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domenica 3 giugno 2018

Diario di un calcagno - Un mese


Il rientro al lavoro, la ripresa dei ritmi consueti, la gestione delle attività (sportive e casalinghe): ecco le ragioni della mia latitanza su questo diario. Aggiungo, il timore di finire col parlarmi addosso, di risultare ripetitiva, di dire sempre le stesse cose. Che questo piede non ne vuole sapere di “fare giudizio”, che chissà se mi riavvicinerò mai più ad una corsa, che le mie elucubrazioni tendono costantemente al catastrofismo.

Un mese fa ero appena uscita dall’ospedale, stanca e indolenzita. L’unico desiderio era dormire: per non pensare, per rigenerarmi, per svegliarmi con un giorno di convalescenza in meno. Un mese. È molto o poco? Come dovrei sentirmi, stando al protocollo? Non oso approfondire la questione, preferisco affrontare il mio parere – sempre troppo influenzato dall’interpretazione di ogni segnale: l’aspetto delle ferite, le sfumature del dolore, le parole di chi mi assiste. Devi ascoltarlo di meno, quel piede. Sapessi come lo vorrei! Dimenticarmi della sua esistenza, considerarlo alla stregua del naso, dell’orecchio, delle dita della mano. Sembra facile. Perché come si fa a non pensarci e a prendersene cura allo stesso tempo? Dovrò pure volergli bene, trattarlo con i guanti, coccolarlo a dovere. Idromassaggio quotidiano, scarpe comode, passi misurati. Arrivo persino a portarlo in piscina. Ebbene sì, ho ceduto. Per non lasciare nulla di intentato, ché non mi si accusi di avere boicottato l’iter verso la completa guarigione. Un martedì pomeriggio, a pochi chilometri da casa, approfittando della compagnia di un’amica che là è di casa. Esagero: sottoscrivo un abbonamento di dieci entrate. Subito, senza nemmeno provare, determinata come un pompiere. Se riabilitazione deve essere, che lo sia fino in fondo. Mi butto in acqua e, con sorpresa, non avverto alcun brivido. Vuoi vedere che questa vasca è davvero tiepida come mi avevano detto? Inizio a calciare avanti e indietro, come mi è stato insegnato. Qualche minuto, poi parto. Si sta proprio bene, la sensazione è oltremodo piacevole. Che sia per questo, o forse per il mio ritmo lento, fatto sta che non provo fatica, né sento la necessità di riposarmi tra una vasca e l’altra. Decido di arrivare a dieci, per rimettermi a calciare. Poi altre dieci, e ancora calci. Ancora due serie, e per oggi sono a posto. Facciamo due vasche di gambe? Ma sì, divertiamoci a sfidarci, fianco a fianco, spingendo a più non posso. Torno a casa contenta, oltre le più rosee prospettive. Ho realizzato qualcosa di utile, per il fisico e per lo spirito.

Poi succede che gli eventi si accaniscano ancora una volta contro di noi, mai una volta che si spezzi il ciclo: se conquistiamo una gioia, immediatamente dopo subiamo uno smacco. Prima lo scooter, ora l’auto: progetti che vanno a puttane, soldi che non bastano mai. E poi ti dicono che devi mantenerti positivo, che la sfiga non esiste… Come no! Sforziamoci pure per non abbatterci, per aggrapparci al poco di buono che ci accompagna, ma che stanchezza.

