Correre n. 306 - Aprile 2010
Parma, 12 settembre 2004. I più assidui frequentatori della community di Podisti.net hanno colto l’occasione della Cariparma Marathon per (ri)conoscersi: finalmente potranno assegnare un volto a nomi e soprannomi confrontatisi finora solo virtualmente. Molti correranno la maratona, io mi misurerò sulla mezza, altri si fermeranno a 10km. Francesco, invece, non è in tenuta da running: è passato solo per un saluto. Come saprò in seguito, da un po’ non è in gran forma: avverte un’insolita stanchezza, di tanto in tanto riscontra difficoltà nei movimenti, e nota svariati sintomi indecifrabili.
Nel tempo gli appuntamenti sul web si fanno via via più radi, il gruppo si frastaglia e gli incontri diventano prevalentemente casuali. Non ho più saputo nulla di Francesco. Fino a pochi mesi fa, quando, scorrendo sul sito tramite il quale l’avevo conosciuto, leggo: “Francesco Canali ha un sogno: correre a New York spinto da 4 amici per combattere la SLA”. L’onda di ricordi che segue la scossa gelida mi porta a riallacciare quei contatti ormai lontani.
Eccolo dunque davanti a me, Francesco, sorridente e radioso come solo una persona dotata di vitalità straordinaria può mostrarsi. Non c’è traccia di sofferenza sul suo volto, né toni di abbattimento nella sua voce: affronta il dramma con leggerezza e dignità, e riferisce il suo calvario con l’orgoglio di chi, anche nel baratro, non si lascia sfuggire nessuna opportunità.
Quando mi diagnosticarono la malattia, nell’aprile del 2005, restai per un giorno e mezzo a fissare il muro della mia camera. Avevo due opzioni: aprire la finestra e buttarmi sotto, oppure reagire.
Francesco ha cesellato la reazione al male giorno dopo giorno, nei lunghi anni scanditi da visite, analisi e controanalisi senza esito. Anni durante i quali si documenta, acquisendo consapevolezza della sua sorte. Eppure, impegna ogni forza per non rinunciare a ciò che più lo entusiasma.
Dopo 25 anni di basket- racconta - decisi di dedicarmi alla corsa. Come tutti, iniziai con pochi chilometri. Poi mi appassionai, aumentai le distanze e mi posi degli obiettivi. Ma già nel 2001 colsi i primi segnali: mi stancavo troppo presto, non era da me. Riuscii comunque a portare a termine due mezze maratone: la prima nel 2003, proprio a Parma. Altre due l’anno successivo, e già in testa avevo il sogno di tanti podisti: New York. Ma il progredire della malattia soffocò le mie ambizioni. Gli ultimi passi di corsa li ho mossi nel 2005, in febbraio: 6 km terminati in condizioni pietose.
Nonostante tutto, Francesco non demorde. Una vita nello sport gli ha donato tenacia e determinazione.
Non sono uno che si arrende, non lo sono mai stato. La partita si combatte fino alla fine, guai darsi per vinti. Ho bluffato finché ho potuto, per non gravare sui miei cari. Ora sono forte anche per merito loro. Paradossalmente, grazie a questa malattia ho ricevuto dimostrazioni di affetto e solidarietà che diversamente non avrei conosciuto.
Come replicare? Un uomo su una sedia a rotelle ringrazia un destino infausto per le nuove opportunità che esso gli ha offerto. Quando si dice: voglia di vivere. Voglia di mettersi ancora in gioco e sostenere altre sfide. E New York torna a profilarsi all’orizzonte.
L’ho lanciata come battuta, ad un amico: perché non ti alleni per spingermi alla maratona di New York? Beh, mi ha preso sul serio!
Il progetto diviene dunque ufficiale, con il patrocinio dell’AISLA (Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica), il sostegno di diversi enti e associazioni e, soprattutto, il coinvolgimento di quattro amici: Gianfranco Beltrami, Andrea Fanfoni, Gianluca Manghi e Claudio Rinaldi. Da sempre uniti dalla passione per la corsa, ora pronti ad affrontare una nuova avventura, non certo fine a se stessa.
Voglio lanciare un messaggio di speranza ai tanti malati e, soprattutto, sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni affinché incrementino la ricerca su questa malattia, ancora troppo oscura.
Non fosse perché lo vedi su una sedia a rotelle, non si direbbe mai che Francesco sia malato: ciò che trasmette è energia pura, frizzante, briosa. Unica.
Per sostenere il progetto: AISLA ONLUS - MARATONA NEW YORK 2010c/c 57369480 iban IT43N0623012708000057369480, info su www.vincilasla.it
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lunedì 29 marzo 2010
mercoledì 31 dicembre 2008
VISIONE NELL’OMBRA
Correre n. 291 - Gennaio 2009
La sveglia segnava le 5,30. Era dunque passato solo un quarto d’ora dall’ultima volta che l’aveva guardata. Ed era forse la decima, da quando si era coricato, che controllava quanto mancasse al farsi del giorno. Il gran giorno: quello atteso da mesi, da mesi sospirato e paventato. Mesi consumati sui libri, affogato da nozioni e citazioni, in una accesa disfida tra intelletto e memoria.
Stanco di rigirarsi nel letto, Luca si avvicinò alla finestra, attratto dai bagliori dell’alba che avanzava timidamente, stemperando l’oscurità. Il suo sguardo si posò su una figura che fendeva il chiarore, una sagoma femminile che incedeva rapidamente sul sentiero del parco cittadino: una ragazza che correva. Folle! Solo un pazzo può pensare di correre ad un simile orario.
Rimase alcuni istanti basito, in contemplazione di quell’immagine tanto assurda ai suoi occhi, per poi tornare ai pensieri che avevano reso insonne la notte appena trascorsa.
Ansia e palpitazioni, sguardi che scrutano e voce che trema. Poi, finalmente, la liberazione. Ricca e corposa come un trenta e lode.
Felice e spossato, Luca si lasciò cadere sul letto ormai privo delle spine che l’avevano tormentato solo poche ore prima. Chiuse gli occhi e si abbandonò ai fotogrammi della giornata che scorrevano veloci e confusi nello schermo della sua mente. E rivide quella bizzarra fanciulla che correva nella penombra. In fondo, con lei aveva iniziato la giornata, lei era stata la prima impressione del mattino, la scossa che aveva rinvigorito i suoi sensi storditi da troppa agitazione. Insolito e curioso, quell’incontro gli aveva portato fortuna.
L’esame superato brillantemente non fu sufficiente a placare le ansie di Luca. Ne aveva ancora due da sostenere entro il mese successivo, senza contare la tesi da concordare quindi tutti i colloqui con professori e relative segreterie. Insomma, niente sogni d’oro per chissà quanto tempo. Al contrario, era come se il suo orologio interno avesse incorporato una sveglia che squillava ogni mattina verso le cinque. Non provava nemmeno a riprendere sonno, preferiva ciabattare verso la finestra alla ricerca di una sferzata di energia.
Eccola! Non aveva mancato neppure un mattino. Quel passo agile e scattante non temeva il clima rigido e nemmeno la pioggia. Trovarla ogni giorno, al suo risveglio, rappresentava per Luca una garanzia. Aprire gli occhi sulla “folle” che correva al freddo e al buio era ormai una necessità: se corre anche oggi, sarà una buona giornata.
L’avanzare dell’inverno e il ridursi delle ore di luce aveva ridimensionato anche la stanza di Luca, ridotta ormai al solo angolo sempre illuminato: quello riservato a sedia, scrivania e lampada - costantemente accesa sui libri. La finestra offriva appena un fugace spiraglio, e di tanto in tanto Luca vi gettava lo sguardo, concedendo un po’ di respiro ai suoi occhi. Gli capitava anche di perdere completamente la concentrazione: si staccava dai tomi, gironzolava un po’ in casa, per finire poi a contemplare il parco. Il vicino col cagnolino era il frequentatore più assiduo dei sentieri alberati. Qualche passante, alcune mamme con bambini a passeggio, raramente qualcuno che correva. Lei no, mai in piena luce. Lei era l’appuntamento dell’alba, a lei era dedicata l’ora dell’oblio, quella in cui ancora indefinita è la distanza tra sogno e realtà, lei era il sorriso del buongiorno. Non poteva più farne a meno. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata.
Il lento scandire di date sempre uguali fu interrotto da una speciale esplosione: lo sfogo gioioso di un altro esame superato. Il suo amuleto aveva funzionato ancora una volta. E funzionò anche nell’ultima prova, con l’ennesimo “trenta” a segnare la parola fine sul suo libretto universitario. Cominciava una nuova stagione, concentrata sulla tesi: ricerche, appunti, pagine scritte e riscritte. Incollato nel suo spicchio di stanza, sotto uno spicchio di luce, accanto ad uno spicchio di cielo. Cielo anch’esso adeguato alla nuova stagione: corrugato e lattiginoso, torbido e imprevedibile. Tipico di quelle giornate crude in cui pare che tutto possa succedere; clima ambiguo, sospeso tra squarci di sole e nubi minacciose. Malinconico e inquieto, l’inverno, con quella atmosfera tra il sospeso e l’ostile. Ora più che mai, la corsa “folle” gli era necessaria. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata.
Fu in una di quelle notti rigide che Luca si svegliò con un’anomala agitazione. Un silenzio insolito, calmo e ovattato, trasmetteva cupi presagi. Cercò risposte rivolgendosi alla finestra, che gli confermò, con pallidi riflessi, i suoi timori. Sul parco giaceva una candida coltre che si andava via via ispessendo, arricchita dai fiocchi che continuavano a cadere placidi ma inesorabili. Come ipnotizzato dalla danza regolare dei fulgidi cristalli, non si rese conto che il “loro” momento ora era ormai passato. Solo quando notò il cane del vicino, scatenato nella rincorsa alle migliaia di farfalline di neve, realizzò che la sua “folle” podista, quella mattina, non aveva calpestato il sentiero. Fu invaso da uno sconforto che non sapeva definire, una sorta di delusione mista a rabbia, mista a tensione, mista a sconcerto. E adesso? Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Già, ma se non corre? Si rese conto, per la prima volta da quando aveva avuto inizio la loro ininterrotta serie di incontri, che di lei non conosceva nulla. Non aveva la benché minima idea di chi fosse quella sorta di folletto, per lui non aveva un nome, né un’età, né una casa. Come non fosse mai esistita. L’aveva forse solo immaginata?
Il mattino seguente si appostò con largo anticipo al solito posto, sperando si fosse trattato di un’assenza sporadica e che tutto avrebbe ripreso regolarmente il suo corso. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Il parco completamente innevato, però, rendeva alquanto flebili le aspettative di Luca. Infatti nessuno, a parte il solito cagnolino, giunse a violare il manto immacolato. Un altro giorno senza di lei, un’altra incognita sulla qualità delle ore a venire.
Indossò giacca e scarponi quindi rovistò in cantina, alla ricerca di qualcosa che assomigliasse ad un badile - suo padre doveva pure avere qualcosa del genere. Se avesse liberato il sentiero dalla neve, magari la ragazza avrebbe ripreso a correre.
Fiero e fiducioso, il giorno successivo attese il suo passaggio, certo che la terribile fatica sostenuta per lei l’avrebbe ripagato. Nulla. Forse per colpa del ghiaccio formatosi nella notte. Sale, occorreva cospargere il sentiero di sale, magari verso il tramonto, prima che si abbassasse troppo la temperatura.
Chi lo vide, quella sera, dovette pensare che fosse un addetto al servizio stradale. Fortunatamente non era tanto conosciuto nella zona, perciò nessuno osò commentare il suo operato. Nessuno tranne una voce, che lo sorprese con tono allegro e squillante: Grazie! Finalmente qualcuno ci ha pensato.
Restò incantato davanti a due occhi che non aveva mai visto, ma che credeva di conoscere da sempre. Due occhi vivaci e curiosi, forse appena arrossati dall’aria pungente, di certo stupiti dalla strana figura immobilizzata al loro cospetto. Rigido come un pupazzo di neve, Luca non riusciva a fare altro che restarsene impalato, col badile in mano, a fissare quella ragazza.
Beh, grazie ancora e buona serata.
Se ne andò così. Con lo sguardo di Luca ad inseguirla. Incredulo. Non sapeva se ridere o piangere. L’aveva finalmente incontrata e non era stato capace di aprire bocca. Un’occasione perduta, e già pensi alla prossima volta, aveva detto qualcuno. Già, ma quale prossima volta?
Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Avrebbe funzionato. Il sentiero era pulito, il sale l’aveva preservato dal ghiaccio, e lei l’aveva ringraziato. Non ci potevano essere dubbi.
Eccola! Mentre avanzava veloce nel parco, gli parve persino di vedere i suoi occhi brillare. L’aveva resa felice, ne era certo. E lei lo ripagava tornando sui suoi passi, mantenendo fede al loro appuntamento, regalandogli finalmente un magnifico risveglio. Non sapeva ancora nulla di lei, ignorava sempre cosa lei avrebbe fatto una volta finito il suo allenamento, come trascorresse il suo tempo, con chi fosse solita cenare, chi le augurasse la buona notte. Ma, in fondo, questi erano solo dettagli. Aveva ripreso a correre, ecco cosa contava. Contava che si fossero ritrovati. Magari un giorno sarebbe sceso anche lui, nel parco, sul fare dell’alba. Magari con le scarpette da corsa, chissà. Chissà, un giorno avrebbe anche lui finito per appassionarsi alla corsa. Un giorno, forse.
La sveglia segnava le 5,30. Era dunque passato solo un quarto d’ora dall’ultima volta che l’aveva guardata. Ed era forse la decima, da quando si era coricato, che controllava quanto mancasse al farsi del giorno. Il gran giorno: quello atteso da mesi, da mesi sospirato e paventato. Mesi consumati sui libri, affogato da nozioni e citazioni, in una accesa disfida tra intelletto e memoria.
Stanco di rigirarsi nel letto, Luca si avvicinò alla finestra, attratto dai bagliori dell’alba che avanzava timidamente, stemperando l’oscurità. Il suo sguardo si posò su una figura che fendeva il chiarore, una sagoma femminile che incedeva rapidamente sul sentiero del parco cittadino: una ragazza che correva. Folle! Solo un pazzo può pensare di correre ad un simile orario.
Rimase alcuni istanti basito, in contemplazione di quell’immagine tanto assurda ai suoi occhi, per poi tornare ai pensieri che avevano reso insonne la notte appena trascorsa.
Ansia e palpitazioni, sguardi che scrutano e voce che trema. Poi, finalmente, la liberazione. Ricca e corposa come un trenta e lode.
Felice e spossato, Luca si lasciò cadere sul letto ormai privo delle spine che l’avevano tormentato solo poche ore prima. Chiuse gli occhi e si abbandonò ai fotogrammi della giornata che scorrevano veloci e confusi nello schermo della sua mente. E rivide quella bizzarra fanciulla che correva nella penombra. In fondo, con lei aveva iniziato la giornata, lei era stata la prima impressione del mattino, la scossa che aveva rinvigorito i suoi sensi storditi da troppa agitazione. Insolito e curioso, quell’incontro gli aveva portato fortuna.
