venerdì 23 maggio 2008

Trent'anni di sudore e solidarietà

Correre N. 283 - Maggio 2008

“Correre è stato il mio mestiere
non mi ha dato da vivere
ma mi ha fatto vivere”
Si apre con questo pensiero il volume Sudore e nafta (Ed. Pro Art), con il quale Giovanni Scalambra ha voluto celebrare i suo trent’anni di carriera podistica. Difficile sintetizzare in un libro una vita dedicata alla corsa, specie quando si sono solcati più o meno novantamila chilometri, attraversando nazioni e continenti, per diffondere messaggi di pace e fratellanza.
“La corsa, per me, non è mai stata fine a se stessa. Ho sempre cercato di abbracciare piccole battaglie per la solidarietà. Come l’impresa anti Parigi-Dakar, nell’88, quando cercammo di seguire, correndo, il tracciato della rumorosa gara motociclistica. Non riuscimmo però a completarla, fu un azzardo che non oserei ripetere. Non ci si può misurare col deserto, simili luoghi richiedono attenzione e rispetto. Così pure le loro popolazioni, come i Tuareg. Incontrarli fu un’emozione indescrivibile: bellissimi, ricchi di umiltà e dignità. Non domandavano nulla, eravamo noi a sentirci in debito nei loro confronti. Un altro mondo, se paragonato alla corruzione che abbiamo conosciuto nelle città del Mali, dove dovevamo comprare al mercato nero anche la nafta”.
Nafta, appunto. Come mai questo titolo?
Sorride. “Accattivante, no? In quelle parole c’è tutto. Anche perché sono molto olfattivo. Il sudore, ovvio, nella corsa è sempre presente, è l’odore che impregna le gare: non è un buon profumo, ma è pur sempre calore umano. La nafta, poi, purtroppo è ormai ovunque, infesta abiti e pelle. Il suo puzzo me lo sentivo addosso durante i nostri viaggi, tra camper e camion.”
Viaggi, dunque. Dal 1988 al 1999, insieme ad un gruppo di piacentini, ogni anno una nuova esperienza affrontata con un misto di impegno e curiosità.
“Il tutto filtrato attraverso il vecchio grande amore: la corsa. Nel cinquantesimo anniversario della Seconda Guerra Mondiale, per esempio, abbiamo ripetuto il cammino di ritorno dei soldati italiani da Kiev a Piacenza, visitando i campi di sterminio. Poi la staffetta in Albania, quella presso il santuario di Padre Pio, la DoloAlpi : itinerari noti e particolari, sempre con intenti di solidarietà, portando, oltre alla nostra umanità, medicinali e beni di prima necessità.”
C’è però dell’altro, in queste pagine. Da alcuni resoconti di allenamenti svolti e di gare combattute emerge uno spirito fortemente agonistico.
“Certo, la corsa è anche battaglia, ma sempre con ordine e disciplina, senza colpi bassi. È la mia seconda vita, mi ha inflitto grandi fatiche ma anche donato immense soddisfazioni. Come la mia prima maratona, a Budapest, dove infransi subito il muro delle tre ore e mi classificai primo tra gli italiani. Poi la Casaglia – San Luca, una corsa sempre entusiasmante. Per non parlare delle sfide con atlete famose.”
L’odore della pelle, il rumore dei passi, il ritmo del respiro: un coinvolgimento sensuale a tratti persino erotico, nel gesto atletico.
“Il fascino di correre con una donna…Mi piace ricordare momenti di agonismo vissuti accanto ad atlete prestigiose. Alcune mi hanno turbato, sia per la loro eleganza che per i segnali che il loro corpo trasmetteva al mio, messaggi silenziosi eppure intensissimi. Di altre, invece, non ho tracce altrettanto piacevoli, essendomi sembrate fredde, calcolatrici e, devo dirlo, per nulla femminili.”
Un coinvolgimento totale, quello della corsa. Emerge dalle pagine di questo libro e, soprattutto, lo si legge negli occhi e nel volto di Giovanni, aperti e luminosi come lo sono quelli di un uomo innamorato.
“E’ vero. Ho inserito qui anche una lettera d’amore, mai spedita. Mi sono decisamente messo a nudo, ma avevo l’impellente bisogno di esprimere ciò che provo e ho provato”.
Ci auguriamo che la destinataria di questo dolcissimo appello colga il messaggio. E che gli sviluppi possano, magari, riempire le pagine dei prossimi capitoli.

