mercoledì 31 dicembre 2008

VISIONE NELL’OMBRA

Correre n. 291 - Gennaio 2009

La sveglia segnava le 5,30. Era dunque passato solo un quarto d’ora dall’ultima volta che l’aveva guardata. Ed era forse la decima, da quando si era coricato, che controllava quanto mancasse al farsi del giorno. Il gran giorno: quello atteso da mesi, da mesi sospirato e paventato. Mesi consumati sui libri, affogato da nozioni e citazioni, in una accesa disfida tra intelletto e memoria.
Stanco di rigirarsi nel letto, Luca si avvicinò alla finestra, attratto dai bagliori dell’alba che avanzava timidamente, stemperando l’oscurità. Il suo sguardo si posò su una figura che fendeva il chiarore, una sagoma femminile che incedeva rapidamente sul sentiero del parco cittadino: una ragazza che correva. Folle! Solo un pazzo può pensare di correre ad un simile orario.
Rimase alcuni istanti basito, in contemplazione di quell’immagine tanto assurda ai suoi occhi, per poi tornare ai pensieri che avevano reso insonne la notte appena trascorsa.

Ansia e palpitazioni, sguardi che scrutano e voce che trema. Poi, finalmente, la liberazione. Ricca e corposa come un trenta e lode.
Felice e spossato, Luca si lasciò cadere sul letto ormai privo delle spine che l’avevano tormentato solo poche ore prima. Chiuse gli occhi e si abbandonò ai fotogrammi della giornata che scorrevano veloci e confusi nello schermo della sua mente. E rivide quella bizzarra fanciulla che correva nella penombra. In fondo, con lei aveva iniziato la giornata, lei era stata la prima impressione del mattino, la scossa che aveva rinvigorito i suoi sensi storditi da troppa agitazione. Insolito e curioso, quell’incontro gli aveva portato fortuna.

L’esame superato brillantemente non fu sufficiente a placare le ansie di Luca. Ne aveva ancora due da sostenere entro il mese successivo, senza contare la tesi da concordare quindi tutti i colloqui con professori e relative segreterie. Insomma, niente sogni d’oro per chissà quanto tempo. Al contrario, era come se il suo orologio interno avesse incorporato una sveglia che squillava ogni mattina verso le cinque. Non provava nemmeno a riprendere sonno, preferiva ciabattare verso la finestra alla ricerca di una sferzata di energia.
Eccola! Non aveva mancato neppure un mattino. Quel passo agile e scattante non temeva il clima rigido e nemmeno la pioggia. Trovarla ogni giorno, al suo risveglio, rappresentava per Luca una garanzia. Aprire gli occhi sulla “folle” che correva al freddo e al buio era ormai una necessità: se corre anche oggi, sarà una buona giornata.

L’avanzare dell’inverno e il ridursi delle ore di luce aveva ridimensionato anche la stanza di Luca, ridotta ormai al solo angolo sempre illuminato: quello riservato a sedia, scrivania e lampada - costantemente accesa sui libri. La finestra offriva appena un fugace spiraglio, e di tanto in tanto Luca vi gettava lo sguardo, concedendo un po’ di respiro ai suoi occhi. Gli capitava anche di perdere completamente la concentrazione: si staccava dai tomi, gironzolava un po’ in casa, per finire poi a contemplare il parco. Il vicino col cagnolino era il frequentatore più assiduo dei sentieri alberati. Qualche passante, alcune mamme con bambini a passeggio, raramente qualcuno che correva. Lei no, mai in piena luce. Lei era l’appuntamento dell’alba, a lei era dedicata l’ora dell’oblio, quella in cui ancora indefinita è la distanza tra sogno e realtà, lei era il sorriso del buongiorno. Non poteva più farne a meno. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata.

Il lento scandire di date sempre uguali fu interrotto da una speciale esplosione: lo sfogo gioioso di un altro esame superato. Il suo amuleto aveva funzionato ancora una volta. E funzionò anche nell’ultima prova, con l’ennesimo “trenta” a segnare la parola fine sul suo libretto universitario. Cominciava una nuova stagione, concentrata sulla tesi: ricerche, appunti, pagine scritte e riscritte. Incollato nel suo spicchio di stanza, sotto uno spicchio di luce, accanto ad uno spicchio di cielo. Cielo anch’esso adeguato alla nuova stagione: corrugato e lattiginoso, torbido e imprevedibile. Tipico di quelle giornate crude in cui pare che tutto possa succedere; clima ambiguo, sospeso tra squarci di sole e nubi minacciose. Malinconico e inquieto, l’inverno, con quella atmosfera tra il sospeso e l’ostile. Ora più che mai, la corsa “folle” gli era necessaria. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata.

Fu in una di quelle notti rigide che Luca si svegliò con un’anomala agitazione. Un silenzio insolito, calmo e ovattato, trasmetteva cupi presagi. Cercò risposte rivolgendosi alla finestra, che gli confermò, con pallidi riflessi, i suoi timori. Sul parco giaceva una candida coltre che si andava via via ispessendo, arricchita dai fiocchi che continuavano a cadere placidi ma inesorabili. Come ipnotizzato dalla danza regolare dei fulgidi cristalli, non si rese conto che il “loro” momento ora era ormai passato. Solo quando notò il cane del vicino, scatenato nella rincorsa alle migliaia di farfalline di neve, realizzò che la sua “folle” podista, quella mattina, non aveva calpestato il sentiero. Fu invaso da uno sconforto che non sapeva definire, una sorta di delusione mista a rabbia, mista a tensione, mista a sconcerto. E adesso? Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Già, ma se non corre? Si rese conto, per la prima volta da quando aveva avuto inizio la loro ininterrotta serie di incontri, che di lei non conosceva nulla. Non aveva la benché minima idea di chi fosse quella sorta di folletto, per lui non aveva un nome, né un’età, né una casa. Come non fosse mai esistita. L’aveva forse solo immaginata?