L’esame superato brillantemente non fu sufficiente a placare le ansie di Luca. Ne aveva ancora due da sostenere entro il mese successivo, senza contare la tesi da concordare quindi tutti i colloqui con professori e relative segreterie. Insomma, niente sogni d’oro per chissà quanto tempo. Al contrario, era come se il suo orologio interno avesse incorporato una sveglia che squillava ogni mattina verso le cinque. Non provava nemmeno a riprendere sonno, preferiva ciabattare verso la finestra alla ricerca di una sferzata di energia.
Eccola! Non aveva mancato neppure un mattino. Quel passo agile e scattante non temeva il clima rigido e nemmeno la pioggia. Trovarla ogni giorno, al suo risveglio, rappresentava per Luca una garanzia. Aprire gli occhi sulla “folle” che correva al freddo e al buio era ormai una necessità: se corre anche oggi, sarà una buona giornata.
L’avanzare dell’inverno e il ridursi delle ore di luce aveva ridimensionato anche la stanza di Luca, ridotta ormai al solo angolo sempre illuminato: quello riservato a sedia, scrivania e lampada - costantemente accesa sui libri. La finestra offriva appena un fugace spiraglio, e di tanto in tanto Luca vi gettava lo sguardo, concedendo un po’ di respiro ai suoi occhi. Gli capitava anche di perdere completamente la concentrazione: si staccava dai tomi, gironzolava un po’ in casa, per finire poi a contemplare il parco. Il vicino col cagnolino era il frequentatore più assiduo dei sentieri alberati. Qualche passante, alcune mamme con bambini a passeggio, raramente qualcuno che correva. Lei no, mai in piena luce. Lei era l’appuntamento dell’alba, a lei era dedicata l’ora dell’oblio, quella in cui ancora indefinita è la distanza tra sogno e realtà, lei era il sorriso del buongiorno. Non poteva più farne a meno. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata.
Il lento scandire di date sempre uguali fu interrotto da una speciale esplosione: lo sfogo gioioso di un altro esame superato. Il suo amuleto aveva funzionato ancora una volta. E funzionò anche nell’ultima prova, con l’ennesimo “trenta” a segnare la parola fine sul suo libretto universitario. Cominciava una nuova stagione, concentrata sulla tesi: ricerche, appunti, pagine scritte e riscritte. Incollato nel suo spicchio di stanza, sotto uno spicchio di luce, accanto ad uno spicchio di cielo. Cielo anch’esso adeguato alla nuova stagione: corrugato e lattiginoso, torbido e imprevedibile. Tipico di quelle giornate crude in cui pare che tutto possa succedere; clima ambiguo, sospeso tra squarci di sole e nubi minacciose. Malinconico e inquieto, l’inverno, con quella atmosfera tra il sospeso e l’ostile. Ora più che mai, la corsa “folle” gli era necessaria. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata.
Fu in una di quelle notti rigide che Luca si svegliò con un’anomala agitazione. Un silenzio insolito, calmo e ovattato, trasmetteva cupi presagi. Cercò risposte rivolgendosi alla finestra, che gli confermò, con pallidi riflessi, i suoi timori. Sul parco giaceva una candida coltre che si andava via via ispessendo, arricchita dai fiocchi che continuavano a cadere placidi ma inesorabili. Come ipnotizzato dalla danza regolare dei fulgidi cristalli, non si rese conto che il “loro” momento ora era ormai passato. Solo quando notò il cane del vicino, scatenato nella rincorsa alle migliaia di farfalline di neve, realizzò che la sua “folle” podista, quella mattina, non aveva calpestato il sentiero. Fu invaso da uno sconforto che non sapeva definire, una sorta di delusione mista a rabbia, mista a tensione, mista a sconcerto. E adesso? Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Già, ma se non corre? Si rese conto, per la prima volta da quando aveva avuto inizio la loro ininterrotta serie di incontri, che di lei non conosceva nulla. Non aveva la benché minima idea di chi fosse quella sorta di folletto, per lui non aveva un nome, né un’età, né una casa. Come non fosse mai esistita. L’aveva forse solo immaginata?
Il mattino seguente si appostò con largo anticipo al solito posto, sperando si fosse trattato di un’assenza sporadica e che tutto avrebbe ripreso regolarmente il suo corso. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Il parco completamente innevato, però, rendeva alquanto flebili le aspettative di Luca. Infatti nessuno, a parte il solito cagnolino, giunse a violare il manto immacolato. Un altro giorno senza di lei, un’altra incognita sulla qualità delle ore a venire.
Indossò giacca e scarponi quindi rovistò in cantina, alla ricerca di qualcosa che assomigliasse ad un badile - suo padre doveva pure avere qualcosa del genere. Se avesse liberato il sentiero dalla neve, magari la ragazza avrebbe ripreso a correre.
Fiero e fiducioso, il giorno successivo attese il suo passaggio, certo che la terribile fatica sostenuta per lei l’avrebbe ripagato. Nulla. Forse per colpa del ghiaccio formatosi nella notte. Sale, occorreva cospargere il sentiero di sale, magari verso il tramonto, prima che si abbassasse troppo la temperatura.
Chi lo vide, quella sera, dovette pensare che fosse un addetto al servizio stradale. Fortunatamente non era tanto conosciuto nella zona, perciò nessuno osò commentare il suo operato. Nessuno tranne una voce, che lo sorprese con tono allegro e squillante: Grazie! Finalmente qualcuno ci ha pensato.
Restò incantato davanti a due occhi che non aveva mai visto, ma che credeva di conoscere da sempre. Due occhi vivaci e curiosi, forse appena arrossati dall’aria pungente, di certo stupiti dalla strana figura immobilizzata al loro cospetto. Rigido come un pupazzo di neve, Luca non riusciva a fare altro che restarsene impalato, col badile in mano, a fissare quella ragazza.
Beh, grazie ancora e buona serata.
Se ne andò così. Con lo sguardo di Luca ad inseguirla. Incredulo. Non sapeva se ridere o piangere. L’aveva finalmente incontrata e non era stato capace di aprire bocca. Un’occasione perduta, e già pensi alla prossima volta, aveva detto qualcuno. Già, ma quale prossima volta?
Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Se corre anche oggi, sarà una buona giornata. Avrebbe funzionato. Il sentiero era pulito, il sale l’aveva preservato dal ghiaccio, e lei l’aveva ringraziato. Non ci potevano essere dubbi.
Eccola! Mentre avanzava veloce nel parco, gli parve persino di vedere i suoi occhi brillare. L’aveva resa felice, ne era certo. E lei lo ripagava tornando sui suoi passi, mantenendo fede al loro appuntamento, regalandogli finalmente un magnifico risveglio. Non sapeva ancora nulla di lei, ignorava sempre cosa lei avrebbe fatto una volta finito il suo allenamento, come trascorresse il suo tempo, con chi fosse solita cenare, chi le augurasse la buona notte. Ma, in fondo, questi erano solo dettagli. Aveva ripreso a correre, ecco cosa contava. Contava che si fossero ritrovati. Magari un giorno sarebbe sceso anche lui, nel parco, sul fare dell’alba. Magari con le scarpette da corsa, chissà. Chissà, un giorno avrebbe anche lui finito per appassionarsi alla corsa. Un giorno, forse.
venerdì 23 maggio 2008
Trent'anni di sudore e solidarietà
Correre N. 283 - Maggio 2008
“Correre è stato il mio mestiere
non mi ha dato da vivere
ma mi ha fatto vivere”
Si apre con questo pensiero il volume Sudore e nafta (Ed. Pro Art), con il quale Giovanni Scalambra ha voluto celebrare i suo trent’anni di carriera podistica. Difficile sintetizzare in un libro una vita dedicata alla corsa, specie quando si sono solcati più o meno novantamila chilometri, attraversando nazioni e continenti, per diffondere messaggi di pace e fratellanza.
“La corsa, per me, non è mai stata fine a se stessa. Ho sempre cercato di abbracciare piccole battaglie per la solidarietà. Come l’impresa anti Parigi-Dakar, nell’88, quando cercammo di seguire, correndo, il tracciato della rumorosa gara motociclistica. Non riuscimmo però a completarla, fu un azzardo che non oserei ripetere. Non ci si può misurare col deserto, simili luoghi richiedono attenzione e rispetto. Così pure le loro popolazioni, come i Tuareg. Incontrarli fu un’emozione indescrivibile: bellissimi, ricchi di umiltà e dignità. Non domandavano nulla, eravamo noi a sentirci in debito nei loro confronti. Un altro mondo, se paragonato alla corruzione che abbiamo conosciuto nelle città del Mali, dove dovevamo comprare al mercato nero anche la nafta”.
Nafta, appunto. Come mai questo titolo?
Sorride. “Accattivante, no? In quelle parole c’è tutto. Anche perché sono molto olfattivo. Il sudore, ovvio, nella corsa è sempre presente, è l’odore che impregna le gare: non è un buon profumo, ma è pur sempre calore umano. La nafta, poi, purtroppo è ormai ovunque, infesta abiti e pelle. Il suo puzzo me lo sentivo addosso durante i nostri viaggi, tra camper e camion.”
Viaggi, dunque. Dal 1988 al 1999, insieme ad un gruppo di piacentini, ogni anno una nuova esperienza affrontata con un misto di impegno e curiosità.
“Il tutto filtrato attraverso il vecchio grande amore: la corsa. Nel cinquantesimo anniversario della Seconda Guerra Mondiale, per esempio, abbiamo ripetuto il cammino di ritorno dei soldati italiani da Kiev a Piacenza, visitando i campi di sterminio. Poi la staffetta in Albania, quella presso il santuario di Padre Pio, la DoloAlpi : itinerari noti e particolari, sempre con intenti di solidarietà, portando, oltre alla nostra umanità, medicinali e beni di prima necessità.”
C’è però dell’altro, in queste pagine. Da alcuni resoconti di allenamenti svolti e di gare combattute emerge uno spirito fortemente agonistico.
“Certo, la corsa è anche battaglia, ma sempre con ordine e disciplina, senza colpi bassi. È la mia seconda vita, mi ha inflitto grandi fatiche ma anche donato immense soddisfazioni. Come la mia prima maratona, a Budapest, dove infransi subito il muro delle tre ore e mi classificai primo tra gli italiani. Poi la Casaglia – San Luca, una corsa sempre entusiasmante. Per non parlare delle sfide con atlete famose.”
L’odore della pelle, il rumore dei passi, il ritmo del respiro: un coinvolgimento sensuale a tratti persino erotico, nel gesto atletico.
“Il fascino di correre con una donna…Mi piace ricordare momenti di agonismo vissuti accanto ad atlete prestigiose. Alcune mi hanno turbato, sia per la loro eleganza che per i segnali che il loro corpo trasmetteva al mio, messaggi silenziosi eppure intensissimi. Di altre, invece, non ho tracce altrettanto piacevoli, essendomi sembrate fredde, calcolatrici e, devo dirlo, per nulla femminili.”
Un coinvolgimento totale, quello della corsa. Emerge dalle pagine di questo libro e, soprattutto, lo si legge negli occhi e nel volto di Giovanni, aperti e luminosi come lo sono quelli di un uomo innamorato.
“E’ vero. Ho inserito qui anche una lettera d’amore, mai spedita. Mi sono decisamente messo a nudo, ma avevo l’impellente bisogno di esprimere ciò che provo e ho provato”.
Ci auguriamo che la destinataria di questo dolcissimo appello colga il messaggio. E che gli sviluppi possano, magari, riempire le pagine dei prossimi capitoli.
“Correre è stato il mio mestiere
non mi ha dato da vivere
ma mi ha fatto vivere”
Si apre con questo pensiero il volume Sudore e nafta (Ed. Pro Art), con il quale Giovanni Scalambra ha voluto celebrare i suo trent’anni di carriera podistica. Difficile sintetizzare in un libro una vita dedicata alla corsa, specie quando si sono solcati più o meno novantamila chilometri, attraversando nazioni e continenti, per diffondere messaggi di pace e fratellanza.
“La corsa, per me, non è mai stata fine a se stessa. Ho sempre cercato di abbracciare piccole battaglie per la solidarietà. Come l’impresa anti Parigi-Dakar, nell’88, quando cercammo di seguire, correndo, il tracciato della rumorosa gara motociclistica. Non riuscimmo però a completarla, fu un azzardo che non oserei ripetere. Non ci si può misurare col deserto, simili luoghi richiedono attenzione e rispetto. Così pure le loro popolazioni, come i Tuareg. Incontrarli fu un’emozione indescrivibile: bellissimi, ricchi di umiltà e dignità. Non domandavano nulla, eravamo noi a sentirci in debito nei loro confronti. Un altro mondo, se paragonato alla corruzione che abbiamo conosciuto nelle città del Mali, dove dovevamo comprare al mercato nero anche la nafta”.
Nafta, appunto. Come mai questo titolo?
Sorride. “Accattivante, no? In quelle parole c’è tutto. Anche perché sono molto olfattivo. Il sudore, ovvio, nella corsa è sempre presente, è l’odore che impregna le gare: non è un buon profumo, ma è pur sempre calore umano. La nafta, poi, purtroppo è ormai ovunque, infesta abiti e pelle. Il suo puzzo me lo sentivo addosso durante i nostri viaggi, tra camper e camion.”
Viaggi, dunque. Dal 1988 al 1999, insieme ad un gruppo di piacentini, ogni anno una nuova esperienza affrontata con un misto di impegno e curiosità.
“Il tutto filtrato attraverso il vecchio grande amore: la corsa. Nel cinquantesimo anniversario della Seconda Guerra Mondiale, per esempio, abbiamo ripetuto il cammino di ritorno dei soldati italiani da Kiev a Piacenza, visitando i campi di sterminio. Poi la staffetta in Albania, quella presso il santuario di Padre Pio, la DoloAlpi : itinerari noti e particolari, sempre con intenti di solidarietà, portando, oltre alla nostra umanità, medicinali e beni di prima necessità.”
C’è però dell’altro, in queste pagine. Da alcuni resoconti di allenamenti svolti e di gare combattute emerge uno spirito fortemente agonistico.
“Certo, la corsa è anche battaglia, ma sempre con ordine e disciplina, senza colpi bassi. È la mia seconda vita, mi ha inflitto grandi fatiche ma anche donato immense soddisfazioni. Come la mia prima maratona, a Budapest, dove infransi subito il muro delle tre ore e mi classificai primo tra gli italiani. Poi la Casaglia – San Luca, una corsa sempre entusiasmante. Per non parlare delle sfide con atlete famose.”
L’odore della pelle, il rumore dei passi, il ritmo del respiro: un coinvolgimento sensuale a tratti persino erotico, nel gesto atletico.