In tutto questo, il calcagno cosa dice? Giunta l’ora della seduta fisioterapica, devo esprimere un opinione. Da alcuni giorni, un po’ meglio. Per l’esattezza, quasi bene ieri e l’altro ieri, oggi invece si è risvegliato. Cammino meglio, è vero, quasi normalmente. Il trattamento è dapprima doloroso, per poi volgersi in gradevole. Ci aggiorniamo la prossima settimana. Ma domani ci vediamo: altro luogo e altro contesto. Lui corre, Jader fotografa, io… Peso morto, ma di restarmene a casa da sola, la sera del 2 giugno, non mi va proprio.
Quindi, dopo la mattina trascorsa in piscina (50 vasche in tutto), il pomeriggio arriva veloce e siamo tutti insieme sul furgone diretto a Reggio Emilia. I famosi ponti di Calatrava, l’idea di questa gara non mi aveva mai sfiorata, orario per me devastante, perciò mi tocca il giusto parteciparvi esclusivamente come spettatrice. Qualche faccia conosciuta, convenevoli il minimo indispensabile, temo solo di camminare più di quanto dovrei, vanificando i progressi sin qui conseguiti. Ma la serata trascorre allegra, Jader sprizza entusiasmo. Peccato che io sia sempre troppo abbottonata, che non riesca a scrollarmi di dosso titubanze e preoccupazioni. Non vorrei aver rovinato l’atmosfera: non vorrei essere la causa di futuri mancati appuntamenti. Dormiamoci su, che domani è domenica e la bici mi aspetta.

91 km, con un discreto vento. Fatica il giusto, ma una volta ferma la testa comincia a girare. Che sia a causa del semi digiuno di ieri? Buttiamo giù qualcosa e passiamo oltre. Ciò che conta è che il piede non abbia risposto negativamente agli “stravizi” del sabato. Ciò che conta è che mi sia convinta: sto guarendo.



sabato 26 maggio 2018

Diario di un calcagno - Giorni 22-23


Che spettacolo, Chris! Non avrei mai creduto, lo vedevo già spacciato, sconfitto dalle tensioni, da avversari feroci, da una forma mancata. È risaputo: le strategie sono una materia a me sconosciuta, così com’è lontana dalla mia mentalità la convinzione nelle possibilità di rinascita. Che mi sia di insegnamento: che sia per me uno sprone. In questo giro mi sono riconosciuta (con le dovute proporzioni) in Yeats: la vittoria in tasca, perduta per una crisi devastante, capace di affondarti irrimediabilmente. Il mio astro deve invece essere Froome. Atleta di un altro pianeta, certo, ma la sua caduta e la sua risalita in queste tre settimane sono qualcosa di incommensurabile: questo è l’esempio a cui devo aggrapparmi. Che sarà pure un luogo comune, ma le emozioni che ho provato nell’assistere ad un magnifico riscatto devono restare nelle mie fibre, e caricarmi ogni qualvolta le mie batterie siano in esaurimento. Dimenticarmi di questo piede, solo così può funzionare. Lasciare che sia chi sa come trattarlo ad occuparsene. Me lo manopola, lo massaggia, lo malmena quasi: a momenti è una guduria, in altri c’è da stringere i denti. Quando ti rimetti in piedi non capisci se stai meglio o peggio di prima. In un primo momento ti senti leggerissima, quasi nuova. Poco dopo il lavorio subito si fa sentire, ti senti indolenzita, ti assalgono mille dubbi. Sarà servito a qualcosa? Produrrà gli effetti sperati? E se avesse aggravato la situazione? No, questo no, ma… Per quanto tempo ancora? Quante sedute dovrò sopportare? Quando sarò licenziata? E con quale risoluzione? Vai e corri! Oppure, Mi spiace, non so più cosa fare?

