sabato 18 novembre 2017
lunedì 18 settembre 2017
Giro Podistico Eolie 2017 - Capitolo 3: ancora Lipari, sempre Vulcano
Da qui si vedono tutte, sette perle placcate dall'ambra del
sole che digrada. Persino Alicudi, la più lontana, la più selvaggia. Chissà se
ospita ancora quel bizzarro pittore francese che ci incantò con la sua immagine
bohémien tanti anni fa. Quanto tempo è passato? Da quanto tempo non osservavamo
da questa prospettiva il panorama dei nostri sogni? La salita al cratere è una
passeggiata eppure, per una ragione o per l’altra, quella bocca rovente
continuava a sfuggirci. Stavolta no, a costo di salire con una gamba sola. Che,
in effetti era quello che temevo: più che di dover rinunciare a gareggiare,
avevo paura che, costringendomi a farlo, avrei finito col ritrovarmi nell'impossibilità persino di camminare. Ho invece conquistato la mia montagna
e ora la respiro, quasi a farla mia, nella disperata speranza di non lasciarla
più.
Siamo a metà dell’opera. Mancano “solo” due prove,
anticipate da un giorno di riposo – tanto meritato quanto sofferto. Di
rilassarsi non si parla proprio: il fotoreporter parte all'alba a caccia di
scenari suggestivi, l’atleta si agita nel sonno col terrore di morire dal
dolore alzandosi dal letto. Sopravvivo, ma la situazione è decisamente
preoccupante. C’era da aspettarselo. Anzi, sono già andata oltre le più
ottimistiche previsioni. Eppure, l’idea che la strada si possa interrompere non
mi scuote affatto. Duole sempre ai primi passi, poi si stabilizza e quasi passa
in sordina: è stato così nei giorni scorsi, lo sarà anche nei prossimi. Dovrò
vedermela con la tappa più antipatica, quella che l’anno scorso ha sancito il
mio ritiro: una sfida tra me e lei, e vincerò io. Non ho dubbi. Sto sfidando la
logica, la fisica, la ragione. E mi sto divertendo un sacco. Difficile capire
dove finisca la mia caparbietà, e dove inizi il desiderio di stupire chi è in
ansia per me: la disperata voglia di correre si fonde con l’estrema necessità
di non deludere. Troppi errori su queste strade, è ora di finirla.
Cinque giri di un chilometro abbondante, su e giù per il
centro di Lipari. Ciottolati, curve secche e turisti distratti: un incubo. Se
mi lasciassi trascinare dalla foga degli sprinter sarei spacciata – ovvero,
impiccata già al primo muro. Ritmo da crociera anche oggi, è l’unica strategia
per restare a galla. Con calma mi avvicino alle due ragazze in più diretta
competizione, nella discesa sono leggermente avanti quando, in prossimità del
ristoro, un piede si aggancia al mio e trovo l’inferno. In una manciata di
secondi vedo scorrere le immagini più catastrofiche: schiantata sui pietrini,
paralizzata dalla rabbia e dal dolore. Eh no, stavolta no! Barcollo come un
clown, gambe e braccia all'aria, rifiutando di cedere alla forza di gravità.
Signori e signore, oggi comiche. E per la gioia di tutti voi, Ridolini resta in
piedi. Anzi: più cattivo di prima, parte alla rincorsa di chi gli ha fatto lo
sgambetto. Si tratta solo di aspettare il rettilineo più scorrevole e il
sorpasso è fatto. Ancora un paio di giri, può ancora accadere di tutto, ma
sento che lo scoglio è superato: sto già assaporando lo sguardo stupefatto di
chi mi aspetta trepidante, più incerto di me sulle mie reali possibilità.