Il mattino seguente si appostò con largo anticipo al solito posto, sperando si fosse trattato di un’assenza sporadica e che tutto avrebbe ripreso regolarmente il suo corso. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Il parco completamente innevato, però, rendeva alquanto flebili le aspettative di Luca. Infatti nessuno, a parte il solito cagnolino, giunse a violare il manto immacolato. Un altro giorno senza di lei, un’altra incognita sulla qualità delle ore a venire.
Indossò giacca e scarponi quindi rovistò in cantina, alla ricerca di qualcosa che assomigliasse ad un badile - suo padre doveva pure avere qualcosa del genere. Se avesse liberato il sentiero dalla neve, magari la ragazza avrebbe ripreso a correre.

Fiero e fiducioso, il giorno successivo attese il suo passaggio, certo che la terribile fatica sostenuta per lei l’avrebbe ripagato. Nulla. Forse per colpa del ghiaccio formatosi nella notte. Sale, occorreva cospargere il sentiero di sale, magari verso il tramonto, prima che si abbassasse troppo la temperatura.
Chi lo vide, quella sera, dovette pensare che fosse un addetto al servizio stradale. Fortunatamente non era tanto conosciuto nella zona, perciò nessuno osò commentare il suo operato. Nessuno tranne una voce, che lo sorprese con tono allegro e squillante: Grazie! Finalmente qualcuno ci ha pensato.
Restò incantato davanti a due occhi che non aveva mai visto, ma che credeva di conoscere da sempre. Due occhi vivaci e curiosi, forse appena arrossati dall’aria pungente, di certo stupiti dalla strana figura immobilizzata al loro cospetto. Rigido come un pupazzo di neve, Luca non riusciva a fare altro che restarsene impalato, col badile in mano, a fissare quella ragazza.
Beh, grazie ancora e buona serata.
Se ne andò così. Con lo sguardo di Luca ad inseguirla. Incredulo. Non sapeva se ridere o piangere. L’aveva finalmente incontrata e non era stato capace di aprire bocca. Un’occasione perduta, e già pensi alla prossima volta, aveva detto qualcuno. Già, ma quale prossima volta?

Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Avrebbe funzionato. Il sentiero era pulito, il sale l’aveva preservato dal ghiaccio, e lei l’aveva ringraziato. Non ci potevano essere dubbi.
Eccola! Mentre avanzava veloce nel parco, gli parve persino di vedere i suoi occhi brillare. L’aveva resa felice, ne era certo. E lei lo ripagava tornando sui suoi passi, mantenendo fede al loro appuntamento, regalandogli finalmente un magnifico risveglio. Non sapeva ancora nulla di lei, ignorava sempre cosa lei avrebbe fatto una volta finito il suo allenamento, come trascorresse il suo tempo, con chi fosse solita cenare, chi le augurasse la buona notte. Ma, in fondo, questi erano solo dettagli. Aveva ripreso a correre, ecco cosa contava. Contava che si fossero ritrovati. Magari un giorno sarebbe sceso anche lui, nel parco, sul fare dell’alba. Magari con le scarpette da corsa, chissà. Chissà, un giorno avrebbe anche lui finito per appassionarsi alla corsa. Un giorno, forse.

mercoledì 19 novembre 2008

la valle dei conigli


Amo la nostra campagna. Trovo distensivo quel paesaggio piatto e monotono, ha qualcosa di rassicurante: non nasconde nulla, nulla sembra possa cambiare, nessuna insidia e alcuno ostacolo. Certo, chi cerca emozioni forti predilige la rude imponenza della montagna, oppure la profonda inquietudine del mare. Io invece sono per la dolcezza e la morbidezza: delle infinite distese dei campi e delle colline che, più il là, li incorniciano.
Mi lascio incantare facilmente: da una luce che dia particolare risalto al calore dei colori, da una patina di nebbia che renda spettrali le ombre degli alberi, o ancora da una carezza di brina che accenda di bagliori i fili d’erba. Più di ogni altra cosa, però, mi entusiasma l’incontro con qualsiasi specie animale. Gazze, fagiani e cornacchie sono ormai compagni abituali delle mie sedute di allenamento, ma il volo dell’airone o la sua sagoma immobile riescono ancora a lasciarmi a bocca aperta. Per non parlare dell’avvistamento di un istrice, quella notte di agosto che ancora ricordiamo come un evento storico. Ultimamente, poi, tornando dalle riunioni ad Argelato, ho scoperto un luogo magico, una sorta di “valle dei conigli”. Completata una delle innumerevoli curve della stretta strada di campagna, i fari dell’auto hanno infatti illuminato un festoso ritrovo di lepri: saltellavano allegri nel campo, tra i fossi, in prossimità delle case. Un vero e proprio ritrovo notturno di questi teneri “orecchioni”. E io, come una bambina impazzita, a gridare eccone un altro, un altro là, anche lì uno! Vorrei correre in mezzo a loro, vorrei che si lasciassero avvicinare, toccare, trastullare; vorrei accarezzare la loro testina guardandoli negli occhi, come faccio con le mie micie, e giocare teneramente con le loro lunghe orecchie.
Questi sono attimi di autentica felicità. Del resto, la felicità è fatta di momenti: una parola, un gesto, un’occorrenza che ti fanno sentire totalmente appagato, fosse anche per una frazione di minuto. Come quando Cleopatra mi salta sul grembo e appoggia il muso sul mio petto, godendosi ogni coccola. O come quando Nina si arrotola sul divano tra le mie gambe, usandole come cuscino. Lo pensai la notte del mio rientro da New York, quando per la prima volta sia Nina che Cleopatra dormirono con noi: felicità è avere due gatti sul letto.
Pochi potranno capire, ma che importa?

