evento, cade in secondo piano. Io ho visto solo uno spettacolo di ineguagliabile bellezza, il capolavoro di un uomo straordinario che ha saputo coinvolgere ed emozionare. Fino alle lacrime.

sabato 7 novembre 2015

TCS New York City Marathon 2015

Quando il cervello va in vacanza, si possono prendere decisioni azzardate come, per esempio, quella di partecipare alla maratona di New York. È vero che questo è (e sempre sarà) un mio punto debole: è sufficiente una parola, un minimo cenno che riguardi la città, perché si riaccenda in me l’emozione di correre lungo quelle strade. Potete tessermi le lodi di tutte le maratone del mondo, ma fatico a credere che ne esista un’altra paragonabile a questa: per l’intensità del coinvolgimento, per la partecipazione totale e totalizzante, per il senso di grandezza, di enormità, di unicità.

D’accordo, tutto bellissimo, ma prima di buttarsi bisogna valutare attentamente i rischi: se poi si finisce col tuffarsi alla cieca, non ci si deve stupire delle conseguenze.
Non credo al destino, alla sfiga un po’ si, ma di fatto vedo tutto in mano al caso – o al caos. Un caos è stato il mio avvicinamento alla grande maratona, con una preparazione condizionata da mille fattori: primo tra tutti, l’infortunio che mi perseguita da anni. La situazione sembrava sotto controllo finché,  ad un paio di mesi dall’evento, quando si doveva incominciare a fare sul serio, il dolore si risveglia, arzillo più che mai. Dai, sarà questione di un attimo, vedrai che passa subito. Un accidente. Se ne sta lì, l’infame, a ricordarmi che quella gamba non può spingere:  puoi ostinarti a correre, ma non andrai lontano. Me lo ricorda ad ogni passo, costringendomi a fermarmi in continuazione, non riesco a completare decentemente nessun tipo di allenamento. Ma sono testarda, devo fare un lungo, almeno uno oltre i 30km: stringo i denti, arrivo a 32. A passo di bradipo, ma sempre 32 sono. Due giorni per riprendermi, spuntano acciacchi nuovi. Ma si riparte, con convinzione e con sensazioni via via rassicuranti. Proviamo 35? Ci provo. Ma getto la spugna dopo il decimo: un piede indolenzito, non vado avanti. Mancano due settimane.  La domenica prima di partire sono determinata a completare i 20 km della camminata di Calderara, ma cedo al primo giro: ne ho corsi (male) appena 10, vietato illudersi di riuscire a completare una maratona. I giorni successivi il dolore è insopportabile, sono sempre ferma. Come se non bastasse, arriva un bel raffreddore con tanto di tosse. Posso stare a casa? No, non si può. Che almeno sfrutti l’occasione di Podisti.net, vivendo l’esperienza dalla parte della stampa.

New York ci accoglie sotto il diluvio, ma il mattino successivo il clima è spettacolare, come spettacolari sono i colori di Central Park in questo periodo dell’anno. Lo splendore di questo parco non finirà mai di incantarmi. Corro piano, insieme al gruppo; il dolore è sempre lì, imperturbabile. Provo a non ascoltarlo, a questa andatura è abbastanza sopportabile, magari distraendomi smetto di avvertirlo. Tutti a chiedermi quale sia il mio obiettivo, quando io non ho ancora deciso se partire o meno. Venerdì mattina altra corsetta, identiche sensazioni. Stato d’animo anomalo, il mio. Da un lato, il fascino della città non cessa di colpirmi. Dall’altro, non vorrei (e non dovrei) essere qui. Mi sento un ibrido, né turista né atleta. Indifferente a ciò che mi passa sotto gli occhi, noncurante di ciò che mi circonda; disinteressata a ciò che mangio (e a ciò che non mangio), e a quanto riposo (o non riposo). Assente. Sabato è il giorno più lungo, urge scrollarsi di dosso l’apatia e prendere una decisone salda e inossidabile: correrò questa maratona. Devo dare un senso a questo viaggio: lo devo a me stessa e a chi condivide con me dolori e speranze. Del resto, per me New York e la maratona sono sempre stati una cosa sola: non avrei mai conosciuto questa città se non fosse stato per correrla, e non ci sarei mai tornata se non per la stessa ragione. La ragione per cui sono nuovamente qui, dopo sette anni dall’ultima volta. Adesso non sono preparata, pazienza. La determinazione compenserà le carenze fisiche: per la prima volta nella mia vita, dovrò correre con la testa e col cuore, non potendo contare sulle gambe. Sarà una bella sfida.