Potrò dire di avercela fatta solo al traguardo di Vulcano,
sabato mattina. Mi piacerebbe, almeno in questa occasione, attivare la modalità
“gara”. Perché fino ad ora non l’ho innescata: non mi sono spremuta, non ho
tirato alla morte, non ho patito la competizione. Mi sono impegnata il minimo
indispensabile, esclusivamente per il piacere di partecipare. Certo giorno dopo
giorno, risultato dopo risultato, l’euforia aumentava: anche il confronto con
le passate edizioni si faceva sempre meno avvilente. Ovvio che il cavallo
cominciasse a scalpitare. Insomma: non intendo lanciarmi come un kamikaze
contro il gruppo di testa, vorrei però vivere l’agone fino in fondo. Galeotta è
la discesa: come faccio a trattenermi se si parte in picchiata? Lo so che al
ritorno questo tratto mi spezzerà le gambe, ma adesso è impensabile non
slegarle. Che almeno mi diverta un po’, perché sul piano sono già piantata: qui
emerge tutto ciò che mi manca. Senza allenamento, senza attitudine al ritmo,
senza prove di velocità non si improvvisa niente: il motore non gira. Per
quanto si provi a spingere, sembra di non avanzare affatto. Così arrivo già in
affanno sul falsopiano – che vivo come una salita allucinante. Mi sorpassano a
frotte, sono una palla sgonfia. Mi concentro sulle mie forze, sull'andatura,
attendendo come un miraggio il giro di boa. Peccato che la discesa non sia
proprio di quelle che piacciono a me: ti lascia prendere fiato, sì, ma non ti
consente di volare. Se non altro, è sufficiente a guadagnare alcune posizioni.
Devo sfruttare al massimo questo tratto, per poi sputare sangue sul finale. Un
dosso diabolico, poi di nuovo sul piano. Ancora una volta, fianco a fianco con
Francesca. Ovviamente lei ne ha più di me, ma è grazie alla sua forza che
riesco ad affrontare l’ultima salita con una grinta insperata. Sto morendo, ma
è così che vorrei morire: scoppiando di gioia.
Ho vinto. E non parlo della posizione, né del premio di
categoria: parlo della mia battaglia. A
tutti quei discorsi su cosa si possa ottenere solo con la forza di volontà non
avevo mai creduto. Invece… Non so dove abbia trovato le risorse, né come abbia
potuto vincere il dolore: non so quando guarirò, né quando tornerò a correre. Ho
però una nuova certezza: posso farcela, possiamo farcela. Non esistono ostacoli
insormontabili, solo montagne da conquistare. Come Vulcano. La sua energia non
si esaurisce. Ed è in noi.
giovedì 14 settembre 2017
Giro Podistico Eolie 2017 - Capitolo 2: da Lipari a Salina
Servirà a qualcosa questa melma maleodorante? C’è chi la
ritiene miracolosa e chi, come la sottoscritta, ai miracoli non crede affatto.
È però vero che, quando la situazione si fa disperata, si finisce con l’aggrapparsi a qualsiasi scoglio. Così, eccomi immersa nella
pozza, col viso cosparso di fango, a pregare che almeno la pelle, se non le
articolazioni, possa uscirne rigenerata. Poi impacchi di ghiaccio, passeggiate
nel mare, massaggi di scarico; e ancora: elettrostimolazioni, rullate sulla
pallina da tennis, esercizi di allungamento. Un lavoraccio gestire questo
tendine, ma non vogliamo fargli mancare nulla: deve capire quanto ci stia a
cuore, quanto sia importante che si alteri il meno possibile, quanto sia
necessario che ci accompagni paziente fino all'ultimo giorno.
Ho deciso di continuare, quantomeno di provarci. Sarà
l’entusiasmo della prima prova, superata al di sopra di ogni aspettativa; sarà
l’incapacità di scindere il mio soggiorno alle Eolie dalla partecipazione alla
gara; sarà che la fiducia accordatami dalle persone che animano questo evento
mi ha trasmesso energia e positività. Insomma: salirò su quella barca, diretta
a Lipari. Elettrizzante la seconda tappa: un colpo di schioppo. Qualche
tornante, giusto per scaldare il motore, quindi un susseguirsi di saliscendi a
tenere alta la frequenza, per poi volare in picchiata fino al traguardo. In un
contesto quasi lunare: da uno sperduto villaggio sul mare, sfiorando spettrali
cave di pomice, per arrivare sul piccolo porto che sembra attendere i nostri
tuffi. Poco più di sei chilometri, da buttare giù tutti d’un fiato. Potendo.