domenica 9 novembre 2008

New York 2008


Lo dissi la prima volta, nel 2002, e lo ripeto quest’anno: la maratona è l’unica cosa per la quale valga davvero la pena volare a New York. So che questa affermazione farà rizzare i capelli ai tanti innamorati dalla città. E neppure io voglio negare che le sue luci, i suoi contrasti, le sue enormità le forniscano un fascino del tutto particolare. Ma io non sono qui per fare la turista: principalmente, ciò che mi interessa è condurre una bella gara, quindi devo risparmiare le mie energie evitando di andare troppo a zonzo. A fare che, poi? Di shopping non se ne parla. Il mio compito di assistente, poi, non mi lascia troppo tempo libero, così i rischi sono ridotti.

Non mi resta quindi che lasciare trascorrere i giorni che precedono la gara in modo sereno, cercando di evitare gli effetti negativi di situazioni inevitabilmente stressanti.

Il mio rifugio è Starbucks. Adoro queste nicchie di aroma e di calore: mi basta farvi ingresso per sentirmi coccolata. Il cappuccino, qui, è superlativo – altro che quelle misere tazzine dei nostri bar, il più delle volte riempite con brodaglia appena tiepida. Mi siedo ad un tavolo con il mio bicchierone fumante e mi guardo attorno: relax allo stato puro. Chi legge un libro, chi sorride lambiccando il cellulare, chi fissa lo schermo di un pc; qualcuno chiacchiera, qualcun altro scrive, c’è anche chi osserva il passaggio frenetico sulla strada. Là fuori tutto corre, mentre qui dentro il tempo è dolce e morbido.

Tempo bizzarro e inaffidabile. Mi riferisco a quello atmosferico: freddo e inclemente il primo giorno, come un sarcastico benvenuto, tiepido e quasi afoso nei giorni successivi. Perfido inganno: la mattina della gara un vento gelido spazza le nostre miti aspettative. Fort Wadsworth appare più che mai come un campo profughi, una distesa di rifugiati tra cartoni e sacchi di nylon, alla disperata ricerca di un minimo riparo. Non ricordo attesa più lunga. Eppure non mi scoraggio: mi sento in forma, carica e determinata. Ho un conto in sospeso con questa maratona. Devo ancora digerire il ritiro del 2006. Certo, nulla potrà cancellare quella delusione, amplificata dal fatto che c’era Jader ad attendermi invano all’arrivo. Ma è anche per rendere ad entrambi meno doloroso quel ricordo che oggi dovrò dare tutta me stessa.

Parto col sorriso, e pazienza se il vento, sul Ponte di Verrazzano, tende a spostarmi. Ci sarà modo di recuperare. Appena giunta tra le ali di folla, mi faccio spingere dall’incitamento. Go Vale, go! Che effetto pazzesco queste parole! Il mio nome urlato in decine di accenti diversi, per 42 chilometri. Solo qui posso godere di una simile emozione, solo su queste strade si può vivere l’illusione di essere campioni degni di un tifo assordante.

Al trentesimo chilometro faccio un rapido calcolo che mi fa esultare: sto andando alla grande.

Peccato che di lì a poco qualcosa si spenga. Non una crisi improvvisa e infernale, niente a che vedere con quel muro che blocca gambe, fiato e pensiero. Semplicemente mi rendo conto che sto rallentando. Qualche allungo mi riesce ancora, ma di fatto il tempo si sta dilatando oltre ogni previsione: le ultime tre miglia sono eterne, i due chilometri finali un calvario. A malapena riesco ad alzare le braccia all’arrivo. Esultare per cosa? Il risultato è peggiore delle peggiori ipotesi.

E adesso? Adesso ritorno sui come e sui perché, senza trovare ragioni sufficienti a spiegare questa scarsissima prestazione – che si aggiunge alle tante precedenti. Il primo pensiero è di lasciare perdere tutto. Ma l’idea di rassegnarmi non mi va proprio giù. Non ancora. Non ho ancora sbattuto sufficientemente la testa per convincermi a desistere. Voglio credere che posso ancora farcela. Ce la devo fare! Archivio dunque un miserissimo 3:11:20 e mi carico per la prossima sfida.

Non so se tornerò a New York. In quei lunghi giorni privi di stimoli mi chiedevo se ne valesse ancora la pena. Una volta tornata, ho trovato la risposta: ne vale sempre la pena. Perché le emozioni di quei 42,195 km non hanno eguali e so già che, se dovessi assistervi alla tv, lo farei con il magone – come accadde l’anno scorso. Inoltre, stavolta ho saldato un conto ma ne ho aperto uno diverso: devo rientrare nella classifica delle top 100!

lunedì 25 agosto 2008

Grazie, Stefano

Non avevo neppure il coraggio di andare ad aprire la porta. Quando Jader, appostato alla finestra, mi annunciò che erano arrivati sentii una scossa percorrermi da capo a piedi. Lo conoscevo, certo, ci eravamo già parlati ed eravamo anche stati insieme a tavola. Ma non a casa mia! Avevo invitato Daniele a cena come ogni tanto capitava di fare: durante la seduta di massaggio ci si perde in chiacchiere e finisce che gli chieda di venire a mangiare da noi, tanto per stare un po’ in compagnia. Quando mi telefonò per informarmi che proprio quella sera doveva vedere Stefano e che avrebbero finito il trattamento proprio verso ora di cena quindi, se non mi dispiaceva, sarebbe venuto con lui…

Era radioso. Ricordo che mi colpì il suo sorriso che lo illuminava tutto. Non l’ho mai visto così bello.
Superato l’imbarazzo, tutto divenne molto spontaneo e naturale. Si parlò di sport, ovviamente: la tv trasmetteva le immagini dello stadio di Atene, dove erano già iniziate le prove di atletica. Si commentava quanto stava accadendo, quanto era già avvenuto ed anche ciò che sarebbe successo di lì a una settimana…
Nessuna immagine ad immortalare quella serata, non ebbi il coraggio di scattare foto, mi sembrava sciocco e fuori luogo. Che sia stato solo un sogno?