Perchè corriamo

Titolo curioso e invitante: Perché corriamo?
Una domanda che molti di noi si saranno posti, alla quale alcuni sanno rispondere senza esitazione, mentre altri stentano a trovare parole capaci di definire un istinto, un impulso, una passione.
La curiosità aumenta leggendo il breve profilo dell’autore, sulla quarta di copertina del piccolo volume edito da Einaudi: “Roberto Weber (Trieste, 1952) dirige l’istituto di ricerca SWG dove analizza l’opinione pubblica e cerca di prevederne – con alterne fortune – i comportamenti elettorali. E corre.”
Non un campione, dunque, né un allenatore o un tecnico del settore. Roberto Weber è un affermato professionista che ha vissuto, da ragazzo, l’emozione della pista e ha saputo poi ricercare e analizzare le manifestazioni di tale emozione nei gesti degli atleti. Cita grandi nomi: Coe e Ovett, Gebreselassie e Tergat, Arese e Bordin. Ma riporta anche scorci della sua esperienza di giovane promessa del mezzofondo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70.
- Non ero un campione, ma mi piazzavo discretamente. A quel tempo, a Trieste, c’era molta rozzezza nelle tecniche di allenamento. A sedici anni ci tiravano moltissimo, a suon di ripetute, mentre non si conosceva ancora il valore del “lungo”.
C’è un po’ di rimpianto per un sogno spezzato, unito ad un cenno di rancore per la meschinità con la quale, a causa di un banale infortunio, il suo nome fu relegato nella lista nera delle prestazioni deludenti – quindi da cancellare.
- Ora, con la corsa, ho un rapporto episodico. Grazie a questo sport, però, ho acquisito un senso di identità che altrimenti non avrei avuto.
Correre è infatti esperienza del dolore e percezione del limite, sfida dei confini di spazio e tempo e trance agonistica. “È regressione a una condizione primaria ed è al tempo stesso ascesi”.
- Anche se ormai non corro quasi più, seguo le gare tanto che, in occasione dei grandi appuntamenti, si ferma tutto l’ufficio. Al di là del risultato, però, ciò che più mi appassiona del gesto atletico è la sua valenza estetica. Mi affascina la leggerezza e l’armonia dei campioni, il loro incedere apparentemente privo di sforzo: la virtù di celare il dolore nell’eleganza dell’azione.
Certo, difficile incontrare tanta armonia nelle masse che, ogni domenica, si sfidano sui percorsi più disparati. Weber ha assistito alla progressiva crescita del mondo podistico, al suo divenire un fenomeno di massa. È vero che nutre qualche perplessità verso i fanatici di diete, tecnologie e tabelle miracolose. Ma non esita a condividere il senso e la ragione di tanta diffusa partecipazione:
- Sulla linea di partenza si annulla ogni distinzione di sesso, classe o età. Non esiste niente di simile, nessun altro luogo è così nettamente uguale per tutti.
Come se, nelle gare, i podisti ritrovassero quella “giustizia sociale” che manca nella quotidianità. Partire tutti con medesime opportunità ed essere riconosciuti per il proprio merito personale. Questa la risposta sociologica al quesito posto dal titolo. Quanto all’interpretazione del singolo, vale ovviamente l’esperienza personale. Pochi sanno tradurla in parole:
- In tutto ciò che ho letto di e sulla corsa, raramente ho trovato descrizioni efficaci dello stato d’animo del corridore. Del resto, sono convinto che solo chi abbia provato personalmente quelle sensazioni sappia narrarle sapientemente.
Roberto Weber ci offre un’infinità di spunti di approfondimento e di riflessione. Senza però negare al contesto della corsa quel pizzico di irrazionalità che caratterizza, del resto, tutte le passioni.

Correre n. 283 - maggio 2008
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