Perché oggi la vedo durissima. È necessario un buon riscaldamento, ma da subito
il tallone lancia segnali tutt'altro che incoraggianti e temo molto per quando,
a qualche centinaio di metri dal via, inizierà l’arrampicata.
Può essere che l’adrenalina faccia miracoli. O forse è il
bisogno di correre, la gioia di correre, ad annichilire tutti i dolori.
Mantengo la calma, non dispongo di alcuna risorsa per poter rincorrere chissà quale
obiettivo. Mi basta riuscire ad avanzare, passo dopo passo, con le mie
scarpette, il mio chip e il mio magico pettorale ben spillato. Mi stupisco di
essere nel gruppo delle atlete che ieri avevo davanti a me: mi sbalordisco
quando, senza forzare, le lascio alle mie spalle. Al mio fianco resta
Francesca, e quasi mi dispiace dare vita ad una sfida con lei: perché è
un’amica, perché non vorrei si sentisse offesa, perché ci siamo dette che siamo
qui solo per divertirci. E allora divertiamoci, ognuna vivendo la sua gara. Io
non posso permettermi di andare oltre i miei limiti, già troppo esigui. Posso
solo regolare il mio respiro, modularlo sulle difficoltà del percorso,
impostarlo sul ritmo della mia falcata. E quando la strada comincia a scendere,
resta solo l’aria sottile da attraversare in un baleno, abbandonando ogni ansia
e ogni tensione. Finalmente lasciarsi andare. Verso un altro traguardo. Mai
come quest’anno ogni arrivo è una vittoria, quale che sia la classifica. Non
fermarmi più, ecco cosa vorrei. Infatti continuo a correre, come se dovessi
defaticare: come se fossi un’atleta seria. Che di serio, ora, non ha proprio
nulla: quel sorriso, incollato sul volto, non accenna a smorzarsi. Quante volte
è successo? Quante volte Jader, quasi più emozionato di me, mi ha guardata incredulo, chiedendomi come abbia fatto? Ce l’ho fatta, anche oggi. Domani?
Sapete cosa vi dico?
Che domani non ce la facciamo. Ecco la sentenza di Manuele, nel bel mezzo
di un soporifero bagno di sole sulle sabbie nere. Lo seppelliamo con una risata
e ci buttiamo in acqua per rinfrescare muscoli e pensieri. Vorrei riuscire a
distendere entrambi, ma la prospettiva della terza tappa è tutt'altro che
rassicurante. La più lunga, la più insidiosa, la più difficile: difficile da interpretare,
da gestire, da sopportare. Persino nelle migliori condizioni. Il ricordo della
crisi nera dell’anno scorso, a causa della quale mi giocai la vittoria del
Giro, scotta ancora. Quest’anno non ho niente da giocarmi, niente da vincere, né
da perdere. Cosa mi preoccupa, allora? Il mio tendine, ovviamente, e il mio
fisico. Né l’uno né l’altro sono preparati per affrontare quasi quindici chilometri:
da maggio ad oggi, la distanza massima che ho messo nelle gambe equivale ai sette
chilometri della prima prova, le uscite totali di corsa cinque o sei (a
esagerare). Che abbia ragione Manuele?
Vedrai, oggi ti
stupirò. Lo affermo convinta, e il bello è che ci credo davvero. Il percorso
presenta delle novità rispetto alle precedenti edizioni, ma i tratti salienti
li conosco bene, e stavolta non posso sbagliare. Devo partire piano, pianissimo:
in fondo non ho scelta, la velocità è lungi da me e altrettanto lontana è la
resistenza allo sforzo. Non so se sia più preoccupata del dolore o della
capacità di sopportazione. La soluzione è una sola: mettere al bando ogni
assillo e godermi le strade di Salina. Come due giorni fa a Vulcano, lascio che
tutte si scatenino finché possono. Io sono una semplice tapasciona, ad una qualsiasi
camminata domenicale. Ecco Francesca. Non intendo
sforzarmi per tenere il suo passo, l’istinto di sopravvivenza ha la meglio sull'agonista che è in me. Ci alterniamo comunque nella salita e recuperiamo diverse
posizioni. La parte nuova del percorso si snoda in un dedalo di viuzze dove
sembra di giocare a nascondino, con saliscendi che innervosiscono il ritmo. Poi
finalmente, la discesa: finalmente posso mollare i freni. So che a due
chilometri dall'arrivo mi aspetta un muro dove potrei morire, e so anche che il
rettilineo finale mi vedrà strisciare. Ma ora voglio solo sentirmi libera di volare.