Un sogno sembrava anche ciò che si stava realizzando sulla strada di Atene, quella magica domenica di agosto. Lo schermo era pieno della sua immagine, nessun altro a fargli ombra. Sicuro e determinato, fiero della sua superiorità. Splendido. Splendido fu il suo ingresso nello stadio, elegante come un felino, furioso come un rapace. Io ammutolita dall’emozione, sciolta in lacrime.

Quante volte mi ha fatto piangere, Stefano. Il suo ritiro ai mondiali, la sua vittoria agli europei, la sua ultima prova olimpica. Un campione in ogni occasione, con qualsiasi risultato. Perché la grandezza di un atleta non è fatta solo di primati e di medaglie. La consapevolezza di sé e dei propri avversari, il sapersi (ri)mettere in gioco, l’affrontare le sfide con coraggio e dignità: saper coinvolgere ed emozionare perché si è coinvolti ed emozionati. Questo fa la differenza, questo lascia una traccia nei cuori e nella storia.
A Pechino a vinto Wanjiru. Sapevo, tutti sapevano, che Stefano non aveva speranze. La mia speranza era che finisse la gara. Ma lui non si è limitato a questo: non solo ha portato a termine la maratona, ma ha anche guadagnato posizioni su posizioni, dimostrando per l’ennesima volta la sua superiorità tattica, oltre che la sua inesauribile forza fisica.
Ancora una volta si è dimostrato il più grande. Ancora una volta ci ha fatto sognare. Ancora una volta lo devo acclamare, con le lacrime agli occhi.

Grazie, Stefano!

giovedì 21 agosto 2008

NEW YORK!

Speranze disilluse, occasioni nelle quali avevi smesso di sperare, ricordi che non fornivano nutrimento altro che alla nostalgia – non riuscendo più ad alimentare i sogni.

Poi la notizia. Inaspettata, inattesa, inimmaginabile. Da cadere dalla sedia.

Invece sulla sedia sono saltata, vano ogni tentativo di contenere la gioia.
Ciò che non riuscivo a evocare senza magone, l’evento che più di ogni altro mi aveva travolto di emozioni, il luogo che avevo prima denigrato per poi finirne irrimediabilmente attratta tornava ad essere palpabile.
Incredibile come una breve telefonata possa sconvolgere l’equilibrio di un giorno e di una stagione. Come una semplice proposta riesca a scatenare energie che rimescolano e ridefiniscono i già precari equilibri emotivi.

Il 2 novembre sarò sul Ponte di Verrazzano. Tutto il resto, in questo istante, mi appare molto più sbiadito.

lunedì 4 agosto 2008

Ciao Naida

Fatico a ricordare i compagni e le compagne di scuola. Di nessuno di loro ho più notizie, nemmeno di quelle che ai tempi sembravano amiche del cuore. Finita la complicità sui banchi, è finito tutto quanto. Ognuno è andato per la sua strada e, ora, di alcuni non ricordo neppure il nome e dubito che li riconoscerei se li incontrassi casualmente.

Poi capita che, chiacchierando del più e del meno, si finisca per rievocare fatti e persone che hanno segnato in qualche modo il nostro passato. E si riaprono squarci di vita che, per qualche attimo, destabilizzano il presente.

Naida era mia compagna di banco alle scuole medie. Una testa matta, sempre a caccia di guai e per nulla interessata a qualsivoglia lezione. Famiglia disastrata, un fratello bello e maledetto, uscito miracolosamente da una travagliata esperienza di tossicodipendenza, lei non si sottraeva al fascino del proibito, della facile evasione, del mito dello sballo. Due occhi sgranati sul mondo e un sorriso disarmante, un folletto irrequieto e curioso.
Cosa aveva in comune un simile soggetto con la sottoscritta, studentessa modello, ligia al dovere e tutt’altro che trasgressiva? Eppure ci volevamo un bene dell’anima. Non ho mai frequentato le sue amicizie, né l’ho mai seguita nei suoi giri loschi. Ma conoscevamo tutto l’una dell’altra. Ci perdevamo non solo in chiacchierate infinite, ma anche in letterine che ci scrivevamo persino quando eravamo entrambe in classe, durante le lezioni più noiose. Siamo rimaste a lungo in contatto negli anni a seguire. Non ricordo quando sia avvenuto il nostro ultimo incontro, certamente tantissimi anni fa. Poi siamo finite l’una nei ricordi dell’altra, in quell’angolo della memoria che, quando visitato, fa riaffiorare le emozioni di quei giorni, di quel tempo in cui tutto era ancora da realizzare.

Ieri sera la gelata. Chissà come mi è tornata in mente la storia di Raffaele, il fratello bello e maledetto (quella vicenda mi procurò persino un premio giornalistico). Da chi conosce bene la gente di paese, ho voluto sapere se lui stesse ancora bene, se davvero tutto fosse filato liscio.
“Sì, sta bene. Solo che da poco gli è morta la sorella, Naida, hai presente?”