“Il fascino di correre con una donna…Mi piace ricordare momenti di agonismo vissuti accanto ad atlete prestigiose. Alcune mi hanno turbato, sia per la loro eleganza che per i segnali che il loro corpo trasmetteva al mio, messaggi silenziosi eppure intensissimi. Di altre, invece, non ho tracce altrettanto piacevoli, essendomi sembrate fredde, calcolatrici e, devo dirlo, per nulla femminili.”
Un coinvolgimento totale, quello della corsa. Emerge dalle pagine di questo libro e, soprattutto, lo si legge negli occhi e nel volto di Giovanni, aperti e luminosi come lo sono quelli di un uomo innamorato.
“E’ vero. Ho inserito qui anche una lettera d’amore, mai spedita. Mi sono decisamente messo a nudo, ma avevo l’impellente bisogno di esprimere ciò che provo e ho provato”.
Ci auguriamo che la destinataria di questo dolcissimo appello colga il messaggio. E che gli sviluppi possano, magari, riempire le pagine dei prossimi capitoli.
Perchè corriamo
Titolo curioso e invitante: Perché corriamo?
Una domanda che molti di noi si saranno posti, alla quale alcuni sanno rispondere senza esitazione, mentre altri stentano a trovare parole capaci di definire un istinto, un impulso, una passione.
La curiosità aumenta leggendo il breve profilo dell’autore, sulla quarta di copertina del piccolo volume edito da Einaudi: “Roberto Weber (Trieste, 1952) dirige l’istituto di ricerca SWG dove analizza l’opinione pubblica e cerca di prevederne – con alterne fortune – i comportamenti elettorali. E corre.”
Non un campione, dunque, né un allenatore o un tecnico del settore. Roberto Weber è un affermato professionista che ha vissuto, da ragazzo, l’emozione della pista e ha saputo poi ricercare e analizzare le manifestazioni di tale emozione nei gesti degli atleti. Cita grandi nomi: Coe e Ovett, Gebreselassie e Tergat, Arese e Bordin. Ma riporta anche scorci della sua esperienza di giovane promessa del mezzofondo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70.
- Non ero un campione, ma mi piazzavo discretamente. A quel tempo, a Trieste, c’era molta rozzezza nelle tecniche di allenamento. A sedici anni ci tiravano moltissimo, a suon di ripetute, mentre non si conosceva ancora il valore del “lungo”.
C’è un po’ di rimpianto per un sogno spezzato, unito ad un cenno di rancore per la meschinità con la quale, a causa di un banale infortunio, il suo nome fu relegato nella lista nera delle prestazioni deludenti – quindi da cancellare.
- Ora, con la corsa, ho un rapporto episodico. Grazie a questo sport, però, ho acquisito un senso di identità che altrimenti non avrei avuto.
Correre è infatti esperienza del dolore e percezione del limite, sfida dei confini di spazio e tempo e trance agonistica. “È regressione a una condizione primaria ed è al tempo stesso ascesi”.
- Anche se ormai non corro quasi più, seguo le gare tanto che, in occasione dei grandi appuntamenti, si ferma tutto l’ufficio. Al di là del risultato, però, ciò che più mi appassiona del gesto atletico è la sua valenza estetica. Mi affascina la leggerezza e l’armonia dei campioni, il loro incedere apparentemente privo di sforzo: la virtù di celare il dolore nell’eleganza dell’azione.
Certo, difficile incontrare tanta armonia nelle masse che, ogni domenica, si sfidano sui percorsi più disparati. Weber ha assistito alla progressiva crescita del mondo podistico, al suo divenire un fenomeno di massa. È vero che nutre qualche perplessità verso i fanatici di diete, tecnologie e tabelle miracolose. Ma non esita a condividere il senso e la ragione di tanta diffusa partecipazione:
- Sulla linea di partenza si annulla ogni distinzione di sesso, classe o età. Non esiste niente di simile, nessun altro luogo è così nettamente uguale per tutti.
Come se, nelle gare, i podisti ritrovassero quella “giustizia sociale” che manca nella quotidianità. Partire tutti con medesime opportunità ed essere riconosciuti per il proprio merito personale. Questa la risposta sociologica al quesito posto dal titolo. Quanto all’interpretazione del singolo, vale ovviamente l’esperienza personale. Pochi sanno tradurla in parole:
- In tutto ciò che ho letto di e sulla corsa, raramente ho trovato descrizioni efficaci dello stato d’animo del corridore. Del resto, sono convinto che solo chi abbia provato personalmente quelle sensazioni sappia narrarle sapientemente.
Roberto Weber ci offre un’infinità di spunti di approfondimento e di riflessione. Senza però negare al contesto della corsa quel pizzico di irrazionalità che caratterizza, del resto, tutte le passioni.
Una domanda che molti di noi si saranno posti, alla quale alcuni sanno rispondere senza esitazione, mentre altri stentano a trovare parole capaci di definire un istinto, un impulso, una passione.
La curiosità aumenta leggendo il breve profilo dell’autore, sulla quarta di copertina del piccolo volume edito da Einaudi: “Roberto Weber (Trieste, 1952) dirige l’istituto di ricerca SWG dove analizza l’opinione pubblica e cerca di prevederne – con alterne fortune – i comportamenti elettorali. E corre.”
Non un campione, dunque, né un allenatore o un tecnico del settore. Roberto Weber è un affermato professionista che ha vissuto, da ragazzo, l’emozione della pista e ha saputo poi ricercare e analizzare le manifestazioni di tale emozione nei gesti degli atleti. Cita grandi nomi: Coe e Ovett, Gebreselassie e Tergat, Arese e Bordin. Ma riporta anche scorci della sua esperienza di giovane promessa del mezzofondo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70.
- Non ero un campione, ma mi piazzavo discretamente. A quel tempo, a Trieste, c’era molta rozzezza nelle tecniche di allenamento. A sedici anni ci tiravano moltissimo, a suon di ripetute, mentre non si conosceva ancora il valore del “lungo”.
C’è un po’ di rimpianto per un sogno spezzato, unito ad un cenno di rancore per la meschinità con la quale, a causa di un banale infortunio, il suo nome fu relegato nella lista nera delle prestazioni deludenti – quindi da cancellare.
- Ora, con la corsa, ho un rapporto episodico. Grazie a questo sport, però, ho acquisito un senso di identità che altrimenti non avrei avuto.
Correre è infatti esperienza del dolore e percezione del limite, sfida dei confini di spazio e tempo e trance agonistica. “È regressione a una condizione primaria ed è al tempo stesso ascesi”.
- Anche se ormai non corro quasi più, seguo le gare tanto che, in occasione dei grandi appuntamenti, si ferma tutto l’ufficio. Al di là del risultato, però, ciò che più mi appassiona del gesto atletico è la sua valenza estetica. Mi affascina la leggerezza e l’armonia dei campioni, il loro incedere apparentemente privo di sforzo: la virtù di celare il dolore nell’eleganza dell’azione.
Certo, difficile incontrare tanta armonia nelle masse che, ogni domenica, si sfidano sui percorsi più disparati. Weber ha assistito alla progressiva crescita del mondo podistico, al suo divenire un fenomeno di massa. È vero che nutre qualche perplessità verso i fanatici di diete, tecnologie e tabelle miracolose. Ma non esita a condividere il senso e la ragione di tanta diffusa partecipazione:
- Sulla linea di partenza si annulla ogni distinzione di sesso, classe o età. Non esiste niente di simile, nessun altro luogo è così nettamente uguale per tutti.
Come se, nelle gare, i podisti ritrovassero quella “giustizia sociale” che manca nella quotidianità. Partire tutti con medesime opportunità ed essere riconosciuti per il proprio merito personale. Questa la risposta sociologica al quesito posto dal titolo. Quanto all’interpretazione del singolo, vale ovviamente l’esperienza personale. Pochi sanno tradurla in parole:
- In tutto ciò che ho letto di e sulla corsa, raramente ho trovato descrizioni efficaci dello stato d’animo del corridore. Del resto, sono convinto che solo chi abbia provato personalmente quelle sensazioni sappia narrarle sapientemente.
Roberto Weber ci offre un’infinità di spunti di approfondimento e di riflessione. Senza però negare al contesto della corsa quel pizzico di irrazionalità che caratterizza, del resto, tutte le passioni.
Correre n. 283 - maggio 2008
lunedì 1 ottobre 2007
"I suoi chilometri senza fine"
N. 276 - OTTOBRE 2007
Passione, amicizia, curiosità: sono questi gli elementi principali della formula che ha trasformato una semplice podista in un’atleta di alto livello.
Passione, ovviamente, per la corsa. Un amore che Roberta Monari, classe 1969, coltiva sin da quando, bambina, cominciò a seguire i passi del fratello Roberto, atleta delle Fiamme Gialle.
Correre senza obiettivi, senza limiti, senza altre ambizioni se non quella di continuare a correre. Piacere puro, spensierato, quasi ingenuo. Perché le gare, i traguardi e i trofei non sono altro che satelliti orbitanti attorno al fulgore di un gesto fatto di passi, respiri e orizzonti – sia fisici che mentali.
Una società sportiva di fiducia – per Roberta, il G.S. Pasta Granarolo - oltre a concedere sostegno e stimoli, offre opportunità di crescita e occasioni per misurarsi, con se stessi e con i compagni. Sempre con animo leggero, perché ciò che conta è appagare con entusiasmo l’istinto naturale della corsa. E quale migliore concentrato di euforia di quello che vivacizza l’atmosfera delle competizioni? Per quanto ognuno sia proiettato verso il proprio personale obiettivo, nonostante chiunque possa essere visto come potenziale avversario, empatia e comprensione avvicinano tutti i concorrenti. Basta poco per intendersi, per solidarizzare, per tessere un legame. Come quello che si è intrecciato tra Roberta e Katia: un’amicizia nata dalla corsa e saldatasi nella vita. Ma non solo. Katia Bianchini ha trasmesso a Roberta preziosi tesori: la sua brillante esperienza nel mondo dell’atletica (dove vanta, tra i tanti riconoscimenti, la vittoria alla Vigarano Marathon del 2005), e la sua forte determinazione. Grande amica e valida allenatrice, dunque. E i risultati possono ritenersi davvero sorprendenti.
Forse la più sorpresa è proprio Roberta, che per anni aveva corso senza la consapevolezza di quanto ampio potesse essere il suo margine di miglioramento. Con un più razionale metodo di allenamento e un più maturo approccio alle gare, le sfide si sono fatte ulteriormente allettanti. Sfida anche con se stessa, perché ora Roberta è curiosa di scoprire fino a dove potrà arrivare.
Con il secondo posto conquistato nell’ultima edizione della 100 km del Passatore (in 8h58’), ha automaticamente guadagnato anche la maglia azzurra, da indossare ai Campionati Mondiali della medesima distanza.
- Ho sempre avuto una predilezione per le lunghe distanze. Di “Passatore” ne ho già corsi sei, partendo sempre con un’ amica, che regolarmente staccavo dopo Marradi.
Sorride emozionata, ancora incredula dei successi che fioccano e delle attenzioni che la stanno abbracciando. Abbiamo deciso di incontrarla nel luogo che, a Bologna, funge da quartier generale per gli appassionati di ultramaratone: il negozio di Vito Melito, grande campione e generoso divulgatore di consigli e suggerimenti. E quale occasione più ghiotta per esprimersi al meglio, avendo davanti a sé un nuovo talento e la sua preparatrice? Mentre Katia e Vito si confrontano su tecniche e metodologie, cerchiamo di carpire da Roberta qualche segreto.
- Nessun segreto. Mi piace correre, ed è ciò che faccio da sempre. I recenti successi li devo soprattutto a Katia, che mi chiese di preparare insieme a lei la maratona di Ferrara del 2005: lei vinse e io arrivai terza. Da lì in poi, fu tutto un crescendo: dal 2h59’ all’ultima maratona di Firenze ai 73,320 km nella Sei ore di Seregno, fino al Passatore…
Verrebbe da pensare che simili risultati siano il frutto di allenamenti massacranti, di intere giornate trascorse a macinare chilometri, invece:
- Sono caporeparto in un’azienda metalmeccanica, mi alzo tutte le mattine all’alba per andare al lavoro e posso dedicarmi alla corsa solo verso sera. Non è che resti molto spazio per fare altro, ma io sono un tipo tranquillo e correre mi appaga a sufficienza.
Nessun’altra passione, dunque?
- Beh, confesso di avere un debole per i tatuaggi. Il decimo, fatto insieme a Katia, è dedicato ai Campionati Mondiali della 100 km.
Non chiediamo cosa rappresenti, senz’altro Roberta starà già pensando al prossimo.
Passione, amicizia, curiosità: sono questi gli elementi principali della formula che ha trasformato una semplice podista in un’atleta di alto livello.
Passione, ovviamente, per la corsa. Un amore che Roberta Monari, classe 1969, coltiva sin da quando, bambina, cominciò a seguire i passi del fratello Roberto, atleta delle Fiamme Gialle.
Correre senza obiettivi, senza limiti, senza altre ambizioni se non quella di continuare a correre. Piacere puro, spensierato, quasi ingenuo. Perché le gare, i traguardi e i trofei non sono altro che satelliti orbitanti attorno al fulgore di un gesto fatto di passi, respiri e orizzonti – sia fisici che mentali.
Una società sportiva di fiducia – per Roberta, il G.S. Pasta Granarolo - oltre a concedere sostegno e stimoli, offre opportunità di crescita e occasioni per misurarsi, con se stessi e con i compagni. Sempre con animo leggero, perché ciò che conta è appagare con entusiasmo l’istinto naturale della corsa. E quale migliore concentrato di euforia di quello che vivacizza l’atmosfera delle competizioni? Per quanto ognuno sia proiettato verso il proprio personale obiettivo, nonostante chiunque possa essere visto come potenziale avversario, empatia e comprensione avvicinano tutti i concorrenti. Basta poco per intendersi, per solidarizzare, per tessere un legame. Come quello che si è intrecciato tra Roberta e Katia: un’amicizia nata dalla corsa e saldatasi nella vita. Ma non solo. Katia Bianchini ha trasmesso a Roberta preziosi tesori: la sua brillante esperienza nel mondo dell’atletica (dove vanta, tra i tanti riconoscimenti, la vittoria alla Vigarano Marathon del 2005), e la sua forte determinazione. Grande amica e valida allenatrice, dunque. E i risultati possono ritenersi davvero sorprendenti.
Forse la più sorpresa è proprio Roberta, che per anni aveva corso senza la consapevolezza di quanto ampio potesse essere il suo margine di miglioramento. Con un più razionale metodo di allenamento e un più maturo approccio alle gare, le sfide si sono fatte ulteriormente allettanti. Sfida anche con se stessa, perché ora Roberta è curiosa di scoprire fino a dove potrà arrivare.
Con il secondo posto conquistato nell’ultima edizione della 100 km del Passatore (in 8h58’), ha automaticamente guadagnato anche la maglia azzurra, da indossare ai Campionati Mondiali della medesima distanza.