È uno spettacolo: questo luogo, questa gara, questa mia incredibile forza. È come se mi
vedessi dal di fuori: l’immagine della gioia di correre. Tralasciando per un
attimo il suo reportage fotografico, Jader mi incita con foga, annunciandomi
che ho guadagnato un incredibile vantaggio sulla terza in classifica. Stai
zitto! Non lo voglio sapere: non sia mai che l’ansia da prestazione inquini la
mia leggerezza, finendo con attanagliarmi i muscoli. Non devo pensare a nulla,
nulla devo ascoltare. Oggi conta solo il qui e ora. Oggi conto solo io: il
miracolo di Valentina che corre. E pazienza se sull'ultimo strappo avrò qualche
cedimento, pazienza se affronterò l’ultimo chilometro quasi barcollando. Taglio
il traguardo in terza posizione. Non so se ridere o piangere.
Te l’avevo detto che ti avrei stupito. Ancora
una volta: come hai fatto? Chi può dirlo? Chi può dire quali saranno le
conseguenze di questo azzardo? Ci penseremo al momento opportuno, adesso
godiamoci una prelibatezza. Del resto, perché non ammetterlo? Lo scopo di tante
fatiche è uno solo: intingere la brioche calda in una succulenta granita.
lunedì 4 settembre 2017
Giro Podistico Eolie 2017 - Capitolo 1: Vulcano
Nel certificare
che il motore potrà sopportare un altro anno di attività agonistica,
il medico sportivo mi chiede quale sarà la mia prossima gara. Saperlo! Tasta il
mio tendine acciaccato, legge l’esito dell’ecografia e sentenzia: almeno un anno
senza correre. Ottimo. Proprio quello che avrei voluto sentirmi dire, a due
settimane dalla partenza del giro a tappe delle Eolie. Non che pensassi di
poter gareggiare, ma da lì a vedermi ferma per “almeno” un altro anno…
Mi ero
iscritta con le migliori intenzioni, seppure già infortunata. Uscita malconcia
dalla mezza maratona di Bibione (7 maggio), confidavo che oltre un mese di stop
mi avrebbe consentito di ripartire adeguatamente. Invece, nessuna luce all'orizzonte.
E a forza di dire che c’è ancora tempo, il tempo passa e io resto ferma ai box.
Comincia a prospettarsi una settimana di solo mare: un sogno per tanti, un
incubo per noi. Urge una strategia di avvicinamento acutamente persuasiva: fino
all'ultimo istante, vietato accennare al piano B (ovvero l’ultima spiaggia, nel senso
letterale della definizione).