Da tre mesi Naida non c’è più. E io, da anni, non sapevo nulla di lei. Non sapevo che stava lottando contro un cancro che l’ha lentamente distrutta. Lei che ha sfidato le avventure più assurde, non ha potuto superare l’ostacolo più infimo. Non posso avere rimorsi, in fondo è naturale che le persone si allontanino. Ma, accidenti, siamo state grandissime amiche, proprio nell’età in cui l’amicizia è il sentimento più grande. Ora non serve a nulla pensare che si dovrebbero mantenere i contatti, che dovremmo curare i nostri affetti e preoccuparci sempre e comunque di chi abbiamo avuto accanto. Non riesco a pensare a questo, anche perché mi suona molto scontato e retorico.
Riesco solo a pensare che Naida non c’è più

domenica 27 luglio 2008

Concerto dei REM



Due ore di energia pura. Elettrizzante, travolgente, ammaliante. E tremendamente seducente. Ne ero certa, mi erano bastati i pochi attimi rubati dalla TV per cogliere il carisma di Michael Stipe, per essere catturata dal suo magnetismo: sapevo che, dal vivo, mi avrebbe tramortita. La musica, del resto, è già una garanzia. Ma non basta un ottimo repertorio a creare un grandioso concerto, occorre essere padroni del palcoscenico e saper catturare il pubblico.
Onestamente, non so nemmeno chi siano gli altri componenti dei REM, né conosco alla perfezione tutte le loro canzoni. Ma che importa? Sono rimasta a bocca aperta per l’intera durata del concerto, con l’unico rammarico di essere troppo lontana per godermelo appieno.
Dalla mia comoda postazione in gradinata avevo sì un’ottima visuale del palco, ma lui era davvero troppo distante per cogliere le sfumature della sue performance e, soprattutto, per leggere le espressioni del suo viso. Quanto ho invidiato quelli in prima fila, nel parterre, soprattutto quando hanno potuto toccarlo, proprio durante l’esecuzione di Losing my religion…

Quanto tempo è passato da quando anch’io rischiavo di finire soffocata pur di guadagnare la transenna sotto al palco…
La prima volta avevo 18 anni. Arrivai in stazione a Firenze verso le 7,30 di mattina e gli autisti dei bus guardarono straniti quella ragazzina che chiedeva quale linea portasse allo stadio. Pochi mesi dopo rividi lo stesso concerto a Torino, stavolta accompagnata da un amico disposto ad assecondare i miei deliri. Ricordo poi l’attesa a Milano, sotto il diluvio, e il concerto interrotto a Modena. A Bologna fu forse il meno emozionante, ma solo perché non stavo tanto bene. Poi fu a Pistoia, quindi a Lucca. Tutte le volte, stessa allucinante trafila per poterlo vedere da vicino, magari sfiorarlo o raccogliere qualcosa dalle sue mani (da qualche parte conservo un suo plettro). Ne è sempre valsa la pena e, forse, lo rifarei anche domani. Confesso però che spero non si ripresenti l’occasione: oltre a rischiare di apparire ridicola, non so se adesso sarei in grado di affrontare un simile stress. Tanto David lo sa comunque che amerò sempre e soltanto lui…

venerdì 23 maggio 2008

Trent'anni di sudore e solidarietà

Correre N. 283 - Maggio 2008

“Correre è stato il mio mestiere
non mi ha dato da vivere
ma mi ha fatto vivere”
Si apre con questo pensiero il volume Sudore e nafta (Ed. Pro Art), con il quale Giovanni Scalambra ha voluto celebrare i suo trent’anni di carriera podistica. Difficile sintetizzare in un libro una vita dedicata alla corsa, specie quando si sono solcati più o meno novantamila chilometri, attraversando nazioni e continenti, per diffondere messaggi di pace e fratellanza.
“La corsa, per me, non è mai stata fine a se stessa. Ho sempre cercato di abbracciare piccole battaglie per la solidarietà. Come l’impresa anti Parigi-Dakar, nell’88, quando cercammo di seguire, correndo, il tracciato della rumorosa gara motociclistica. Non riuscimmo però a completarla, fu un azzardo che non oserei ripetere. Non ci si può misurare col deserto, simili luoghi richiedono attenzione e rispetto. Così pure le loro popolazioni, come i Tuareg. Incontrarli fu un’emozione indescrivibile: bellissimi, ricchi di umiltà e dignità. Non domandavano nulla, eravamo noi a sentirci in debito nei loro confronti. Un altro mondo, se paragonato alla corruzione che abbiamo conosciuto nelle città del Mali, dove dovevamo comprare al mercato nero anche la nafta”.
Nafta, appunto. Come mai questo titolo?
Sorride. “Accattivante, no? In quelle parole c’è tutto. Anche perché sono molto olfattivo. Il sudore, ovvio, nella corsa è sempre presente, è l’odore che impregna le gare: non è un buon profumo, ma è pur sempre calore umano. La nafta, poi, purtroppo è ormai ovunque, infesta abiti e pelle. Il suo puzzo me lo sentivo addosso durante i nostri viaggi, tra camper e camion.”
Viaggi, dunque. Dal 1988 al 1999, insieme ad un gruppo di piacentini, ogni anno una nuova esperienza affrontata con un misto di impegno e curiosità.
“Il tutto filtrato attraverso il vecchio grande amore: la corsa. Nel cinquantesimo anniversario della Seconda Guerra Mondiale, per esempio, abbiamo ripetuto il cammino di ritorno dei soldati italiani da Kiev a Piacenza, visitando i campi di sterminio. Poi la staffetta in Albania, quella presso il santuario di Padre Pio, la DoloAlpi : itinerari noti e particolari, sempre con intenti di solidarietà, portando, oltre alla nostra umanità, medicinali e beni di prima necessità.”
C’è però dell’altro, in queste pagine. Da alcuni resoconti di allenamenti svolti e di gare combattute emerge uno spirito fortemente agonistico.
“Certo, la corsa è anche battaglia, ma sempre con ordine e disciplina, senza colpi bassi. È la mia seconda vita, mi ha inflitto grandi fatiche ma anche donato immense soddisfazioni. Come la mia prima maratona, a Budapest, dove infransi subito il muro delle tre ore e mi classificai primo tra gli italiani. Poi la Casaglia – San Luca, una corsa sempre entusiasmante. Per non parlare delle sfide con atlete famose.”
L’odore della pelle, il rumore dei passi, il ritmo del respiro: un coinvolgimento sensuale a tratti persino erotico, nel gesto atletico.
“Il fascino di correre con una donna…Mi piace ricordare momenti di agonismo vissuti accanto ad atlete prestigiose. Alcune mi hanno turbato, sia per la loro eleganza che per i segnali che il loro corpo trasmetteva al mio, messaggi silenziosi eppure intensissimi. Di altre, invece, non ho tracce altrettanto piacevoli, essendomi sembrate fredde, calcolatrici e, devo dirlo, per nulla femminili.”
Un coinvolgimento totale, quello della corsa. Emerge dalle pagine di questo libro e, soprattutto, lo si legge negli occhi e nel volto di Giovanni, aperti e luminosi come lo sono quelli di un uomo innamorato.
“E’ vero. Ho inserito qui anche una lettera d’amore, mai spedita. Mi sono decisamente messo a nudo, ma avevo l’impellente bisogno di esprimere ciò che provo e ho provato”.
Ci auguriamo che la destinataria di questo dolcissimo appello colga il messaggio. E che gli sviluppi possano, magari, riempire le pagine dei prossimi capitoli.