Temperatura gradevole già alle cinque di mattina. Non ci speravo, non potrei chiedere di più. Provo una strana commozione, devo continuamente ingoiare le lacrime pur senza una precisa ragione. Non è tristezza, solo un misto di emozioni difficili da controllare. Arriva il momento di entrare in griglia, quindi il trasferimento sul ponte: l’inno americano e il cannone. Sto correndo la mia settima maratona di New York (contando anche quella non terminata). I primi chilometri scorrono fluidi, sorrido ad ogni “Go Vale!”. L’incitazione del pubblico amplifica quella che mi rimbomba dentro: un mantra tutto mio, energia pura che mi sospinge ad ogni passo. Dieci chilometri sono andati, ed è già tanto. La gamba vuole avvertirmi che non sta tanto bene, ma io mi concentro sul pubblico e sul mio dialogo interiore. Non guardo mai il Garmin, butto un occhio al cronometro solo ai riferimenti chilometrici (cioè ogni cinque). Quindi, ecco il quindicesimo: sto andando benissimo. Al prossimo saremo quasi a metà, non ci posso credere. Passo alla mezza in stato di grazia, ora mi mangerò il Queensboro Bridge e mi farò trascinare dalla folla lungo la First Avenue. Il passaggio al trentesimo mi illude: vuoi vedere che realizzo un tempo strabiliante? Non avevo tenuto conto che è qui che iniziano i giochi. Le ondulazioni del percorso mi segano le gambe, la mancanza di preparazione fa il resto: comincio a faticare parecchio. Di che ti meravigli? Fino ad una settimana fa non riuscivi a completare un chilometro senza fermarti, ora ne hai percorsi quasi trentacinque ininterrottamente. Il tratto sulla Quinta è devastante, ma il prossimo riferimento sarà quello dei 40km, ancora qualche sospiro e sarà fatta. Ecco il Columbus, si entra in Central Park, l’arrivo è lì, dietro l’angolo. Tra un po’ lo scorgerò, e forse troverò anche la forza di accennare uno sprint fino al traguardo. Sono raggiante, nemmeno le mie prestazioni migliori mi hanno vista così entusiasta. L’ho finita, ed è incredibile. In 3:39:30, ed è un miracolo. Certo, in termini assoluti questo tempo è ridicolo. Ma, nelle mie condizioni, non avrei scommesso né di riuscire a finirla, né di chiuderla sotto le quattro ore. La magia di New York – e del mio potentissimo mantra.

 