Non si era detto “non devi pensarci”? Allora godiamoci il Giro. Cyclette davanti alla TV, tappa decisiva. Siamo ormai agli sgoccioli, ma ancora non ho visto nulla di eclatante. Dove sono le salite combattute, le discese spericolate, le sgomitate alla morte? Imposto un programma di saliscendi, impegnativo quanto basta, e pedalo in attesa che succeda qualcosa. Ecco finalmente il tratto tanto atteso, ed ecco che il mio uomo stacca tutti e se ne va. Pazzo! Mancano più di 80 km all’arrivo, non può farcela. Lui prosegue con la sua frullata, io finisco la mia pedalata. Doccia veloce, che la tappa è ancora lunga. Ho tempo a sufficienza per svolgere la mia routine di fitball. E Froome prosegue imperterrito, apparentemente irraggiungibile. Quando conquisto il divano, assisto al più emozionante degli arrivi, temendo fino al traguardo che tutta quella fatica possa essere vanificata, contemplando incredula una vittoria sulla quale non avrei scommesso un centesimo.
Gli ultimi chilometri sono sempre i più sofferti. Oggi li ho vissuti quasi in apnea. E quando, intervistato, ha lasciato trasparire la sua commozione e i suoi occhi lucidi, stavo per piangere anch’io. Sarà pure drogato, come tutti i ciclisti, ma per me resta straordinario: per il suo fisico scheletrico, per il suo stile sgraziato, per la sua potenza sovrumana. Per il suo english style e il suo italiano fluente.


Sull’onda di questo trionfo, dovrei allacciarmi il casco e cavalcare la bici. Mi manca invece la spinta. So che, rinunciando, darò sfogo ad ogni sorta di senso di colpa. Ma proprio non ce la faccio. È così grave se oggi mi prendo un giorno di riposo? Lo so, è sabato, il giorno ideale per andare a zonzo senza troppo traffico. Poi, ricorda che dalla prossima settimana sarà più complicato trovare tempi e spazi per allenarsi. Eppure, niente da fare. Dopo una mattinata alla ricerca di un paio di scarpe comode per il tran tran quotidiano, e un pomeriggio ozioso, sono esageratamente fiacca. Ci rinuncio. Metto i piedi a mollo e rimando a domani. Mi sono già pentita. Ma ormai è troppo tardi.

mercoledì 23 maggio 2018

Diario di un calcagno - Giorno 21


Zitti zitti, che il silenzio è d’oro. Sembra che oggi il calcagno abbia poco da dire, vediamo di non svegliarlo. Devi dimenticarti di averlo, è l’imperativo. Non lo dico a nessuno, ma oggi avverto timidi segnali di miglioramento. C’è solo quello strano fastidio sotto al tallone, come se camminassi con una piega nella calza o nella suola della scarpa. Me lo trascino da quando sono uscita dall’ospedale, e lo attribuivo alla benda corposa. Invece è ancora lì. Insomma, impossibile che io sia esente da qualche singolarità: devo pur sempre distinguermi.

Persino il mio scooter, poverino, è pieno di acciacchi. Fortunatamente adesso è in mani competenti, ma saperlo così malridotto mi fa provare pena. Che almeno riesca a riportarlo a casa senza svenarmi.

 Per distrarre la mente dai malanni (umani e non), sfido il meteo minaccioso e inforco la bici. Confesso che, senza lo sprone di Jader, mi sarei sparata l’ennesima seduta di cyclette – io e Philip Roth, oggi più che mai vicino al mio cuore. Ma anche l’uomo necessita di svagare corpo e spirito. Andiamo, se no ce ne pentiremo. Andiamo pure, ma quelle nubi?... Avvolgono ogni lato del cielo, coltri di grigio declinato in varie sfumature su ogni versante. Difficile individuare la direzione più favorevole. Nemmeno il vento spira in un senso ben definito. Cerchiamo di non allontanarci troppo – anche perché per Jader è la seconda uscita della stagione, ha quindi poca autonomia. Infatti lo perdo subito. Serve a poco ripetergli ogni volta di frenarmi qualora mi staccassi troppo. Niente. Devo continuamente voltarmi indietro per verificare la sua presenza. E mi tocca pure rallentare quando, da una strada laterale, spunta un attempato ciclista davanti a me. Non voglio avvicinarmi troppo, guai a fargli credere che mi sia messa in scia, però che scocciatura. Il furbo evidentemente ha notato la mia presenza, comincia a toccarsi una gamba e quasi si ferma: sono costretta a superarlo. E lui cosa fa? Si attacca e, dopo poche centinaia di metri, mi sorpassa a tutta velocità – per piantarsi di lì a poco, prima di immettersi nel cortile di un edificio. Quando ci si mettono, gli uomini sanno rendersi esageratamente ridicoli. Qualche goccia di pioggia ci sorprende, due appena. Arriviamo a casa indenni – Jader giurando che non toccherà più la bicicletta, ma questa è un’altra storia. Io ho pedalato piano piano, ma mi è servito per rilassarmi: soprattutto, per non pensare al mio piede. È così che devo agire, no?