Perchè corriamo

Titolo curioso e invitante: Perché corriamo?
Una domanda che molti di noi si saranno posti, alla quale alcuni sanno rispondere senza esitazione, mentre altri stentano a trovare parole capaci di definire un istinto, un impulso, una passione.
La curiosità aumenta leggendo il breve profilo dell’autore, sulla quarta di copertina del piccolo volume edito da Einaudi: “Roberto Weber (Trieste, 1952) dirige l’istituto di ricerca SWG dove analizza l’opinione pubblica e cerca di prevederne – con alterne fortune – i comportamenti elettorali. E corre.”
Non un campione, dunque, né un allenatore o un tecnico del settore. Roberto Weber è un affermato professionista che ha vissuto, da ragazzo, l’emozione della pista e ha saputo poi ricercare e analizzare le manifestazioni di tale emozione nei gesti degli atleti. Cita grandi nomi: Coe e Ovett, Gebreselassie e Tergat, Arese e Bordin. Ma riporta anche scorci della sua esperienza di giovane promessa del mezzofondo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70.
- Non ero un campione, ma mi piazzavo discretamente. A quel tempo, a Trieste, c’era molta rozzezza nelle tecniche di allenamento. A sedici anni ci tiravano moltissimo, a suon di ripetute, mentre non si conosceva ancora il valore del “lungo”.
C’è un po’ di rimpianto per un sogno spezzato, unito ad un cenno di rancore per la meschinità con la quale, a causa di un banale infortunio, il suo nome fu relegato nella lista nera delle prestazioni deludenti – quindi da cancellare.
- Ora, con la corsa, ho un rapporto episodico. Grazie a questo sport, però, ho acquisito un senso di identità che altrimenti non avrei avuto.
Correre è infatti esperienza del dolore e percezione del limite, sfida dei confini di spazio e tempo e trance agonistica. “È regressione a una condizione primaria ed è al tempo stesso ascesi”.
- Anche se ormai non corro quasi più, seguo le gare tanto che, in occasione dei grandi appuntamenti, si ferma tutto l’ufficio. Al di là del risultato, però, ciò che più mi appassiona del gesto atletico è la sua valenza estetica. Mi affascina la leggerezza e l’armonia dei campioni, il loro incedere apparentemente privo di sforzo: la virtù di celare il dolore nell’eleganza dell’azione.
Certo, difficile incontrare tanta armonia nelle masse che, ogni domenica, si sfidano sui percorsi più disparati. Weber ha assistito alla progressiva crescita del mondo podistico, al suo divenire un fenomeno di massa. È vero che nutre qualche perplessità verso i fanatici di diete, tecnologie e tabelle miracolose. Ma non esita a condividere il senso e la ragione di tanta diffusa partecipazione:
- Sulla linea di partenza si annulla ogni distinzione di sesso, classe o età. Non esiste niente di simile, nessun altro luogo è così nettamente uguale per tutti.
Come se, nelle gare, i podisti ritrovassero quella “giustizia sociale” che manca nella quotidianità. Partire tutti con medesime opportunità ed essere riconosciuti per il proprio merito personale. Questa la risposta sociologica al quesito posto dal titolo. Quanto all’interpretazione del singolo, vale ovviamente l’esperienza personale. Pochi sanno tradurla in parole:
- In tutto ciò che ho letto di e sulla corsa, raramente ho trovato descrizioni efficaci dello stato d’animo del corridore. Del resto, sono convinto che solo chi abbia provato personalmente quelle sensazioni sappia narrarle sapientemente.
Roberto Weber ci offre un’infinità di spunti di approfondimento e di riflessione. Senza però negare al contesto della corsa quel pizzico di irrazionalità che caratterizza, del resto, tutte le passioni.

Correre n. 283 - maggio 2008

sabato 5 aprile 2008

Stato laico?