- Ho sempre avuto una predilezione per le lunghe distanze. Di “Passatore” ne ho già corsi sei, partendo sempre con un’ amica, che regolarmente staccavo dopo Marradi.
Sorride emozionata, ancora incredula dei successi che fioccano e delle attenzioni che la stanno abbracciando. Abbiamo deciso di incontrarla nel luogo che, a Bologna, funge da quartier generale per gli appassionati di ultramaratone: il negozio di Vito Melito, grande campione e generoso divulgatore di consigli e suggerimenti. E quale occasione più ghiotta per esprimersi al meglio, avendo davanti a sé un nuovo talento e la sua preparatrice? Mentre Katia e Vito si confrontano su tecniche e metodologie, cerchiamo di carpire da Roberta qualche segreto.
- Nessun segreto. Mi piace correre, ed è ciò che faccio da sempre. I recenti successi li devo soprattutto a Katia, che mi chiese di preparare insieme a lei la maratona di Ferrara del 2005: lei vinse e io arrivai terza. Da lì in poi, fu tutto un crescendo: dal 2h59’ all’ultima maratona di Firenze ai 73,320 km nella Sei ore di Seregno, fino al Passatore…
Verrebbe da pensare che simili risultati siano il frutto di allenamenti massacranti, di intere giornate trascorse a macinare chilometri, invece:
- Sono caporeparto in un’azienda metalmeccanica, mi alzo tutte le mattine all’alba per andare al lavoro e posso dedicarmi alla corsa solo verso sera. Non è che resti molto spazio per fare altro, ma io sono un tipo tranquillo e correre mi appaga a sufficienza.
Nessun’altra passione, dunque?
- Beh, confesso di avere un debole per i tatuaggi. Il decimo, fatto insieme a Katia, è dedicato ai Campionati Mondiali della 100 km.
Non chiediamo cosa rappresenti, senz’altro Roberta starà già pensando al prossimo.
lunedì 30 luglio 2007
Vigarano Half Marathon 2007
N. 278 - DICEMBRE 2007
Oltre mille atleti hanno onorato la XXIV edizione della Vigarano Half Marthon. Da ogni parte d’Italia, società podistiche al completo hanno raggiunto in pullman la località ferrarese per partecipare alla gara, valida come Campionato italiano Master di mezza maratona.
Qualche problema di sovraffollamento in area di partenza, dovuto alla massa di corridori scalpitanti, si è subito risolto con lo sparo: migliaia di gambe sono libere di sfogarsi sul percorso che lambisce il territorio di Vigarano Mainarda. Il circuito, strutturato su due giri, è decisamente scorrevole; potrebbe risultare monotono a chi prediliga contesti cittadini, apprezzato invece dai podisti che amano spazi aperti e paesaggi di campagna. Il pubblico, molto vivace nella piazza del paese, contribuisce a sostenere lo sforzo. Sforzo gestito magistralmente dai vincitori, mai troppo impensieriti dagli avversari: Donatella Vinci stacca di oltre un minuto la seconda arrivata, Marina Gorra, a sua volta seguita da Souma Spiridoula. Analogo copione per il primo uomo, Maurizio Medri, che precede agilmente Rossano Altini e Giuseppe Gallitelli. Di questi, Donatella Vinci e Rossano Altini salgono una seconda volta sul podio, aggiudicandosi anche il titolo di campione italiano Master di mezza maratona nelle rispettive categorie – da notare che Altini ha recentemente conquistato la medaglia d’oro sui 10000, ai Campionati Mondiali Master di Riccione.
Amatori protagonisti, dunque, a dimostrazione che non sono solo ingaggi e montepremi a fare i numeri.
Oltre mille atleti hanno onorato la XXIV edizione della Vigarano Half Marthon. Da ogni parte d’Italia, società podistiche al completo hanno raggiunto in pullman la località ferrarese per partecipare alla gara, valida come Campionato italiano Master di mezza maratona.
Qualche problema di sovraffollamento in area di partenza, dovuto alla massa di corridori scalpitanti, si è subito risolto con lo sparo: migliaia di gambe sono libere di sfogarsi sul percorso che lambisce il territorio di Vigarano Mainarda. Il circuito, strutturato su due giri, è decisamente scorrevole; potrebbe risultare monotono a chi prediliga contesti cittadini, apprezzato invece dai podisti che amano spazi aperti e paesaggi di campagna. Il pubblico, molto vivace nella piazza del paese, contribuisce a sostenere lo sforzo. Sforzo gestito magistralmente dai vincitori, mai troppo impensieriti dagli avversari: Donatella Vinci stacca di oltre un minuto la seconda arrivata, Marina Gorra, a sua volta seguita da Souma Spiridoula. Analogo copione per il primo uomo, Maurizio Medri, che precede agilmente Rossano Altini e Giuseppe Gallitelli. Di questi, Donatella Vinci e Rossano Altini salgono una seconda volta sul podio, aggiudicandosi anche il titolo di campione italiano Master di mezza maratona nelle rispettive categorie – da notare che Altini ha recentemente conquistato la medaglia d’oro sui 10000, ai Campionati Mondiali Master di Riccione.
Amatori protagonisti, dunque, a dimostrazione che non sono solo ingaggi e montepremi a fare i numeri.

domenica 15 luglio 2007
Racconto: Il Passatore
N. 273 - luglio 2007
Avevo 17 anni. La breve età in cui chiunque è immortale.
Nulla mi appariva più lungo, lento e noioso del margine che ancora mi separava dalla fatidica soglia, superato la quale avrei potuto rivendicare a pieno titolo i miei diritti di adulto. Dovevo sopportare ancora per diversi mesi l’assurdità di divieti e limitazioni che, da un giorno all’altro, avrebbero perso qualsiasi significato.
Devi essere maggiorenne per poter partecipare. Ti porterò con me quando avrai diciott’anni. Per il tuo compleanno ti regalo l’iscrizione ad una gara. Ecc. Ecc.
Mio padre non faceva che ripetermelo. Dovevo avere solo un po’ di pazienza, ormai non mancava tanto. Peccato che il fatidico giorno ricorresse nel mese di giugno, cioè due settimane dopo l’evento sul quale lui – e, di conseguenza, tutta la famiglia – investiva il frutto degli sforzi di mesi e mesi. Per due sole stupide settimane avrei dovuto rimandare di un anno intero ciò che sognavo da una vita.
Il segnale era la coda di Birba: quando cominciava a scacciare le mosche, capivo che papà stava arrivando. Correvo subito alla finestra, volevo essere lì prima che lui alzasse lo sguardo per cercarmi. Dovevo essere pronto a ricevere il suo saluto festoso, ad accogliere il suo arrivo trionfale, ad esultare per quel cappellino sventolato al cielo, che sarebbe di lì a poco finito sulla mia testa.
Questo rito segnava la fine del giorno: lasciati compiti, amici e giochi, entravo nel mondo del crepuscolo e delle favole, mondo del quale mio papà era il sommo principe. Erano certo grandi imprese quelle che lo rendevano così affannato e sudato, ed ero sicuro che assistendolo avrei potuto assimilare il suo valore per poter anch’io, prima o poi, sostenere simili prove. Così, osservandolo di sottecchi attraverso la visiera che mi scendeva sugli occhi, cercavo di imitare i quegli strani gesti con gambe allungate di qua e di là, piegato, disteso e poi ancora piegato. Birba ci guardava stranita, ma ormai aveva imparato che non doveva azzardarsi a saltarci addosso, non era questo il momento di giocare. Terminati gli esercizi, arrivava il momento per me più impegnativo, quello che mi vedeva investito di una grande responsabilità: dovevo prendere il suo quaderno e trascrivere i dati che lui mi dettava. Numero di chilometri, ore minuti e secondi, condizioni meteorologiche e considerazioni di vario genere su soddisfazione, fatica o eventuali acciacchi. Gli riconsegnavo poi il diario, pronto a rispondere all’immancabile domanda: Quanto manca? La mia trepidazione per il grande evento era pari alla sua, se non più intensa. A mano a mano che la data si avvicinava, cominciavo a trascurare gli amici, sempre meno interessato ai tiri al pallone: volevo accostarmi il più possibile a lui, al suo spirito, alle sue sensazioni. Pensavo che, dimostrandogli che potevo emularlo, si sarebbe sentito ancora più forte. L’orgoglio di avere un fedele seguace, nonché un degno erede, non poteva che renderlo più sicuro delle proprie capacità. E questo, oltre a rappresentarlo invincibile ai miei occhi, avrebbe fornito sempre più concretezza al mio sogno: quello di correre con lui. Solcavo il perimetro del campo di calcio, mentre i miei compagni schiamazzavano nelle loro partite. Giravo e giravo attorno come un criceto nella ruota, senza stile né ritmo, fino a sfinirmi. Ma mi guardavo bene dal lasciar trapelare qualsiasi segno di stanchezza quando lui rientrava dall’allenamento: non solo perchè la sua eroica fatica doveva trovare un forte e pronto supporto, ma anche per non rivelare prematuramente i miei propositi. Doveva essere una sorpresa, tale da fare luccicare i suoi occhi: per lo stupore di trovarmi al suo fianco in pantaloncini e canotta e per l’orgoglio di avere un nuovo, fedele, insostituibile compagno di corse.
Non ho mai capito cosa non avesse funzionato nei miei piani. Probabilmente sapeva da sempre che non avevo mai calciato un pallone, o forse la sua era semplice e geniale intuizione paterna. Fatto sta che, per la promozione in prima media, ricevetti in regalo un fiammante paio di scarpe da corsa. Non l’avesse mai fatto! Come poteva pretendere, ora, che lo aspettassi buono e tranquillo alla finestra? Le mie gambe ben carburate scalpitavano, i miei piedi fremevano nel nuovo rivestimento, il mio impeto cercava sfogo e soddisfazione. Anziché attenderlo al varco, iniziai a corrergli incontro, e ben presto l’ultimo tratto del suo rientro diventò una sfida a chi toccava per primo il muro di casa, con Birba che incitava abbaiando vivacemente. Non so quando smise di lasciarmi vincere, quando il suo sforzo si fece reale e le mie vittorie, da semplice gioco, divennero una vera e propria conquista. Di certo, la strada per incontrarlo si allungava sempre di più, e sempre più esteso era il percorso che condividevamo.
Mi guadagnai così la partecipazione alle manifestazioni domenicali dove, però, dovevo accontentarmi dei circuiti ridotti, riservati ai ragazzini e a quelli che non volevano impegnarsi troppo, mentre papà esprimeva il suo talento sulle prove competitive. A me non era permesso, non ancora. Incapace di placare la mia irrequietudine, vivevo emotivamente le gare, condividendo le gioie e i dolori del mio mentore. Saltavo e urlavo come un clown quando lo scorgevo approssimarsi ansimante al traguardo, liberando finalmente tutta l’ansia dell’attesa.
Attesa che aveva un sapore quasi surreale in quella tanto sospirata notte di maggio. Cento chilometri sono un’eternità, un abisso, follia pura. Quale pazzo ambirebbe a correre per cento chilometri? Eppure, i pazzi sono tanti, centinaia, e mio padre è uno di loro. Ovvio che io abbia sempre considerato questa sua passione tutt’altro che perversa: quella che, immancabilmente, lui realizzava ogni anno, era per me l’impresa delle imprese. Del resto, un evento intitolato al mitico Passatore non poteva che evocare memorabili gesta. Trascorrere la notte nella piazza di Faenza era ormai un appuntamento fisso. I primi atleti cominciavano ad arrivare in tarda serata, e a stento si poteva credere che fossero partiti da una città tanto lontana come Firenze. Sotto il traguardo si snocciolavano podisti più o meno provati dalla fatica. Io li osservavo attentamente, uno a uno, soffrendo per loro e, soprattutto, per il “mio” podista, quello che chissà a che punto si trovava del percorso e chissà in quali condizioni… Sapevo che l’avrei abbracciato solo sul fare del giorno, ma ugualmente pativo alla vista di ogni figura che si stagliava nel buio della strada, in prossimità della piazza.
Quell’anno, però, l’idea di stazionare ore e ore nel centro di Faenza non mi dava pace: non riuscivo a rassegnarmi al fatto che non potessi ancora correre con lui, solo a causa di una stupida beffa del calendario. Supplicai mio padre affinché mi permettesse di accompagnarlo anche senza essere iscritto, ma lui non volle sentire ragione. Giustamente, voleva evitare che mi sottoponessi ad uno sforzo per me ancora prematuro, ma alla mia mente giovane e ardita un simile divieto suonava come un’incomprensibile crudeltà. Insistendo con bronci e mugugni, riuscii ad ottenere almeno una concessione: quella di seguirlo in motorino, così da tenere sotto controllo ogni fase della sua prova ed essere pronto per qualsiasi evenienza. Salito sul camper dei suoi compagni di gara, ero già in fibrillazione. Una volta a Firenze, fissai con un groppo in gola il folto gruppo di atleti schierato alla partenza, prima di allontanarmi sul mio mezzo, precedendoli sul percorso per non essere di intralcio. Non mi rendevo ancora conto di quanto avrei penato, anch’io, nello stare tante ore su una sella, procedendo ad un ritmo che, sulle due ruote, risultava insopportabilmente lento. Avevo però modo di distrarmi: scrutando papà e immaginandomi nella stessa situazione. Quanto avrei sofferto, quanto avrei alleviato la sua fatica, quanto avremmo potuto confortarci a vicenda? Così fantasticando, i chilometri, scorrevano fluidi, sotto un sole che sfumava gradatamente, mentre le ombre dei podisti si allungavano, rade, sulla strada. Il buio piombò all’improvviso e, quando il motore si fece particolarmente rumoroso, capii che iniziava la salita: quella famigerata cima della Colla di cui tanto avevo sentito parlare. L’incubo di tutti coloro che osavano sfidare il Passatore, il punto in cui tanti cedevano: ma, una volta superato quel limite, l’arrivo era già a portata di mano. Sapevo che papà avrebbe affrontato di passo il duro ostacolo, quindi non mi meravigliai quando lo vidi rallentare. Ma quando si accasciò, appoggiato ad un albero, saltai subito in suo soccorso. Lui mi allontanò, temendo che il mio intervento potesse comportare una sua squalifica. Sto bene, disse, solo un po’ stanco. Ma non si decideva a ripartire. Senza troppo indugiare, mi dimenticai del motorino e, dopo averlo invitato a seguirmi, cominciai a correre piano piano davanti a lui. Non sprecò fiato per chiedermi che cosa stessi facendo, ma riuscì a rimettersi in strada e a riprendere il suo cammino. Bravo papà, così si fa! Procedeva lentamente, con me che lo precedevo di un passo, a fargli da traino. L’aria era fredda, nera e ostile, ma noi eravamo forti e determinati. Invincibili. La discesa era lì, palpabile, e Faenza, in fondo, non era tanto lontana. Di nuovo di corsa, ora, papà sempre dietro di me. Non avevo l’abbigliamento giusto, ma che importava? A quell’ora, su quelle strade, nessuno ci avrebbe fatto caso. Il cielo gradatamente ammorbidiva i suoi colori, segno che la distanza si stava via via accorciando. Io davanti, papà a ruota. Un lungo rettilineo e la piazza in fondo. Uscii dal percorso quando ormai l’impresa era compiuta, lasciandolo solo, per il suo personale trionfo. Per la prima volta non lo vidi tagliare il traguardo. Per l’ennesima volta, invece, lo sentii inveire contro il Passatore, giurando e spergiurando che non l’avrebbe mai più affrontato. Sapevo che, dopo una dormita, avrebbe subito cambiato idea. E sapevo che la stessa dichiarazione, di lì ad un anno, l’avremmo fatta insieme.