Metà agosto,
è ora di sondare il terreno. Mi butto nella mischia (si fa per dire) della
camminata al Parco Cavaioni. Solo l’idea di accennare un passo di corsa mi
terrorizza, vorrei riuscire a non aver il pensiero fisso su quel tallone, ma è
impossibile. Mi incammino, in coda a tutti, quasi fossi ad una scampagnata,
quasi non ricordassi come si fa a correre: perché di fatto è così. Alle prime
falcate mi sembra di volare, un’euforia che mi stordisce, ma basta poco per
sentirsi piombare addosso tutta la pesantezza di tre mesi abbondanti di
inattività: goffa, scoordinata, tutta storta. Una fantoccio mosso da un
marionettista ubriaco. Manca il fiato, mancano i muscoli, manca il ritmo. Non
manca invece il dolore. Sopportabile, sì, ma sempre lì, a ricordarmi che nulla
è risolto. Però, seppure con diversi tratti di passo, riesco ad arrivare alla
fine con un bel sorriso. Quasi quasi ci credo! Tanto da prendere la folle
decisione di attaccarmi un pettorale di lì a due giorni: così, giusto per
vedere l’effetto che fa. Pazienza se camminerò pressoché tutta la salita – e buona
parte della discesa sterrata: è ciò che ho sempre fatto su quel percorso, dove
riesco a dare il peggio di me. Disattivata
la modalità agonistica, fregandomene altamente sia del crono che della
posizione, sono persino capace di divertirmi. Ho sofferto? Un po’, comunque meno di
quanto temessi. Che da qui si possa ripartire? L’entusiasmo gioca brutti
scherzi, conduce sottilmente all'illusione. Illusione di breve respiro: il
giorno seguente zoppico, e sul mio tallone sembra essere cresciuta una pallina
da tennis. Reset. Una settimana senza muovere un passo. Mi tuffo in piscina
rischiando l’ipotermia, macino chilometri sulla mia mountain bike da strapazzo,
mi sfianco di esercizi per potenziare muscoli invisibili. Tutto per giungere ad
una sola conclusione: se non sono fatta per correre, lo sono ancora meno per
qualsiasi sport alternativo. Ergo: o mi rimetto in sesto, oppure mi dovrò
dedicare all'uncinetto.
La camminata
paesana del venerdì sera cade a fagiolo. La valigia è ormai pronta, mancano
solo le scarpe tecniche. Corro qualche centinaio di metri, mi fermo e penso che
dovrò disfare tutto: rimettere nel cassetto short, top, calzini che non
potranno servirmi. Poi all'improvviso avverto come una zaffata di zolfo…
Riparto, e non mi fermo più. Infischiandomene dell’erba alta, della terra
sconnessa, del vento contrario: infischiandomene dei dolori. Ce la posso fare. Ce
la farò.
Lo zolfo ora
è qui: lo vedo, lo sento, lo amo. Mai come questa volta la vacanza si prospetta
incerta, mai come questa volta i dubbi sono superiori alle certezze. La mia
costante insicurezza è ora prevaricata dalla triste realtà: le possibilità sono
ridotte al lumicino. E non mi riferisco al mio piazzamento, bensì alla mia
partecipazione: sarò al via, chissà se sarò al traguardo. La posta in gioco è
altissima, e va ben oltre il semplice esito di una gara. Siamo qui a dispetto
di ogni logica, contro ogni ragionevolezza: siamo qui da folli, da sognatori. Ed
è così che mi presento alla partenza. Senza condizione, senza allenamento,
senza prospettive. Andate pure, scatenatevi. Io procedo cauta, con calma,
assaporando passo dopo passo il miracolo di esserci. Inizia la salita e il
tendine urla. Ho paura: paura che ceda il fisico, paura che ceda la
determinazione. Un attimo di tentennamento, giusto il tempo di aggiustare il
respiro e rimettersi in carreggiata. Ed ecco la discesa. Solo altri due giri,
che sarà mai? Ho già realizzato più di quanto sia riuscita a compiere negli
ultimi quattro mesi, e non intendo demordere. Procedo col mio passo: lento, tutt'altro che competitivo, ma incessante. Per non dire instancabile. Al secondo
giro comincio a raccogliere cadaveri – io, che sono un rottame. Non avrei
scommesso un centesimo su di me, avrei giurato che quella rampa mi avrebbe
costretta quantomeno a camminare, invece non mi fermo un attimo. Non sono in
trance agonistica, tutt'altro. Nessuno sforzo, nessuna tensione, nessun
accanimento: solo la gioia di riuscire a correre, alla faccia degli infortuni, degli
allenamenti mancati e delle prognosi catastrofiche. E supero anche una delle
favorite. Ormai è fatta. Manca il rettilineo finale, che ovviamente sembra
interminabile. Jader, per quanto incredulo, prova a spronarmi: Dai, che ti sta prendendo! Faccio
spallucce, in fondo che importa? Beh, dai, un pochino importa. In una frazione
di secondo mi ritrovo agonista. Non ho mai avuto il finale, nemmeno al top
della condizione. Cosa potrà mai spingere chi non ricorda neppure cosa sia un
allungo o uno sprint? Eppure… Eppure ho
gestito la tappa in modo superlativo. Me lo dico da sola, ebbene sì. L’anno
scorso la vinsi, oggi ho vinto su me stessa. Non so cosa succederà domani. Senza
dubbio, tra qualche ora il tallone griderà vendetta: vedremo chi saprà gridare
più forte.