Adoro le mattine in cui posso fare colazione in tutta calma, leggendo il giornale. Potrei stare ore a sfogliare le pagine sorseggiando tazze di tè.
Stamattina, però, lo yogurt mi è andato di traverso quando ho appreso che all’Ospedale Maggiore cinque medici su sette sono obiettori di coscienza. Questo a Bologna.
Quindi, anche nella mia città, una donna che per una sua personale, legittima, inoppugnabile decisione, si trovasse nella necessità di abortire, correrebbe il rischio di non poterlo fare. Ritengo inconcepibile che ciò sia concesso. Che sia permesso, cioè, che un medico nell’esercizio delle sue funzioni possa rifiutarsi di esercitare le stesse. Se un chirurgo testimone di Geova si opponesse alla pratica di una trasfusione lo si riterrebbe altrettanto legittimo?
Qualora certe terapie, interventi o cure fossero in contrasto con le proprie convinzioni, basterebbe scegliere un’altra professione.
La conferma di quanto siamo ancora disperatamente lontani dalla realizzazione di uno Stato laico me la fornisce poi il principale TG nazionale. Notizia di apertura, la dichiarazione del Papa su divorzio e aborto: "si tratta di colpe gravi che, in misura diversa e fatta salva la valutazione delle responsabilità soggettive, ledono la dignità della persona umana, implicano una profonda ingiustizia nei rapporti umani e sociali e offendono Dio stesso, garante del patto coniugale ed autore della vita".
Cosa abbiamo fatto di male?…

giovedì 3 aprile 2008

Non pensarci

L’ultimo film di Gianni Zanasi ci regala un Valerio Mastandrea davvero irresistibile: le sue espressioni spontanee e accattivanti suscitano ilarità e commozione allo stesso tempo.
Direi una banalità se affermassi che il personaggio sembra cucito proprio su di lui – del resto, non ho ancora individuato un ruolo nel quale questo attore non si calasse perfettamente. Certo, l’insicurezza, la timida spavalderia, la rude dolcezza che esprime il protagonista di questo film sono resi con superlativa intensità, e difficilmente riuscirei ad immaginare un altro volto o una diversa fisicità in quei panni.
Ciò che maggiormente colpisce in questo film è la delicatezza con la quale si mescolano e si sovrappongono i toni del dramma e quelli della commedia: si ride di gusto, ma con un fondo di amarezza. Una scena, in particolare, è a mio avviso tra le migliori viste al cinema negli ultimi anni: la madre del protagonista gli confessa una verità decisamente pesante; lui, visibilmente sconvolto, si chiede perché tutti vogliano essere ad ogni costo sinceri. Non eravamo più felici quando ci dicevamo un sacco di bugie?
Un accenno alla trama.
Stefano Nardini, leader di un gruppo rock punk di decaduto successo, lascia Roma per cercare rifugio nel nido familiare, sulla costa romagnola. Qui ritrova la madre alle prese con sintomi di depressione; il padre, imprenditore in pensione, spettatore inconsapevole del declino della propria azienda; il fratello, incapace di divincolarsi tra il fallimento del proprio matrimonio e quello dell’azienda stessa; la sorella, che cerca di estraniarsi da tutti dedicandosi al suo lavoro con i delfini. Situazioni imbarazzanti e drammatiche costringono il musicista a rimettersi in discussione e ad assumersi nuove responsabilità, nell’intricata precarietà del lavoro, degli affetti, dei legami stessi.
Ottimo il cast, intelligenti i dialoghi, brillante la sceneggiatura. Un film decisamente da applauso.
Unica nota dolente: Mastandrea non era presente all’anteprima… Vabbè, non si può avere tutto.

lunedì 31 marzo 2008

Prospettive

Ennesima gara vergognosa, veramente da piangere.
Tanto per sollevarmi il morale, trascorro il pomeriggio al Circolo: il Democratic Day chiama, ma chi volete che risponda lì dentro, in una giornata così?
Mettiamoci pure il fratellone all’ospedale e la giornata è chiusa in bellezza.

Osserviamo da un’altra prospettiva: domani inizia un mese nuovo e un nuovo piano di preparazione. Dovrò rivedere i miei programmi, rinunciando anche alla maratona. Confido però di raccogliere in autunno i frutti delle prossime fatiche. Io ci metterò tutto il mio impegno, spero che le varie componenti di me stessa rispondano a dovere.

venerdì 28 marzo 2008

giovedì 13 marzo 2008

sempre più piano

Sono arrivata alla fine nonostante tutto: nonostante i passaggi indicassero una condizione pietosa, nonostante fossi anni luce dalle mie aspettative, nonostante il tempo finale mi avrebbe fatto vergognare. Ho tagliato il traguardo pensando che basta, inutile continuare a sbattersi. Troppo frustrante. Tutti (o meglio, tutte) migliorano, tranne me. Che mi alleno a fare? Corro corro senza arrivare da nessuna parte, anzi, retrocedo invece che avanzare. E allora, meglio darsi all’uncinetto.
Mi consolo in parte con un salto sul podio: anche un bradipo può raccogliere qualcosa, e stavolta c’è anche una medaglia d’oro!
Immergo poi i dispiaceri in una vasca d’acqua bollente – che mi rilassa anche troppo, visto che dopo non ho più voglia di far nulla: anche oggi, niente cinema. Sto perdendo parecchi colpi…
Piero non mi ha telefonato per chiedere come fosse andata, meglio così, non ho voglia nemmeno di sentire lui. Tanto, cosa potrebbe dirmi? Neppure lui sa darsi una spiegazione, o meglio, chiama in causa il nuovo impegno politico che, a suo dire, mi farebbe sprecare energie nervose a discapito della corsa. Figuriamoci!
Bene, partiamo da qui, allora. Prendiamo le teorie di Piero e facciamo di tutto per smentirle. Il compito che ho assunto mi sta entusiasmando e, fino a prova contraria, l’entusiasmo è energia positiva, perciò dovrei beneficiarne e non farmi abbattere. La sfida sarà dunque dimostrargli che la grinta c’è ancora, ancora più forte. Manterrò alto l’obiettivo per non abbassare la guardia, e non risparmierò neppure un alito del mio fiato per raggiungerlo. Ce la posso fare. Ce la farò.