domenica 1 dicembre 2013

Maratona di Latina


È bellissima!
Glielo dovevo dire: perché sapesse che sto bene, che mi sto divertendo, che dopo 18 km sono ancora abbastanza fresca. Certo, di strada ne manca tanta, ma un simile entusiasmo non prorompe facilmente. Lo speaker si chiede chi sia la sconosciuta che sta correndo in terza posizione, Jader mi avverte che la seconda è a circa un minuto: sarà vero? E la quarta quanto dista? Meglio non pensarci. Nulla all’orizzonte, dietro chissà: proseguo la mia gara, ben concentrata.
Pericolosissima quella partenza in leggera discesa: il ritmo diventa incontrollabile, si corre più forte del dovuto senza rendersene conto, col rischio di pagare più tardi il conto di tanta brillantezza. Spero insomma di non avere speso troppo. Il passaggio alla mezza è abbastanza soddisfacente, adesso però si è alzato un po’ di vento – alquanto prevedibile sul lungomare. Il mare d’inverno… Decisamente arrabbiato, come del resto il cielo, che non ci risparmia una pioggia leggera ma insistente. Se non altro, la temperatura è mite. Soffro invece l’ondulazione di questo rettilineo che sembra infinito: proprio quelli che piacciono a me, si inserisce il pilota automatico e si entra in trance, favoriti da un paesaggio sublime. Morbide dune e ricchi arbusti, spiagge così non ne avevo mai viste, se non al cinema: scommetto che in un’affollata giornata estiva non mostrerebbero lo stesso fascino. Sulla scia dei miei pensieri, mi aggrego disinvolta ad un gruppetto che sembra gradire la mia compagnia. Il ritmo è un po’ calato a causa delle condizioni non proprio favorevoli: devo stare tranquilla, e cercare di conservare energie per un bel finale. Al trentesimo cerco di sondarmi: sì, sono un po’ stanca, e l’idea dei 12 km mancanti è alquanto fastidiosa ma, tutto sommato, le gambe girano ancora bene e le mie capacità di reazione non sembrano essersi esaurite. Finché la svolta a destra non ci immette nel tanto temuto tratto sterrato. Ero preparata.  Soprattutto, ero determinata a non dargliela vinta: non oggi, non qui. Questo deve essere il mio giorno, comunque vada dovrò essere orgogliosa della mia condotta. Certo, sarebbe eccessivo pretendere che mi riveli di punto in bianco un’esperta del fango, ma almeno riuscire a non piantarmi…
Appoggio traballante, si scivola che è un piacere, ma non mi blocco: rallento ma non cedo. Sollevo un attimo lo sguardo e incrocio quello delle bufale che ci osservano curiose: che spettacolo! Questo luogo è di una bellezza struggente e selvaggia: percorso impegnativo, ma tra i più suggestivi che abbia mai affrontato. Il crono che avevo in testa è ormai sfumato, tornata sull’asfalto non riesco a riprendere il giusto ritmo, anche perché ora i saliscendi si fanno sentire in maggior misura. Ho perso per strada i compagni di viaggio, ne recupero alcuni in evidente crisi. Io no, ho rallentato ma non ho desistito. Verso il 39° si prende un po’ fiato, al ristoro successivo gli addetti mi incitano: Sei terza! Ed ecco che, poco oltre, individuo una figura che mi rizza le antenne: sembrerebbe una donna. No, non può essere, si tratta senz’altro di un’illusione. Mi avvicino ancora e non ho più dubbi: è una donna. Beh, sarà una che fa jogging su questa strada, o che sfrutta la maratona come allenamento per altri obiettivi.  Una cosa è certa: chiunque essa sia, devo andarla a prendere. Gli ultimi due chilometri divengono la corsa della vita. Le sono ormai alle spalle, capisco che è lei la seconda donna. Ergo: era. Adesso come reagirà? Magari si era un attimo rilassata, paga della sua posizione, e ora darà fondo a risorse sovrumane per riappropriarsene. Qui c’è poco da esaminare: bisogna solo correre. Più forte che si può, alla faccia dei 40 km che soffocano le gambe; ne mancano solo due, una sciocchezza. Ricordi i duemila di qualche giorno fa? Hai volato: fai lo stesso ora. Ai lati della strada mi gridano Sei seconda! Apro bene le orecchie per carpire eventuali incitamenti a chi mi segue: non avverto nulla, ma non mi do pace.  Grido a me stessa, mi incoraggio, mi sprono. Spingo come poche volte ho saputo fare, sto per morire ma godo di questa immane sofferenza: perché sono fiera di me stessa (e già questa è una notizia), perché sto conducendo un finale memorabile (e questo è un altro evento). Ecco l’arco, a tutta fino alla fine: è fatta!
Promossa a pieni voti proprio no: il tempo realizzato è tutt’altro che soddisfacente. Però, quanto ho gioito! Gli ultimi dieci minuti di gara resteranno nella teca dei ricordi più gratificanti. Ma, va detto, tutta la maratona mi rimarrà nel cuore. Percorso eccezionale: sì, nonostante il tratto sterrato. Certo, niente affatto veloce, improponibile a chi ama la città e la gente a bordo strada: qui al massimo puoi incontrare aironi, scoiattoli, volatili vari – oltre alle suddette bufale. Per la sottoscritta, niente di più spettacolare. Felice di avere scelto questo evento, grazie agli amici di Latina che tanto me lo declamarono (in quel di Vulcano, sigh…), e che oggi mi hanno festeggiata come una vera campionessa. Finalmente una giornata da incorniciare, in un periodo dominato da infinita tristezza.