Avevo 17 anni. La breve età in cui chiunque è immortale.
Nulla mi appariva più lungo, lento e noioso del margine che ancora mi separava dalla fatidica soglia, superato la quale avrei potuto rivendicare a pieno titolo i miei diritti di adulto. Dovevo sopportare ancora per diversi mesi l’assurdità di divieti e limitazioni che, da un giorno all’altro, avrebbero perso qualsiasi significato.
Devi essere maggiorenne per poter partecipare. Ti porterò con me quando avrai diciott’anni. Per il tuo compleanno ti regalo l’iscrizione ad una gara. Ecc. Ecc.
Mio padre non faceva che ripetermelo. Dovevo avere solo un po’ di pazienza, ormai non mancava tanto. Peccato che il fatidico giorno ricorresse nel mese di giugno, cioè due settimane dopo l’evento sul quale lui – e, di conseguenza, tutta la famiglia – investiva il frutto degli sforzi di mesi e mesi. Per due sole stupide settimane avrei dovuto rimandare di un anno intero ciò che sognavo da una vita.
Il segnale era la coda di Birba: quando cominciava a scacciare le mosche, capivo che papà stava arrivando. Correvo subito alla finestra, volevo essere lì prima che lui alzasse lo sguardo per cercarmi. Dovevo essere pronto a ricevere il suo saluto festoso, ad accogliere il suo arrivo trionfale, ad esultare per quel cappellino sventolato al cielo, che sarebbe di lì a poco finito sulla mia testa.
Questo rito segnava la fine del giorno: lasciati compiti, amici e giochi, entravo nel mondo del crepuscolo e delle favole, mondo del quale mio papà era il sommo principe. Erano certo grandi imprese quelle che lo rendevano così affannato e sudato, ed ero sicuro che assistendolo avrei potuto assimilare il suo valore per poter anch’io, prima o poi, sostenere simili prove. Così, osservandolo di sottecchi attraverso la visiera che mi scendeva sugli occhi, cercavo di imitare i quegli strani gesti con gambe allungate di qua e di là, piegato, disteso e poi ancora piegato. Birba ci guardava stranita, ma ormai aveva imparato che non doveva azzardarsi a saltarci addosso, non era questo il momento di giocare. Terminati gli esercizi, arrivava il momento per me più impegnativo, quello che mi vedeva investito di una grande responsabilità: dovevo prendere il suo quaderno e trascrivere i dati che lui mi dettava. Numero di chilometri, ore minuti e secondi, condizioni meteorologiche e considerazioni di vario genere su soddisfazione, fatica o eventuali acciacchi. Gli riconsegnavo poi il diario, pronto a rispondere all’immancabile domanda: Quanto manca? La mia trepidazione per il grande evento era pari alla sua, se non più intensa. A mano a mano che la data si avvicinava, cominciavo a trascurare gli amici, sempre meno interessato ai tiri al pallone: volevo accostarmi il più possibile a lui, al suo spirito, alle sue sensazioni. Pensavo che, dimostrandogli che potevo emularlo, si sarebbe sentito ancora più forte. L’orgoglio di avere un fedele seguace, nonché un degno erede, non poteva che renderlo più sicuro delle proprie capacità. E questo, oltre a rappresentarlo invincibile ai miei occhi, avrebbe fornito sempre più concretezza al mio sogno: quello di correre con lui. Solcavo il perimetro del campo di calcio, mentre i miei compagni schiamazzavano nelle loro partite. Giravo e giravo attorno come un criceto nella ruota, senza stile né ritmo, fino a sfinirmi. Ma mi guardavo bene dal lasciar trapelare qualsiasi segno di stanchezza quando lui rientrava dall’allenamento: non solo perchè la sua eroica fatica doveva trovare un forte e pronto supporto, ma anche per non rivelare prematuramente i miei propositi. Doveva essere una sorpresa, tale da fare luccicare i suoi occhi: per lo stupore di trovarmi al suo fianco in pantaloncini e canotta e per l’orgoglio di avere un nuovo, fedele, insostituibile compagno di corse.
Non ho mai capito cosa non avesse funzionato nei miei piani. Probabilmente sapeva da sempre che non avevo mai calciato un pallone, o forse la sua era semplice e geniale intuizione paterna. Fatto sta che, per la promozione in prima media, ricevetti in regalo un fiammante paio di scarpe da corsa. Non l’avesse mai fatto! Come poteva pretendere, ora, che lo aspettassi buono e tranquillo alla finestra? Le mie gambe ben carburate scalpitavano, i miei piedi fremevano nel nuovo rivestimento, il mio impeto cercava sfogo e soddisfazione. Anziché attenderlo al varco, iniziai a corrergli incontro, e ben presto l’ultimo tratto del suo rientro diventò una sfida a chi toccava per primo il muro di casa, con Birba che incitava abbaiando vivacemente. Non so quando smise di lasciarmi vincere, quando il suo sforzo si fece reale e le mie vittorie, da semplice gioco, divennero una vera e propria conquista. Di certo, la strada per incontrarlo si allungava sempre di più, e sempre più esteso era il percorso che condividevamo.
Mi guadagnai così la partecipazione alle manifestazioni domenicali dove, però, dovevo accontentarmi dei circuiti ridotti, riservati ai ragazzini e a quelli che non volevano impegnarsi troppo, mentre papà esprimeva il suo talento sulle prove competitive. A me non era permesso, non ancora. Incapace di placare la mia irrequietudine, vivevo emotivamente le gare, condividendo le gioie e i dolori del mio mentore. Saltavo e urlavo come un clown quando lo scorgevo approssimarsi ansimante al traguardo, liberando finalmente tutta l’ansia dell’attesa.
Attesa che aveva un sapore quasi surreale in quella tanto sospirata notte di maggio. Cento chilometri sono un’eternità, un abisso, follia pura. Quale pazzo ambirebbe a correre per cento chilometri? Eppure, i pazzi sono tanti, centinaia, e mio padre è uno di loro. Ovvio che io abbia sempre considerato questa sua passione tutt’altro che perversa: quella che, immancabilmente, lui realizzava ogni anno, era per me l’impresa delle imprese. Del resto, un evento intitolato al mitico Passatore non poteva che evocare memorabili gesta. Trascorrere la notte nella piazza di Faenza era ormai un appuntamento fisso. I primi atleti cominciavano ad arrivare in tarda serata, e a stento si poteva credere che fossero partiti da una città tanto lontana come Firenze. Sotto il traguardo si snocciolavano podisti più o meno provati dalla fatica. Io li osservavo attentamente, uno a uno, soffrendo per loro e, soprattutto, per il “mio” podista, quello che chissà a che punto si trovava del percorso e chissà in quali condizioni… Sapevo che l’avrei abbracciato solo sul fare del giorno, ma ugualmente pativo alla vista di ogni figura che si stagliava nel buio della strada, in prossimità della piazza.
Quell’anno, però, l’idea di stazionare ore e ore nel centro di Faenza non mi dava pace: non riuscivo a rassegnarmi al fatto che non potessi ancora correre con lui, solo a causa di una stupida beffa del calendario. Supplicai mio padre affinché mi permettesse di accompagnarlo anche senza essere iscritto, ma lui non volle sentire ragione. Giustamente, voleva evitare che mi sottoponessi ad uno sforzo per me ancora prematuro, ma alla mia mente giovane e ardita un simile divieto suonava come un’incomprensibile crudeltà. Insistendo con bronci e mugugni, riuscii ad ottenere almeno una concessione: quella di seguirlo in motorino, così da tenere sotto controllo ogni fase della sua prova ed essere pronto per qualsiasi evenienza. Salito sul camper dei suoi compagni di gara, ero già in fibrillazione. Una volta a Firenze, fissai con un groppo in gola il folto gruppo di atleti schierato alla partenza, prima di allontanarmi sul mio mezzo, precedendoli sul percorso per non essere di intralcio. Non mi rendevo ancora conto di quanto avrei penato, anch’io, nello stare tante ore su una sella, procedendo ad un ritmo che, sulle due ruote, risultava insopportabilmente lento. Avevo però modo di distrarmi: scrutando papà e immaginandomi nella stessa situazione. Quanto avrei sofferto, quanto avrei alleviato la sua fatica, quanto avremmo potuto confortarci a vicenda? Così fantasticando, i chilometri, scorrevano fluidi, sotto un sole che sfumava gradatamente, mentre le ombre dei podisti si allungavano, rade, sulla strada. Il buio piombò all’improvviso e, quando il motore si fece particolarmente rumoroso, capii che iniziava la salita: quella famigerata cima della Colla di cui tanto avevo sentito parlare. L’incubo di tutti coloro che osavano sfidare il Passatore, il punto in cui tanti cedevano: ma, una volta superato quel limite, l’arrivo era già a portata di mano. Sapevo che papà avrebbe affrontato di passo il duro ostacolo, quindi non mi meravigliai quando lo vidi rallentare. Ma quando si accasciò, appoggiato ad un albero, saltai subito in suo soccorso. Lui mi allontanò, temendo che il mio intervento potesse comportare una sua squalifica. Sto bene, disse, solo un po’ stanco. Ma non si decideva a ripartire. Senza troppo indugiare, mi dimenticai del motorino e, dopo averlo invitato a seguirmi, cominciai a correre piano piano davanti a lui. Non sprecò fiato per chiedermi che cosa stessi facendo, ma riuscì a rimettersi in strada e a riprendere il suo cammino. Bravo papà, così si fa! Procedeva lentamente, con me che lo precedevo di un passo, a fargli da traino. L’aria era fredda, nera e ostile, ma noi eravamo forti e determinati. Invincibili. La discesa era lì, palpabile, e Faenza, in fondo, non era tanto lontana. Di nuovo di corsa, ora, papà sempre dietro di me. Non avevo l’abbigliamento giusto, ma che importava? A quell’ora, su quelle strade, nessuno ci avrebbe fatto caso. Il cielo gradatamente ammorbidiva i suoi colori, segno che la distanza si stava via via accorciando. Io davanti, papà a ruota. Un lungo rettilineo e la piazza in fondo. Uscii dal percorso quando ormai l’impresa era compiuta, lasciandolo solo, per il suo personale trionfo. Per la prima volta non lo vidi tagliare il traguardo. Per l’ennesima volta, invece, lo sentii inveire contro il Passatore, giurando e spergiurando che non l’avrebbe mai più affrontato. Sapevo che, dopo una dormita, avrebbe subito cambiato idea. E sapevo che la stessa dichiarazione, di lì ad un anno, l’avremmo fatta insieme.
lunedì 2 luglio 2007
Ma dove corrono i bolognesi
N. 272 - giugno 2007
A qualsiasi ora del giorno, qualunque strada si transiti, a Bologna si incontra gente che corre. Basta dare un’occhiata all’asfalto per notare, ai margini delle carreggiate, numeri tracciati con la vernice, in ordine progressivo, a distanze regolari: i segni dei runner che hanno misurato il proprio terreno di allenamento. Si tratta di circuiti più o meno lunghi, realizzati da quei podisti che non vivono nelle immediate vicinanze di un parco pubblico – e potrebbe essere curioso stilare un elenco di questi percorsi personalizzati, raccogliendone le descrizioni dai diretti interessati.
Certo, dovendo fornire suggerimenti sui luoghi deputati alla corsa, non si possono che citare i principali parchi bolognesi: dai Giardini Margherita, polmone verde della città, ai Parchi dei Cedri e della Resistenza, in prossimità di San Lazzaro di Savena, fino al Parco Talon, ricco e boscoso, a Casalecchio di Reno. Esiste poi una rete di piste ciclabili, molto utilizzata anche dai podisti, e una serie di altri percorsi nel verde, alcuni dei quali recentemente ristrutturati.
Uno di questi si sviluppa su un tracciato di grande valore storico, oltre che ambientale. La ciclovia del Navile, infatti, segue il corso dell’omonimo canale realizzato in epoca medievale e utilizzato sia ai fini della produzione energetica che per la navigazione. Partendo dal parco di Villa Angeletti (accesso da via de’ Carracci, ampio parcheggio), si attraversa Via Gagarin per immettersi nell’ambiente fluviale. Si supera il Sostegno del Battiferro, attivo complesso industriale fino al XX secolo, oggi centro tecnologico e mussale poi, sempre seguendo il Navile, oltrepassati il Sostegno del Torreggiani e quello del Landi, si giunge ad una biforcazione del sentiero, che torna a riunirsi presso il Ponte della Bionda - suggestiva struttura in pietra, fresca di restauro. Attraversata via dei Terraioli, il percorso termina al Porto di Corticella – da notare il Ponte del Vignola, di inizio ‘800. Si sono così corsi circa 4,7 km, che sarà un piacere ripetere per il ritorno.
Tra gli interventi di recupero dell’antica Bologna “città delle acque”, c’è anche il progetto di valorizzazione ambientale e turistica delle aree attraversate dal fiume Reno. Appena fuori Bologna, nel comune di Castel Maggiore, si può correre lungo i sentieri di uno dei frutti di tale progetto: il Parco Fluviale di Trebbo di Reno. Tre i percorsi, tutti ben segnalati, con partenza presso la rotonda di via Byron (dietro la chiesa): un anello di 2,2 km che segue l’ex cava, uno di 4 km tra la golena e l’argine, e un rettilineo di 5,5 km che, sempre seguendo l’argine, giunge fino ai laghetti in località Boschetto (ritorno sul medesimo percorso dell’andata). Nel mese di settembre si svolge qui l’EcoMaratona del Medio Reno, una gara a staffetta (6x7,033) organizzata dalla UISP Provinciale.
Chi invece non vuole spostarsi troppo dal centro della città, ha a disposizione i Giardini Margherita (accesso principale da viale Gozzadini, tra le porte Castiglione e Santo Stefano), il parco bolognese per antonomasia, meta prediletta anche da chi desidera semplicemente godersi una passeggiata in un luogo ameno, con tanto di laghetto artificiale. Diverse manifestazioni sportive hanno proprio nel parco il loro punto di riferimento. Tra queste: la Maratona dei Castelli Medievali (25 aprile), con partenza da Vignola e arrivo, appunto, ai Giardini, e la UnicreditBanca Rune Tune Up - La mezza maratona di Bologna (prima domenica di settembre), che fa convergere nei Giardini l’intero evento – centro gara, partenza e arrivo. Al di fuori delle occasioni agonistiche, i podisti possono correre sul tracciato asfaltato che abbraccia l’intero perimetro del parco, per un totale di circa 1,6 km.