venerdì 29 febbraio 2008

10 km

Dopo una settimana decisamente sotto tono, con strani malesseri ed insolite tensioni, non potevo aspettarmi un miracolo. Però, vedersi sfilare davanti certe avversarie che, teoricamente, dovrebbero osservarmi le spalle, è sempre uno smacco. Con l’autostima rasoterra che mi ritrovo, simili colpi possono avere effetti deleteri. Un minutino in meno, non chiedevo tanto: il minimo indispensabile per non sentirsi scarsi del tutto, per poter credere che ci siano buone prospettive, per affrontare con la giusta carica gli impegni a venire.
Invece, flop totale. E, come se non bastasse, le gambe non ne vogliono sapere di riprendersi. A tre giorni dalla gara, ancora arranco, annaspando su ritmi che poco prima mi riuscivano facili. Ho già esaurito tutta la carica?
Voglio pensare che sia solo un momento di stanchezza passeggera, dovuto al sommarsi di alcuni fattori di turbamento. Ma adesso basta. Mi concedo una piccola tregua per riprendere fiato, per poi ripartire, più cattiva di prima. Le novità che mi stanno coinvolgendo devono fornirmi energia positiva. Accidenti a me, perché non riesco a liberarmi una volta per tutte di questi occhiali così grigi?!

martedì 5 febbraio 2008

maratonina Trofeo Lolli

Dopo l’esperienza di Reggio Emilia, che timore poteva incutermi un po’ di pioggia? In fondo, si trattava di correre solo una mezza maratona… Certo, la prestazione ne avrebbe risentito ma, non sapendo né cosa potevo aspettarmi, in questa fase dell’allenamento, né quali avversarie mi avrebbero soffiato sul collo, non avrebbe avuto senso allarmarsi più di tanto.
Serena e determinata, sono entrata con convinzione e grinta nell’atmosfera della gara – la prima vera prova della stagione. L’anno scorso mi stavo ancora leccando le ferite, quindi avevo saltato l’appuntamento. Quello precedente, per la prima volta in quattro anni, avevo mancato il podio. Ora, non potevo deludere – né deludermi.

La pioggia è leggera ma insistente. Non me ne curo, così come provo a non curarmi delle solite facce che incontro. Lo so, sono un orso, ma non ho voglia delle solite domande e dei soliti discorsi: rispondo ai saluti e proseguo innanzi. Che c’è di male? Sono concentrata, ecco tutto. Non ho ancora scorto individui pericolosi, a parte quelli (o meglio, quelle) che si contenderanno la prima posizione. Il terzo posto resta un incognita…
Il tempo di riscaldarmi (e bagnarmi), un sorriso al fotografo, e via!
Non vedo i chilometri, non so a quanto sto andando. La partenza, per me, è sempre da panico: attenta a non farmi travolgere, pronta a superare chi intralcia, preoccupata per le strane sensazioni di scarsa coordinazione che sistematicamente percepisco. Ma, una volta trovata la strada, restiamo solo io e il mio respiro.
L’asfalto bagnato è un’ insidia, così come pure le gocce che picchiettano gli occhiali; per non parlare della fastidiosissima aria che rema contro. Come sto correndo? Non saprei, ma questo è tutto quanto riesco a dare. Intanto, so di essere terza. La sfida, a questo punto, è con la posizione: dovessi lottare con la più violenta delle bufere, non devo lasciarmela sfuggire.
Non mi volto indietro, mai. Un po’ per paura, un po’ per non mostrare segni di cedimento. Non so nemmeno se sto rallentando o mantenendo il ritmo, tanto le indicazioni chilometriche sono tutt’altro che affidabili. Quanto più la fatica si fa sentire, maggiormente invoco i miei mantra: le urla di Antonio e le dune del Sahara, l’incitazione della folla a New York (Go, Vale! Go!) e gli occhioni di Cleopatra.
Jader mi aspetta al traguardo, ha la febbre ma non ha voluto lasciarmi sola. Gli riporto dunque quel sorriso di un’ora e mezzo fa. Certo, fossi arrivata più presto sarebbe stato meglio. Ma ci sarà tempo per rifarsi. Smetterà di piovere, prima o poi!

venerdì 1 febbraio 2008

strade di corsa


Vorrei davvero che qualcuno mi spiegasse perché non sono capace di correre le campestri. È come se non sentissi l’appoggio dei piedi, di conseguenza mi manca la spinta. In due parole: sono ridicola.
Imbottigliata sin dall’inizio, ho guadagnato un po’ di posizioni nell’ultimo giro, ma sono rimasta comunque in coda rispetto a tante che di solito neppure vedo. Non che mi aspettassi chissà quale prestazione, so di non valere nulla quindi nulla potevo ottenere. Speravo però di fare un pochino meglio, non tanto, un pochino solo…
Altro grande mistero: com’è possibile che ci sia chi eccelle su qualsiasi terreno e su ogni distanza? Nemmeno i professionisti arrivano a tanto. Un ottimo maratoneta fa un po’ più di fatica a vincere un cross, e viceversa. Qui, invece, c’è qualche fenomeno che sale sul podio ovunque corra. Invidia? Appena appena. Se almeno tornassi ad ottenere qualche soddisfazione, baderei meno a quelle degli altri.
Quindi: bella carica e piena di grinta. Domenica mi mangio la strada!!!

giovedì 24 gennaio 2008

Cross

Accidenti,
domenica prossima mi tocca fare un cross. Il presidente mi ha scongiurato, gli serve il numero per fare classifica, a prescindere dall’ordine d’arrivo.
Vorrà dire che farò una passeggiata. In fondo saranno solo tre chilometri di vergogna…
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