domenica 5 maggio 2013

14 ^ Maratona d'Europa: benvenuti a Trieste!


Chissà: se non avessi spinto contro il vento sin dall’inizio, se non mi fossi preoccupata da subito della media, se avessi provato ad accodarmi ad un gruppo…

Chissà perché tante maratone si chiudono con una scia di chissà. Qui c’è ben poco da indagare: un alito di vento è sufficiente a condizionare un mio qualsiasi allenamento, figuriamoci come possa ridurmi la Bora. Trieste mi ha dato il benvenuto mostrandomi i suoi gioielli il sabato, per poi schiaffeggiarmi la domenica. Ma io non ho abbassato la testa: non avrai il mio scalpo, porterò la mia pellaccia in quella magnifica piazza anche strisciando. Non posso deludere chi mi ha preparata a puntino per questa occasione, né chi aspetta per ore al traguardo: e nemmeno posso deludere me stessa con un ritiro che non saprei  perdonarmi. Le condizioni più avverse ci sono tutte: raffiche che quasi mi gettano a terra, una gamba da buttare via, una notte insonne in una stanza d’albergo troppo calda e troppo rumorosa. Questa è la sfida: resettare tutto sulla linea di partenza, concentrandosi su quelle parole famose “Io sono calma e farò una gran gara” .


Del resto, il clima d’attesa è decisamente tranquillo, si chiacchiera in bella compagnia in mezzo al verde così si allevia un po’ la mia tensione. Parto allegra, forse troppo. Cerco di controllare il ritmo, so che la scorrevolezza della prima parte può fregare. La Bora comincia a frustarmi, ma io provo a non farmi condizionare: è solo una ventata, poi si calma… Invece sono io a calmarmi, nel senso che cedo il passo rallentando rovinosamente. E non conta considerare che è iniziata la salita: ho lottato per metà gara ed ho esaurito le forze. Ora si tratta di sopravvivere. Tanto più che da adesso in poi ci si dovrà destreggiare tra il popolo della mezza maratona: se fossi stata in spinta, a lottare per un tempo o una posizione, questa ressa mi avrebbe sicuramente irritata, specie in prossimità dei ristori. In queste condizioni, invece, mi è quasi di aiuto: in fondo, non faccio altro che sorpassare gente, e mi godo persino qualche apprezzamento. Meno male che c’è la discesa, già tremo all’idea degli ultimi sette chilometri in piano. Solo sette, che sarà mai? Basta non fare la fine delle transenne, capovolte sull’asfalto. Il conto alla rovescia è iniziato, una manciata di minuti ancora. Quando all’improvviso scorgo uno sbarramento sul percorso: una fila di carrozzine che occupa tutta la strada, proprio in dirittura d’arrivo. Non ci posso credere, neanche un varco per passare e poter accennare uno sprint fino al traguardo. Riesco a svicolarmi inveendo, ma ormai la pedana è lì, e non posso nemmeno godermela.

Sono uno straccio, completamente persa. Nessuno a raccogliere quel che resta di me, non so dove andare. Raggiungo le corriere con le sacche personali, ma vedo solo quelle della mezza maratona: sto per cedere ad una crisi di pianto, quando scorgo il mio pullman. Ritirato lo mio zainetto, mi siedo sul marciapiede e do finalmente un segno di vita.

L’ho finita, e sono tutta intera. E’ andata così, non come speravo, ma è stato bello. E sono pronta per ripartire. Col sorriso.



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