A qualsiasi ora del giorno, qualunque strada si transiti, a Bologna si incontra gente che corre. Basta dare un’occhiata all’asfalto per notare, ai margini delle carreggiate, numeri tracciati con la vernice, in ordine progressivo, a distanze regolari: i segni dei runner che hanno misurato il proprio terreno di allenamento. Si tratta di circuiti più o meno lunghi, realizzati da quei podisti che non vivono nelle immediate vicinanze di un parco pubblico – e potrebbe essere curioso stilare un elenco di questi percorsi personalizzati, raccogliendone le descrizioni dai diretti interessati.
Certo, dovendo fornire suggerimenti sui luoghi deputati alla corsa, non si possono che citare i principali parchi bolognesi: dai Giardini Margherita, polmone verde della città, ai Parchi dei Cedri e della Resistenza, in prossimità di San Lazzaro di Savena, fino al Parco Talon, ricco e boscoso, a Casalecchio di Reno. Esiste poi una rete di piste ciclabili, molto utilizzata anche dai podisti, e una serie di altri percorsi nel verde, alcuni dei quali recentemente ristrutturati.
Uno di questi si sviluppa su un tracciato di grande valore storico, oltre che ambientale. La ciclovia del Navile, infatti, segue il corso dell’omonimo canale realizzato in epoca medievale e utilizzato sia ai fini della produzione energetica che per la navigazione. Partendo dal parco di Villa Angeletti (accesso da via de’ Carracci, ampio parcheggio), si attraversa Via Gagarin per immettersi nell’ambiente fluviale. Si supera il Sostegno del Battiferro, attivo complesso industriale fino al XX secolo, oggi centro tecnologico e mussale poi, sempre seguendo il Navile, oltrepassati il Sostegno del Torreggiani e quello del Landi, si giunge ad una biforcazione del sentiero, che torna a riunirsi presso il Ponte della Bionda - suggestiva struttura in pietra, fresca di restauro. Attraversata via dei Terraioli, il percorso termina al Porto di Corticella – da notare il Ponte del Vignola, di inizio ‘800. Si sono così corsi circa 4,7 km, che sarà un piacere ripetere per il ritorno.
Tra gli interventi di recupero dell’antica Bologna “città delle acque”, c’è anche il progetto di valorizzazione ambientale e turistica delle aree attraversate dal fiume Reno. Appena fuori Bologna, nel comune di Castel Maggiore, si può correre lungo i sentieri di uno dei frutti di tale progetto: il Parco Fluviale di Trebbo di Reno. Tre i percorsi, tutti ben segnalati, con partenza presso la rotonda di via Byron (dietro la chiesa): un anello di 2,2 km che segue l’ex cava, uno di 4 km tra la golena e l’argine, e un rettilineo di 5,5 km che, sempre seguendo l’argine, giunge fino ai laghetti in località Boschetto (ritorno sul medesimo percorso dell’andata). Nel mese di settembre si svolge qui l’EcoMaratona del Medio Reno, una gara a staffetta (6x7,033) organizzata dalla UISP Provinciale.
Chi invece non vuole spostarsi troppo dal centro della città, ha a disposizione i Giardini Margherita (accesso principale da viale Gozzadini, tra le porte Castiglione e Santo Stefano), il parco bolognese per antonomasia, meta prediletta anche da chi desidera semplicemente godersi una passeggiata in un luogo ameno, con tanto di laghetto artificiale. Diverse manifestazioni sportive hanno proprio nel parco il loro punto di riferimento. Tra queste: la Maratona dei Castelli Medievali (25 aprile), con partenza da Vignola e arrivo, appunto, ai Giardini, e la UnicreditBanca Rune Tune Up - La mezza maratona di Bologna (prima domenica di settembre), che fa convergere nei Giardini l’intero evento – centro gara, partenza e arrivo. Al di fuori delle occasioni agonistiche, i podisti possono correre sul tracciato asfaltato che abbraccia l’intero perimetro del parco, per un totale di circa 1,6 km.
domenica 1 luglio 2007
Istantanee da Milano - Campionati italiani master su pista 2007
N. 275 - settembre 2007
PER CASO
L’asfalto è generoso: sempre disponibile, immancabile, prontamente utilizzabile. Accessibile in ogni stagione, a qualsiasi ora, con qualunque condizione atmosferica.
Sull’asfalto muovono i primi passi i principianti della corsa. Alcuni presto l’abbandonano mentre altri, altrettanto presto, ne divengono dipendenti e si impossessano della strada. Misurano percorsi, contrassegnano distanze, creano variazioni. Ognuno ha un proprio giro classico e diverse percorrenze alternative, e anche le gare sono scelte in base alla conformità del tracciato, considerandone lunghezza, altimetria e fondo stradale.
La pista, per gli amanti della corsa su strada, è un mondo a parte. Molti ne ignorano completamente l’esistenza, alcuni si sforzano di utilizzarla per qualche allenamento specifico, altri ancora si spingono a cimentarsi in prove competitive – chi per curiosità, chi per dovere verso la propria società e chi, semplicemente, per caso.
Difficile, infatti, resistere al richiamo di un trofeo o di un campionato, magari di livello nazionale, quando la manifestazione ha sede ad un passo da casa. Soprattutto se si è già ben allenati e se non si contano ormai più le soddisfazioni ottenute nelle gare su strada. Così è per Donatella Vinci, atleta milanese categoria MF40 che vanta, tra i vari titoli, un secondo posto agli ultimi campionati italiani di corsa su strada nella distanza dei 10km (36’44”). “Vivo qui, come potevo non partecipare? Ma da domani torno all’asfalto e allo sterrato, la pista proprio non fa per me”. Sarà. È vero che le sue scarpe modello A2, uniche in un parterre di chiodate, rivelavano l’estraneità di Donatella a questo genere di prove. Ma che dire, allora, del suo terzo posto nei 1500mt?
Chi accede ad un campionato Master in pista, conoscendo solo la strada, è un po’ un alieno caduto su un altro pianeta. Specialità fino ad allora viste solo in tv, nelle performance dei grandi campioni, assumono una diversa fisionomia e tutto rientra in una nuova dimensione. Più tangibile, forse, magari più reale, senz’altro più umana. Un centrifugato di storie ed esperienze che genera energia, un’energia palpabile e contagiosa, che rimbalza tra un salto e una partenza, tra un lancio e una volata. In uno spirito che non considera né anagrafe né categorie, e unisce tutti i partecipanti in un’unica generazione.
PER PROVA
C’è chi aspetta di essere “grande” prima di cimentarsi in un campionato di livello nazionale. Forse non si è mai sentito sufficientemente pronto, o magari si è dilungato nell’attesa dell’occasione giusta, oppure semplicemente non aveva ancora preso in considerazione l’idea.
Svariati possono essere i motivi che spingono a rimandare l’ingresso a competizioni di tale rilevanza, ma tra essi è senz’altro da escludere un’eventuale tardiva preparazione. Con la pista non si scherza, e i gesti atletici che sono emersi nelle corsie dell’Arena Civica non sono affatto frutto di improvvisazione. Del resto, basta ascoltare i commenti a caldo sulle singole prestazioni per avere conferma dell’alto grado di preparazione di questi atleti. Come Dario Gasparo, categoria M45, già emerso in altre occasioni, ma al suo esordio in un contesto nazionale: e che esordio! Suo il titolo di campione italiano sia sui 400mt che sui 400 ostacoli (pur avendo riscontrato alcune difficoltà nell’impostazione del ritmo, a causa dell’elevata elasticità della pista). Dario voleva provare, innanzitutto a se stesso, quale prestazione avrebbe potuto realizzare, alla sua età, in un simile ambito. Ma, al di là del proprio risultato e della personale soddisfazione, a colpire la sua sensibilità è stata la percezione del prodigarsi di tante persone in una sfida contro la forza del tempo – tempo inteso, stavolta, non come esito cronometrico, né come clima, bensì come scorrere degli anni.
Per scoprire chi sia il vincitore di tale sfida basti osservare questi atleti. Scrupolosi nel calcolare la suddivisione dei segmenti della superficie sulla quale compiere il triplo salto, pignoli nel contare i passi tra un ostacolo e l’altro, esigenti sulla precisione di misure e risultati. Non c’è spazio per l’approssimazione, né tanto meno per la distrazione. L’importante è partecipare, è vero, possibilmente divertendosi. Ma ciò non toglie che il campionato sia una cosa seria, alla quale
dedicare il meglio di sé, indipendentemente dalla categoria di appartenenza. Ecco perché quel famigerato tempo, che avrebbe la presunzione di spuntarla nell’impresa di fiaccare gli animi e smorzare gli entusiasmi, qui è costretto a chinare la testa, impotente. Inutile sfidare un’energia che non ha età e che, anzi, proprio dall’età trae le sue risorse. Poiché è proprio la determinazione dei veterani ad alimentare la grinta dei più giovani, dando vita ad un circolo virtuoso ricco e inesauribile.
PER SFIDA
Una volata tirata alla morte, il traguardo tagliato davanti a tutti, la medaglia di campione italiano al collo. Eppure, nessuno slancio di gioia: sul volto crucciato solo fatica e delusione. “Mi sentivo in gran forma e contavo di migliorare il mio record, ma non ci sono riuscito”, lamenta Alessandro Cipriani, già detentore del primato italiano M50 nei 400 ostacoli.
Duro agonismo e competizione sfrenata: i Master sono anche questo. Agguerriti nella ricerca del risultato, ma mai del tutto soddisfatti, perché si poteva sempre dare di più: chiudere in un tempo inferiore, saltare con maggior precisione, gestirsi con tattica superiore. Davvero l’importante è partecipare? Essere presenti, certo, non mancare nessun campionato, restando però sempre concentrati sull’obiettivo principe: migliorare.
Qualcuno pensa che, dopo una certa età, sarebbe più opportuno limitarsi alla tapasciata paesana, accontentandosi di portare a casa una confezione di pasta o di caffè. Come se esistesse un tempo massimo, superato il quale qualsiasi impegno agonistico apparirebbe privo di senso. Prive di senso risulterebbero invece proprio tali idee, se messe a confronto con i pensieri e le espressioni che colorano questi campionati. Il saltatore che impreca per un millimetro mancato, l’ostacolista che si ostina su un passo perduto, la mezzofondista assente alla premiazione perché chiamata al controllo antidoping. Dove sta la differenza tra queste competizioni e quelle degli atleti professionisti? Cambiano i numeri, ovvio, ma non l’atmosfera: concentrazione, grinta e determinazione sono le stesse.
La tensione verso il risultato è talmente decisa che è facile assistere a veri e propri litigi tra giudici di gara e atleti, qualora questi ultimi non reputino regolare una misurazione. Fino ad arrivare a mettere in discussione persino la validità del foto finish: quando si è saldamente convinti del valore della propria prestazione, neppure la tecnologia fornisce certezze.
Vincitori e vinti, conclusa una gara, già pensano al prossimo campionato. E dopo quello italiano, la sfida si apre sul fronte mondiale. Per molti non sarà affatto una novità, girare il mondo alla caccia del risultato per i più è ormai consuetudine. Ma quest’anno si gioca in casa, quindi le aspettative sono più alte. Chissà chi sarà la più generosa con i nostri atleti azzurri, tra Riccione ed Osaka?
PER COSTANZA
F75, M80, M90. Sigle che fanno rizzare i capelli. Inimmaginabili, fino a quando non si abbia la fortuna di assistere alle prove di questi atleti, e di incontrare sul campo le loro espressioni di allegria e serenità. Si incontrano e si confrontano da generazioni, campioni che, possiamo affermarlo, hanno fatto la storia dell’atletica. I loro aneddoti riuscirebbero a riempire pagine su pagine. Evidentemente, l’esercizio fisico influenza positivamente anche la memoria, considerata la disinvoltura con cui snocciolano nomi, record e annate. È un piacere ascoltare Ottavio Missoni, un solare “under 90”, che ricorda di quando, sedicenne, si aggiudicò l’oro nei 400mt: proprio sulla pista dell’Arena Civica, esattamente settanta anni fa. O Bruno Sobrero, classe 1920 il quale, pur lasciando trapelare un pizzico di nostalgia per certe mitiche staffette, promette scintille ai mondiali di Riccione, dove gareggerà anche nel decathlon. Per tacere, poi, di Giuseppe Ottaviani, categoria M90 (per la precisione, anno 1916): i suoi 100mt in 22”06 parlano da soli.
Quanto al settore femminile, inutile precisare che queste atlete non hanno nulla da invidiare agli uomini di analoga categoria. Anzi, a ben vedere, si potrebbe sostenere che l’unica nota di leggera invidia è quella provata dalla sottoscritta, la quale dubita fortemente di essere in grado di raggiungere, ora come ora, risultati simili a quelli ottenuti da queste campionesse - campionesse che, senz’altro, hanno dovuto lottare non poco per ritagliarsi, nel quotidiano, lo spazio sufficiente ad allenarsi.
Infinita costanza, rinvigorita dai risultati e dalle soddisfazioni. Ma anche dal piacere di ritrovarsi: avversari in uno sprint e compagni in una staffetta, antagonisti su una certa distanza e tifosi l’uno dell’altro su una diversa, ad applaudirsi reciprocamente sopra e sotto il podio.
Se i giovani Master stupiscono per l’elevato livello atletico delle prestazioni, sono però le categorie più anziane ad arricchire di senso questi campionati. Perché, se anche con pantaloni di spugna o calzettoni di cotone si possono stabilire invidiabili primati e se, al di là dei risultati, lo spirito e l’energia non si lasciano intimorire dal tempo che avanza, non è assurdo ipotizzare che chiunque possa ambire al proprio momento di gloria, avendo soltanto la voglia e il coraggio di mettersi alla prova. Un messaggio, forse banale ma necessario, ai ragazzi che si affacciano al mondo dell’atletica: quale più fruttuosa lezione di una giornata da spettatori, in un simile contesto?
PER PASSIONE
“Spostatevi, se no mio marito non riesce a fotografare”, esorta un’atleta dall’alto del podio, rivolgendosi a giudici e fotografi che oscurano la visuale al signore che la sta ammirando, aggrappato alla rete che separa la pista dalla tribuna.
Amore per la corsa e amore per chi corre: passioni che si intrecciano, si fondono, a volte si scontrano.
Passione, appunto. Quella che si legge sui volti degli atleti che abbiamo incontrato, che illumina i loro sguardi e vivacizza le loro parole. Anche se non viene nominata, è evidente che sia lei, qui, la protagonista: in sua assenza, mancherebbero sfide e risultati. Privato del motore primo del proprio meccanismo, qualsiasi sport non avrebbe modo di esistere.