Adesso però lo coccolo un po’, lo trastullo nell’acqua con le bollicine. Deve fare il bravo, così facciamo contenti tutti.

domenica 20 maggio 2018

Diario di un calcagno - Giorno 18


L’aria è ancora pungente, mi devo coprire bene: buffer attorno al collo, manicotti e guanti. Guardatemi pure male, ma sotto i venti gradi per me è pieno inverno. Ciò nonostante, oggi ne ho proprio voglia. Dico davvero. Ho voglia di uscire in bici. O forse ho voglia di uscire e basta. Muovermi all’aria aperta. Non come piace a me, ma come mi è consentito. Mi farà bene: farà bene alle mie gambe, al mio cuore e al mio spirito. Sono carica. Questo è solo l’inizio: da qui prende via il cammino verso la ripresa totale. Staccare i pedali e poggiare i piedi a terra, è un attimo. E quando verrà il momento, sarò pronta. Mi scatto una foto. Raramente lo faccio, ma ora ho bisogno di comunicare la mia determinazione: immortalo un sorriso e lo invio al mondo. È un’immagine rara, da fissare nella memoria – è a me che lo dico: sono io quella che deve riflettere nello specchio una figura vincente.

Fatico più di quanto immaginassi, il risultato di venti giorni di stop. È una tappa a cronometro: devo rientrare entro le 10, perciò non posso allontanarmi troppo. 57 km in 2h12’, un assaggio. Non paga, mi butto a terra per l’immancabile seduta di esercizi. Così si avvicina mezzogiorno, e comincio a chiedermi quanto manchi al ritorno di Jader. Quando annunciò che era stato ingaggiato come fotografo per la Strabologna, dissi che sarei andata con lui a correrla: non per la manifestazione in sé, che ho sempre accuratamente evitato, ma perché poteva fungere da trampolino di lancio per il rientro nel mondo podistico. In base ai pronostici, in maggio avrei dovuto possedere ampiamente le mie facoltà motorie. Rimandata a quando?

Froome oggi mi delude. Peccato, ieri mi ero illusa. Vacillano anche le mie certezze. Sto camminando poco o nulla, ma non noto nessun miglioramento. Fa sempre male. Troppo. Provo a non pensarci, a non buttarmi giù. Ma se mi viene chiesto, sono costretta a rispondere – e a fare i conti con quella risposta.
Ho ancora i medicamenti e il taping. Il chirurgo, martedì scorso, disse di iniziare a fare bagni caldi di lì a tre/quattro giorni, ma mercoledì mi è stato applicato il cerotto elastico (che copre i cerotti sottostanti), e non ho voluto danneggiarlo con l’acqua. A questo punto, sono combattuta: pediluvio sì o no? Il dubbio non è dettato tanto dalla preoccupazione per il taping, che ormai ha fatto il suo tempo: ciò che temo è vedere cosa c’è lì sotto. Insomma, ho il terrore di scoprire un’orribile ferita, di ritrovare lo stesso bubbone della precedente operazione – se non peggio. Codarda. Se non è oggi, dovrò affrontare il mio piede domani. A che pro rimandare? Faccio più danni a togliere tutto o a lasciare ancora un po’ coperto? Non so decidermi.