I Master, si sa, non possono permettersi di vivere di atletica. Ciò non toglie che abbiano organizzato la loro vita in modo che non vengano mai a mancare i momenti per dedicarsi a ciò che più li rende vitali: perché mai come in quelle ore di corsa (o in quel salto, o in quel lancio), ci si sente così intensamente e totalmente se stessi. È questo ineffabile e indefinibile senso di appagamento che rende possibili sacrifici altrimenti impensabili – e a molti incomprensibili. E spiega anche perché tanti atleti non perdano occasione di misurarsi in contesti competitivi, nonostante svariate avversità abbiano loro impedito di prepararsi adeguatamente. La passione è contagiosa, e l’adrenalina che impregna l’atmosfera del campo di atletica lo è ancora di più: chi ne è assuefatto, non saprà farne a meno.
Malato di corsa, in quanti se lo saranno sentiti dire. Tra i tanti, certamente anche Umberto Golino, categoria M65, che già da ragazzino correva scalzo attorno alla struttura della pista di Formia, sognando i campioni che si allenavano all’interno. Le prime scarpette le ebbe in regalo dall’autista di autobus che, vedendolo ogni giorno, si era impietosito di tanta folle determinazione. Ora Umberto fa il nonno a tempo pieno, ma la sua prima passione non si è affatto spenta, e gli frutta ancora notevoli soddisfazioni - del tutto simili a quelle dei campioni che, allora, vagheggiava.
C’è poi chi sul podio non riesce più a salire, chi non vi ha mai messo piede e chi non lo avvicinerà mai. Ma non per questo demorde. Spesso il contesto è più gratificante della singola prova o, addirittura, è tutto ciò che fa da contorno alla gara a dare un senso alla gara stessa. I programmi di allenamento, i giorni di fatica e quelli di riposo, le varie tappe di avvicinamento: tanti tasselli a comporre il mosaico di un momento. Che può riuscire più o meno bene, ma che è talmente ricco di colori e di sfumature da risultare comunque indelebile.
Come indelebile è la prestazione di ogni singolo atleta, di qualsiasi sesso, di qualunque categoria.
PER CASO
L’asfalto è generoso: sempre disponibile, immancabile, prontamente utilizzabile. Accessibile in ogni stagione, a qualsiasi ora, con qualunque condizione atmosferica.
Sull’asfalto muovono i primi passi i principianti della corsa. Alcuni presto l’abbandonano mentre altri, altrettanto presto, ne divengono dipendenti e si impossessano della strada. Misurano percorsi, contrassegnano distanze, creano variazioni. Ognuno ha un proprio giro classico e diverse percorrenze alternative, e anche le gare sono scelte in base alla conformità del tracciato, considerandone lunghezza, altimetria e fondo stradale.
La pista, per gli amanti della corsa su strada, è un mondo a parte. Molti ne ignorano completamente l’esistenza, alcuni si sforzano di utilizzarla per qualche allenamento specifico, altri ancora si spingono a cimentarsi in prove competitive – chi per curiosità, chi per dovere verso la propria società e chi, semplicemente, per caso.
Difficile, infatti, resistere al richiamo di un trofeo o di un campionato, magari di livello nazionale, quando la manifestazione ha sede ad un passo da casa. Soprattutto se si è già ben allenati e se non si contano ormai più le soddisfazioni ottenute nelle gare su strada. Così è per Donatella Vinci, atleta milanese categoria MF40 che vanta, tra i vari titoli, un secondo posto agli ultimi campionati italiani di corsa su strada nella distanza dei 10km (36’44”). “Vivo qui, come potevo non partecipare? Ma da domani torno all’asfalto e allo sterrato, la pista proprio non fa per me”. Sarà. È vero che le sue scarpe modello A2, uniche in un parterre di chiodate, rivelavano l’estraneità di Donatella a questo genere di prove. Ma che dire, allora, del suo terzo posto nei 1500mt?
Chi accede ad un campionato Master in pista, conoscendo solo la strada, è un po’ un alieno caduto su un altro pianeta. Specialità fino ad allora viste solo in tv, nelle performance dei grandi campioni, assumono una diversa fisionomia e tutto rientra in una nuova dimensione. Più tangibile, forse, magari più reale, senz’altro più umana. Un centrifugato di storie ed esperienze che genera energia, un’energia palpabile e contagiosa, che rimbalza tra un salto e una partenza, tra un lancio e una volata. In uno spirito che non considera né anagrafe né categorie, e unisce tutti i partecipanti in un’unica generazione.
PER PROVA
C’è chi aspetta di essere “grande” prima di cimentarsi in un campionato di livello nazionale. Forse non si è mai sentito sufficientemente pronto, o magari si è dilungato nell’attesa dell’occasione giusta, oppure semplicemente non aveva ancora preso in considerazione l’idea.
Svariati possono essere i motivi che spingono a rimandare l’ingresso a competizioni di tale rilevanza, ma tra essi è senz’altro da escludere un’eventuale tardiva preparazione. Con la pista non si scherza, e i gesti atletici che sono emersi nelle corsie dell’Arena Civica non sono affatto frutto di improvvisazione. Del resto, basta ascoltare i commenti a caldo sulle singole prestazioni per avere conferma dell’alto grado di preparazione di questi atleti. Come Dario Gasparo, categoria M45, già emerso in altre occasioni, ma al suo esordio in un contesto nazionale: e che esordio! Suo il titolo di campione italiano sia sui 400mt che sui 400 ostacoli (pur avendo riscontrato alcune difficoltà nell’impostazione del ritmo, a causa dell’elevata elasticità della pista). Dario voleva provare, innanzitutto a se stesso, quale prestazione avrebbe potuto realizzare, alla sua età, in un simile ambito. Ma, al di là del proprio risultato e della personale soddisfazione, a colpire la sua sensibilità è stata la percezione del prodigarsi di tante persone in una sfida contro la forza del tempo – tempo inteso, stavolta, non come esito cronometrico, né come clima, bensì come scorrere degli anni.
Per scoprire chi sia il vincitore di tale sfida basti osservare questi atleti. Scrupolosi nel calcolare la suddivisione dei segmenti della superficie sulla quale compiere il triplo salto, pignoli nel contare i passi tra un ostacolo e l’altro, esigenti sulla precisione di misure e risultati. Non c’è spazio per l’approssimazione, né tanto meno per la distrazione. L’importante è partecipare, è vero, possibilmente divertendosi. Ma ciò non toglie che il campionato sia una cosa seria, alla quale
dedicare il meglio di sé, indipendentemente dalla categoria di appartenenza. Ecco perché quel famigerato tempo, che avrebbe la presunzione di spuntarla nell’impresa di fiaccare gli animi e smorzare gli entusiasmi, qui è costretto a chinare la testa, impotente. Inutile sfidare un’energia che non ha età e che, anzi, proprio dall’età trae le sue risorse. Poiché è proprio la determinazione dei veterani ad alimentare la grinta dei più giovani, dando vita ad un circolo virtuoso ricco e inesauribile.
PER SFIDA
Una volata tirata alla morte, il traguardo tagliato davanti a tutti, la medaglia di campione italiano al collo. Eppure, nessuno slancio di gioia: sul volto crucciato solo fatica e delusione. “Mi sentivo in gran forma e contavo di migliorare il mio record, ma non ci sono riuscito”, lamenta Alessandro Cipriani, già detentore del primato italiano M50 nei 400 ostacoli.
Duro agonismo e competizione sfrenata: i Master sono anche questo. Agguerriti nella ricerca del risultato, ma mai del tutto soddisfatti, perché si poteva sempre dare di più: chiudere in un tempo inferiore, saltare con maggior precisione, gestirsi con tattica superiore. Davvero l’importante è partecipare? Essere presenti, certo, non mancare nessun campionato, restando però sempre concentrati sull’obiettivo principe: migliorare.
Qualcuno pensa che, dopo una certa età, sarebbe più opportuno limitarsi alla tapasciata paesana, accontentandosi di portare a casa una confezione di pasta o di caffè. Come se esistesse un tempo massimo, superato il quale qualsiasi impegno agonistico apparirebbe privo di senso. Prive di senso risulterebbero invece proprio tali idee, se messe a confronto con i pensieri e le espressioni che colorano questi campionati. Il saltatore che impreca per un millimetro mancato, l’ostacolista che si ostina su un passo perduto, la mezzofondista assente alla premiazione perché chiamata al controllo antidoping. Dove sta la differenza tra queste competizioni e quelle degli atleti professionisti? Cambiano i numeri, ovvio, ma non l’atmosfera: concentrazione, grinta e determinazione sono le stesse.
La tensione verso il risultato è talmente decisa che è facile assistere a veri e propri litigi tra giudici di gara e atleti, qualora questi ultimi non reputino regolare una misurazione. Fino ad arrivare a mettere in discussione persino la validità del foto finish: quando si è saldamente convinti del valore della propria prestazione, neppure la tecnologia fornisce certezze.
Vincitori e vinti, conclusa una gara, già pensano al prossimo campionato. E dopo quello italiano, la sfida si apre sul fronte mondiale. Per molti non sarà affatto una novità, girare il mondo alla caccia del risultato per i più è ormai consuetudine. Ma quest’anno si gioca in casa, quindi le aspettative sono più alte. Chissà chi sarà la più generosa con i nostri atleti azzurri, tra Riccione ed Osaka?
PER COSTANZA
F75, M80, M90. Sigle che fanno rizzare i capelli. Inimmaginabili, fino a quando non si abbia la fortuna di assistere alle prove di questi atleti, e di incontrare sul campo le loro espressioni di allegria e serenità. Si incontrano e si confrontano da generazioni, campioni che, possiamo affermarlo, hanno fatto la storia dell’atletica. I loro aneddoti riuscirebbero a riempire pagine su pagine. Evidentemente, l’esercizio fisico influenza positivamente anche la memoria, considerata la disinvoltura con cui snocciolano nomi, record e annate. È un piacere ascoltare Ottavio Missoni, un solare “under 90”, che ricorda di quando, sedicenne, si aggiudicò l’oro nei 400mt: proprio sulla pista dell’Arena Civica, esattamente settanta anni fa. O Bruno Sobrero, classe 1920 il quale, pur lasciando trapelare un pizzico di nostalgia per certe mitiche staffette, promette scintille ai mondiali di Riccione, dove gareggerà anche nel decathlon. Per tacere, poi, di Giuseppe Ottaviani, categoria M90 (per la precisione, anno 1916): i suoi 100mt in 22”06 parlano da soli.
Quanto al settore femminile, inutile precisare che queste atlete non hanno nulla da invidiare agli uomini di analoga categoria. Anzi, a ben vedere, si potrebbe sostenere che l’unica nota di leggera invidia è quella provata dalla sottoscritta, la quale dubita fortemente di essere in grado di raggiungere, ora come ora, risultati simili a quelli ottenuti da queste campionesse - campionesse che, senz’altro, hanno dovuto lottare non poco per ritagliarsi, nel quotidiano, lo spazio sufficiente ad allenarsi.
Infinita costanza, rinvigorita dai risultati e dalle soddisfazioni. Ma anche dal piacere di ritrovarsi: avversari in uno sprint e compagni in una staffetta, antagonisti su una certa distanza e tifosi l’uno dell’altro su una diversa, ad applaudirsi reciprocamente sopra e sotto il podio.
Se i giovani Master stupiscono per l’elevato livello atletico delle prestazioni, sono però le categorie più anziane ad arricchire di senso questi campionati. Perché, se anche con pantaloni di spugna o calzettoni di cotone si possono stabilire invidiabili primati e se, al di là dei risultati, lo spirito e l’energia non si lasciano intimorire dal tempo che avanza, non è assurdo ipotizzare che chiunque possa ambire al proprio momento di gloria, avendo soltanto la voglia e il coraggio di mettersi alla prova. Un messaggio, forse banale ma necessario, ai ragazzi che si affacciano al mondo dell’atletica: quale più fruttuosa lezione di una giornata da spettatori, in un simile contesto?
PER PASSIONE
“Spostatevi, se no mio marito non riesce a fotografare”, esorta un’atleta dall’alto del podio, rivolgendosi a giudici e fotografi che oscurano la visuale al signore che la sta ammirando, aggrappato alla rete che separa la pista dalla tribuna.
Amore per la corsa e amore per chi corre: passioni che si intrecciano, si fondono, a volte si scontrano.
Passione, appunto. Quella che si legge sui volti degli atleti che abbiamo incontrato, che illumina i loro sguardi e vivacizza le loro parole. Anche se non viene nominata, è evidente che sia lei, qui, la protagonista: in sua assenza, mancherebbero sfide e risultati. Privato del motore primo del proprio meccanismo, qualsiasi sport non avrebbe modo di esistere.
I Master, si sa, non possono permettersi di vivere di atletica. Ciò non toglie che abbiano organizzato la loro vita in modo che non vengano mai a mancare i momenti per dedicarsi a ciò che più li rende vitali: perché mai come in quelle ore di corsa (o in quel salto, o in quel lancio), ci si sente così intensamente e totalmente se stessi. È questo ineffabile e indefinibile senso di appagamento che rende possibili sacrifici altrimenti impensabili – e a molti incomprensibili. E spiega anche perché tanti atleti non perdano occasione di misurarsi in contesti competitivi, nonostante svariate avversità abbiano loro impedito di prepararsi adeguatamente. La passione è contagiosa, e l’adrenalina che impregna l’atmosfera del campo di atletica lo è ancora di più: chi ne è assuefatto, non saprà farne a meno.
Malato di corsa, in quanti se lo saranno sentiti dire. Tra i tanti, certamente anche Umberto Golino, categoria M65, che già da ragazzino correva scalzo attorno alla struttura della pista di Formia, sognando i campioni che si allenavano all’interno. Le prime scarpette le ebbe in regalo dall’autista di autobus che, vedendolo ogni giorno, si era impietosito di tanta folle determinazione. Ora Umberto fa il nonno a tempo pieno, ma la sua prima passione non si è affatto spenta, e gli frutta ancora notevoli soddisfazioni - del tutto simili a quelle dei campioni che, allora, vagheggiava.
C’è poi chi sul podio non riesce più a salire, chi non vi ha mai messo piede e chi non lo avvicinerà mai. Ma non per questo demorde. Spesso il contesto è più gratificante della singola prova o, addirittura, è tutto ciò che fa da contorno alla gara a dare un senso alla gara stessa. I programmi di allenamento, i giorni di fatica e quelli di riposo, le varie tappe di avvicinamento: tanti tasselli a comporre il mosaico di un momento. Che può riuscire più o meno bene, ma che è talmente ricco di colori e di sfumature da risultare comunque indelebile.
Come indelebile è la prestazione di ogni singolo atleta, di qualsiasi sesso, di qualunque categoria.
venerdì 1 giugno 2007
Maratonina Città di Bologna 2007
N. 272 - giugno 2007
Da ormai tre anni, ogni prima domenica di aprile l’Ippodromo di Bologna apre le sue porte a corridori con due sole gambe. E’ questo infatti il punto di partenza e arrivo della Maratonina Città di Bologna, il cui percorso non tocca il centro storico, bensì si snoda tra strade di periferia fino a lambire il limitrofo comune di Castel Maggiore.
Cielo plumbeo e aria impregnata dell’umidità lasciata dal recente acquazzone: condizioni non certo ideali per i 420 atleti impegnati nella competizione. Non sono però mancate le grandi prestazioni, come quella di Ilaria Bianchi, atleta toscana che in questa regione ha già siglato due record personali: oggi, con 1.14.31, dopo il precedente conquistato meno di un mese fa a Pieve di Cento. Senza battaglia anche la gara maschile: John Rotich Kipsiele, detentore di un personale di 1.03.49, ha staccato gli avversari verso il quarto chilometro, completando senza pensieri la sua prova.
Nonostante l’organizzazione attenta, l’ottima struttura ricettiva e il percorso tecnicamente interessante, resta la nota dolente della mancata chiusura al traffico: un vero peccato per questa manifestazione, che meriterebbe senz’altro più attenzione. E un vero peccato per una città come Bologna, che a causa di analoghe problematiche ha dovuto rinunciare anche alla sua maratona.
Da ormai tre anni, ogni prima domenica di aprile l’Ippodromo di Bologna apre le sue porte a corridori con due sole gambe. E’ questo infatti il punto di partenza e arrivo della Maratonina Città di Bologna, il cui percorso non tocca il centro storico, bensì si snoda tra strade di periferia fino a lambire il limitrofo comune di Castel Maggiore.
Cielo plumbeo e aria impregnata dell’umidità lasciata dal recente acquazzone: condizioni non certo ideali per i 420 atleti impegnati nella competizione. Non sono però mancate le grandi prestazioni, come quella di Ilaria Bianchi, atleta toscana che in questa regione ha già siglato due record personali: oggi, con 1.14.31, dopo il precedente conquistato meno di un mese fa a Pieve di Cento. Senza battaglia anche la gara maschile: John Rotich Kipsiele, detentore di un personale di 1.03.49, ha staccato gli avversari verso il quarto chilometro, completando senza pensieri la sua prova.
Nonostante l’organizzazione attenta, l’ottima struttura ricettiva e il percorso tecnicamente interessante, resta la nota dolente della mancata chiusura al traffico: un vero peccato per questa manifestazione, che meriterebbe senz’altro più attenzione. E un vero peccato per una città come Bologna, che a causa di analoghe problematiche ha dovuto rinunciare anche alla sua maratona.
giovedì 1 febbraio 2007
La storia infinita
N. 268 - febbraio 2007
Medaglia d’oro a New York, categoria M60, in 2h57’12”: la soddisfazione più splendente, ma solo l’ultima di una lunga serie. Gaetano Materia, infatti, di ottimi piazzamenti ne ha conquistati un’infinità. Tra i fondatori del movimento podistico bolognese, negli anni dell’austerity e delle domeniche senz’auto, ora presidente della Polisportiva San Rafèl, Gaetano ha sempre guadagnato posizioni di prestigio in tutte le gare che ha corso. Circa sessanta maratone, comprese le ultra – con quel famigerato Passatore che, nonostante l’abbia fatto soffrire per tre anni consecutivi, senza mai appagarlo pienamente, resta tra i ricordi più vivi. In uno sport in cui spesso le emozioni trascendono qualsiasi risultato, può anche capitare che le beffe della sorte rendano amari sudati successi. Come accadde alla maratona di Mirandola, quando Gaetano, dopo aver realizzato il suo personale (2h33’46”), fu squalificato per avere accettato una spugna da uno spettatore non autorizzato.
Sono comunque poche le ombre che offuscano un percorso tanto luminoso, dove ogni traguardo è accompagnato da una storia, in un solido intrecciarsi di agonismo e umanità: la suggestione della Romaratona, il calore dei tifosi che lo acclamano nella maratona della sua città, la vittoria in staffetta ai campionati mondiali Master di Riccione. Fino a New York, 5 novembre 2006. Un obiettivo studiato, preparato con forza e determinazione. Un obiettivo centrato: ancora una volta, non certo l’ultima. Nel 2007 i mondiali master torneranno a Riccione, e Gaetano avrà ancora molto da raccontare.
Medaglia d’oro a New York, categoria M60, in 2h57’12”: la soddisfazione più splendente, ma solo l’ultima di una lunga serie. Gaetano Materia, infatti, di ottimi piazzamenti ne ha conquistati un’infinità. Tra i fondatori del movimento podistico bolognese, negli anni dell’austerity e delle domeniche senz’auto, ora presidente della Polisportiva San Rafèl, Gaetano ha sempre guadagnato posizioni di prestigio in tutte le gare che ha corso. Circa sessanta maratone, comprese le ultra – con quel famigerato Passatore che, nonostante l’abbia fatto soffrire per tre anni consecutivi, senza mai appagarlo pienamente, resta tra i ricordi più vivi. In uno sport in cui spesso le emozioni trascendono qualsiasi risultato, può anche capitare che le beffe della sorte rendano amari sudati successi. Come accadde alla maratona di Mirandola, quando Gaetano, dopo aver realizzato il suo personale (2h33’46”), fu squalificato per avere accettato una spugna da uno spettatore non autorizzato.
Sono comunque poche le ombre che offuscano un percorso tanto luminoso, dove ogni traguardo è accompagnato da una storia, in un solido intrecciarsi di agonismo e umanità: la suggestione della Romaratona, il calore dei tifosi che lo acclamano nella maratona della sua città, la vittoria in staffetta ai campionati mondiali Master di Riccione. Fino a New York, 5 novembre 2006. Un obiettivo studiato, preparato con forza e determinazione. Un obiettivo centrato: ancora una volta, non certo l’ultima. Nel 2007 i mondiali master torneranno a Riccione, e Gaetano avrà ancora molto da raccontare.
venerdì 5 gennaio 2007
New York City Marathon 2006
N. 267 - GENNAIO 2007
Pare che quella di New York sia la maratona con la più bassa percentuale di ritirati. Sarà per il fragore della folla, che incita lungo quarantadue chilometri ogni singolo podista, o forse per il carattere mitico di questa manifestazione, che trasforma anche i più sedentari in eroici atleti, oppure per l’atmosfera da grande evento, che si respira dal primo all’ultimo giorno. Di fatto, risulta quasi impossibile tornare a casa senza la medaglia al collo. Sottolineo, quasi.
Ho riposto tante speranze in questa gara. Forse troppe. Un’overdose di aspettative: mie, di chi mi sta vicino, di chi crede nelle mie capacità. Eppure, so bene di non essere in perfette condizioni, ma confido nel potere taumaturgico dell’esperienza newyorkese e incrocio le dita.
Grazie al mio precedente piazzamento e alle ambiziose previsioni, quest’anno godo di un trattamento di favore: al riparo dal freddo e dalla calca, la lunga attesa può diventare una piacevole occasione di relax e concentrazione. Quale migliore auspicio, poi, del sorriso di Stefano Baldini, incrociato ai piedi del ponte, pochi minuti prima dello sparo?
Eccomi dunque a rivivere la maratona di New York. Fu qui che esordii, nel 2002, quando a malapena sapevo che cosa significasse correre. E qui sono tornata ogni anno, credendo sempre che fosse l’ultimo: e sempre assaporando le medesime emozioni, pur nel variare degli obiettivi.
Può succedere però che gli ingranaggi si incastrino e che la ruota non giri per il verso giusto: anche nel contesto più favorevole, un meccanismo inceppato stenta a scorrere. Così, dopo un paio di miglia troppo tirate, mi accorgo che i pensieri negativi stanno già pericolosamente inquinando la mia mente. Dove posso arrivare, se già da ora sento odore di fallimento? Cerco di visualizzare immagini positive, sperando che queste possano dissolvere il piombo che sta piantando le mie gambe. In effetti, dopo il decimo chilometro procedo più sciolta.
Go, Vale, go! E’ buffo come gli americani pronuncino il mio diminutivo (stampato sulla canotta): talmente curioso che, la prima volta, mi ci volle un po’ per realizzare che quel Veil incitava proprio me. Lo ripeto anch’io, go Vale, go! Sono forte, ce la posso fare, ce la devo fare. Ma cos’è l’angoscia che mi prende quando, all’ottavo miglio, i percorsi si uniscono e la strada è inondata da un mare di gambe? E il panico che mi assale ad ogni ristoro? E’ evidente che non ho superato il trauma fisico e morale dell’incidente di Carpi, quando sono stata letteralmente scaraventata sul tavolo dei rifornimenti, al decimo chilometro della maratona.
Il Queensborough Bridge dà il colpo di grazia al mio arto acciaccato, e a nulla serve il boato della folla, in uno dei passaggi più entusiasmanti della gara. Non mi sto godendo proprio nulla, e una simile sgradevole sensazione qui, nella più magica delle maratone, non è assolutamente ammissibile: se la sofferenza supera l’euforia, non ha senso continuare.
Ma cosa succede se ci si ritira a New York? Già l’esperienza del ritiro è frustrante in sé. Figurarsi quando si verifica in un contesto tanto fuori dalla norma. All’esterno del percorso, si trovano pullman che raccolgono i podisti malandati: offrono assistenza, acqua e un telo di alluminio, ma devono ovviamente aspettare la coda della gara per dirigersi verso l’arrivo. Cioè, diverse ore. La metropolitana, col pettorale, è gratuita. Ma trovare una stazione è un’impresa, e vagare per le strade seminudi e sudaticci, ad una temperatura di una decina di gradi, non è molto igienico.
Ormai prossima ad una crisi isterica, mi salvo saltando su un taxi. Fortunatamente il mio albergo è vicino all’arrivo, così indosso in fretta qualcosa e mi appresto a recuperare la mia sacca. Ho un po’ di problemi a capire dove sia il punto di raccolta, fino a quando un volontario compassionevole, colpito dalla mia disperazione, mi fornisce le giuste indicazioni. Ricevo i complimenti. Non l’ho finita, preciso. Oh, non importa, andrà bene l’anno prossimo!
Per quattro volte, a New York, ho tagliato il traguardo con le lacrime agli occhi. Hanno tutt’altro sapore le lacrime di oggi. Le ingoio con amarezza. E già penso a un’altra occasione. Non so quando e non so dove, ma avrò la mia rivincita.
Pare che quella di New York sia la maratona con la più bassa percentuale di ritirati. Sarà per il fragore della folla, che incita lungo quarantadue chilometri ogni singolo podista, o forse per il carattere mitico di questa manifestazione, che trasforma anche i più sedentari in eroici atleti, oppure per l’atmosfera da grande evento, che si respira dal primo all’ultimo giorno. Di fatto, risulta quasi impossibile tornare a casa senza la medaglia al collo. Sottolineo, quasi.
Ho riposto tante speranze in questa gara. Forse troppe. Un’overdose di aspettative: mie, di chi mi sta vicino, di chi crede nelle mie capacità. Eppure, so bene di non essere in perfette condizioni, ma confido nel potere taumaturgico dell’esperienza newyorkese e incrocio le dita.
Grazie al mio precedente piazzamento e alle ambiziose previsioni, quest’anno godo di un trattamento di favore: al riparo dal freddo e dalla calca, la lunga attesa può diventare una piacevole occasione di relax e concentrazione. Quale migliore auspicio, poi, del sorriso di Stefano Baldini, incrociato ai piedi del ponte, pochi minuti prima dello sparo?
Eccomi dunque a rivivere la maratona di New York. Fu qui che esordii, nel 2002, quando a malapena sapevo che cosa significasse correre. E qui sono tornata ogni anno, credendo sempre che fosse l’ultimo: e sempre assaporando le medesime emozioni, pur nel variare degli obiettivi.
Può succedere però che gli ingranaggi si incastrino e che la ruota non giri per il verso giusto: anche nel contesto più favorevole, un meccanismo inceppato stenta a scorrere. Così, dopo un paio di miglia troppo tirate, mi accorgo che i pensieri negativi stanno già pericolosamente inquinando la mia mente. Dove posso arrivare, se già da ora sento odore di fallimento? Cerco di visualizzare immagini positive, sperando che queste possano dissolvere il piombo che sta piantando le mie gambe. In effetti, dopo il decimo chilometro procedo più sciolta.
Go, Vale, go! E’ buffo come gli americani pronuncino il mio diminutivo (stampato sulla canotta): talmente curioso che, la prima volta, mi ci volle un po’ per realizzare che quel Veil incitava proprio me. Lo ripeto anch’io, go Vale, go! Sono forte, ce la posso fare, ce la devo fare. Ma cos’è l’angoscia che mi prende quando, all’ottavo miglio, i percorsi si uniscono e la strada è inondata da un mare di gambe? E il panico che mi assale ad ogni ristoro? E’ evidente che non ho superato il trauma fisico e morale dell’incidente di Carpi, quando sono stata letteralmente scaraventata sul tavolo dei rifornimenti, al decimo chilometro della maratona.
Il Queensborough Bridge dà il colpo di grazia al mio arto acciaccato, e a nulla serve il boato della folla, in uno dei passaggi più entusiasmanti della gara. Non mi sto godendo proprio nulla, e una simile sgradevole sensazione qui, nella più magica delle maratone, non è assolutamente ammissibile: se la sofferenza supera l’euforia, non ha senso continuare.
Ma cosa succede se ci si ritira a New York? Già l’esperienza del ritiro è frustrante in sé. Figurarsi quando si verifica in un contesto tanto fuori dalla norma. All’esterno del percorso, si trovano pullman che raccolgono i podisti malandati: offrono assistenza, acqua e un telo di alluminio, ma devono ovviamente aspettare la coda della gara per dirigersi verso l’arrivo. Cioè, diverse ore. La metropolitana, col pettorale, è gratuita. Ma trovare una stazione è un’impresa, e vagare per le strade seminudi e sudaticci, ad una temperatura di una decina di gradi, non è molto igienico.
Ormai prossima ad una crisi isterica, mi salvo saltando su un taxi. Fortunatamente il mio albergo è vicino all’arrivo, così indosso in fretta qualcosa e mi appresto a recuperare la mia sacca. Ho un po’ di problemi a capire dove sia il punto di raccolta, fino a quando un volontario compassionevole, colpito dalla mia disperazione, mi fornisce le giuste indicazioni. Ricevo i complimenti. Non l’ho finita, preciso. Oh, non importa, andrà bene l’anno prossimo!
Per quattro volte, a New York, ho tagliato il traguardo con le lacrime agli occhi. Hanno tutt’altro sapore le lacrime di oggi. Le ingoio con amarezza. E già penso a un’altra occasione. Non so quando e non so dove, ma avrò la mia rivincita.
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