sabato 19 maggio 2018

Diario di un calcagno - Giorno 17


Serata trascorsa in compagnia di Philip Roth, fino all’ora di andare a letto. Mi sveglia il rientro di Jader, fatico un po’ a riaddormentarmi, nonostante provi a cullarmi con rosei pensieri. Mi ha sempre affascinato l’andamento della perdita di coscienza: quel momento in cui ti rendi conto che la tua mente sta divagando, percepisci l’assurdità dei tuoi ragionamenti e capisci che sei in procinto di addormentarti. Terrificante è quella scossa che ti riporta brutalmente alla realtà, come se la tua coscienza rifiutasse di assopirsi e lottasse per mantenerti in uno stato vigile. Niente di grave se si tratta di un episodio sporadico, angosciante se si protrae per tutta la notte, per diverse notti di seguito. Non voglio pensarci,quel periodo non deve tornare.

La crisi si affronta e si supera, quali che siano le avversità. Mi sto impegnando, e giorno dopo giorno acquisisco un pizzico di fiducia in più. Importante: sento di non essere sola. Questo mi inonda di gratitudine e di responsabilità: guarirò per me stessa e per chi crede che possa farcela. Dimostrerò che ho ancora qualcosa da dire – e da fare.

A proposito di “fare”: oggi mezz’ora in più sulla cyclette (i primi 60 minuti tranquilli, poi variazioni di 1 e 2 minuti), poi solita oretta di core. Quindi, concentrata sul Giro: finalmente una soddisfazione. Visto? Anche Froome mi dice che dopo una caduta si può ancora vincere. D’accordo, il confronto è spietato, ma a qualcosa bisogna pure aggrapparsi.



mercoledì 9 maggio 2018

Diario di un calcagno - Giorno 7


Una settimana fa mi trovavo in una stanza d’ospedale, a letto, con un piede avvolto da una benda insanguinata, appoggiato su una borsa del ghiaccio. Al braccio un flebo che sembrava non esaurirsi mai: appositamente tarata per gocciolare lentissimamente, contribuiva ad alimentare la mia ansia. Con questo ritmo non finirà entro domani, vuoi vedere che non mi lasceranno uscire per questo? Le TV a tutto volume, il letto scomodo, le voci fuori e dentro di me…

Dopo sette giorni, non so pronunciarmi sulla mia condizione. Certo che fa male, non dovrebbe? Cammino, sì, il più è partire: i primi passi sono decisamente critici, poi si trova una sorta di assestamento – per quanto molto precario. Vorrei muovermi di più, ma sarà il caso? Il chirurgo mi ha detto di camminare, ma non ha quantificato: da una stanza all’altra, attorno a casa, per strada? Con questo piedone, poi! Comincio a non sopportare più la fasciatura, così ingombrante e, a mio avviso, scarsamente anatomica. È fastidiosa sotto il tallone, mi chiedo se possa essere una causa del disturbo che avverto quando mi piego con la gamba tesa: sento “tirare”, difficile specificare come e cosa. Rabbrividisco al pensiero di che cosa si annidi lì sotto. Lo scoprirò tra una settimana. Attendo quel giorno con trepidazione: paura e speranza, prima l’una poi l’altra; più insidiosa la prima, più luminosa la seconda. Ho voglia di parole rassicuranti, parole che siano ferme e determinate, capaci di scavarmi dentro. Sono stanca di vacillare, mi serve forza ed equilibrio. Dovrei trovarli innanzitutto in me stessa, ma è noto quanto siano labili le mie certezze.

La toccata e fuga da Decathlon è stata benefica. Ho evitato accuratamente il reparto running, mentre mi sono soffermata tra gli articoli da bici. Speravo in qualche bazza, niente da fare. Mi provo la maglia meno costosa e comprendo la ragione di quel prezzo, non vale la spesa – mi sono già fatta fregare dai pantaloncini, che mi toccherà indossare mio malgrado (ne ho acquistati due paia, purtroppo senza provarli prima: prima una taglia S, che va bene a Jader, poi una XS, che sembra identica all’altra – cioè ci ballo dentro). Che almeno la “frazione” ciclistica sia di breve durata…



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