domenica 14 maggio 2017
Bibione Half Marathon 2017
Quando è buona la prima, meglio volgere lo sguardo e puntare
l’obiettivo su altri orizzonti. Più facile invece indugiare su quella sequenza
di immagini, lasciarle scorrere, cominciare a rielaborarle con l’intento di dar
loro un seguito. Idea, tutto sommato, comprensibile: occorre però valutare con
attenzione annessi e connessi.
Tenere presente, innanzitutto, che le atmosfere e gli
entusiasmi non possono essere replicati. Si può sempre migliorare, è vero, ma è
altrettanto vero che un carico di aspettative gioca facilmente brutti scherzi:
prima, durante e dopo.
È così casuale che un fastidio, che si riteneva archiviato,
si ripresenti simpaticamente ad una decina di giorni dalla gara sulla quale si
è impostata l’intera stagione? Intendo documentarmi sull’argomento, ma ora urge
arginare il disturbo: non hai niente, è tutto nella tua testa.
Già, la mia testa: quella materia perennemente aggrovigliata nel suo grigiore,
incapace di abbandonarsi agli sprazzi di luce che di tanto in tanto la
attraversano. Eppure sarebbe così semplice lasciarsi cullare dai segnali
positivi, ascoltare le voci amiche e affilare gli artigli.
Il clima non aiuta. L’inverno è una stagione infinita, mi
chiedo quando mi libererò dal freddo che si è impossessato di me decisamente da
troppo tempo. Gli allenamenti procedono, ma c’è qualcosa che non mi soddisfa:
una sensazione indefinita, come non fosse mai abbastanza, come fossi in
ritardo. Le gare, intese come tappe intermedie, lanciano messaggi contraddittori. Cosa si diceva, lasciarsi cullare dai segnali positivi?...
L’anno scorso la spiaggia era già completamente attrezzata,
pronta all’assalto dei bagnanti. Oggi solo sabbia. E mare. Decisamente meglio.
La temperatura no, quella non mi piace affatto. Dicono sia l’ideale per correre,
almeno non soffrirete il caldo. Sarà, ma io sogno di gareggiare indossando il
minimo indispensabile, arrivare in un
bagno di sudore e desiderare di tuffarmi nell’acqua gelida. Mi ritiro
dentro al cappuccio, come una tartaruga nel guscio, e cerco un mantra che mi
dia fiducia.
Domenica mattina, risveglio quieto, dopo una tempesta
infernale. Imbacuccata fino alle orecchie, mi avvio alla partenza. Un tiepido sole mi sprona a
scoprirmi un po’: via i guanti. Esagero, via anche i manicotti. Ma sì, dai, si
sta quasi bene. Non pensare agli acciacchi. Non pensare neppure alla variazione
del percorso: sarà una gara nuova, l’idea dovrebbe stuzzicarti. E ricorda:
primi chilometri col freno tirato. Così va bene, no? Ciclabile sul lungomare,
suggestiva. Sabbia sotto i piedi a tratti, ma non più di tanto. Si prosegue su
strada, tracciato scorrevole, ma non mi riesce il cambio di ritmo. Va bene
così, è ancora lunga, conserviamo tutto per un gran finale. A circa un terzo di
gara sorpasso un paio di concorrenti, ottimo incoraggiamento. Peccato che si
stia per imboccare la pineta: sterrato, in pessime condizioni grazie al diluvio
notturno. I fenomeni procedono spediti, infischiandosene delle pozzanghere. I
più scarsi arrancano a zig zag, imprecando nel tentativo di non inabissarsi.
Superfluo rivelare a quale categoria io appartenga. Non lo ricordavo così lungo
questo tratto, forse perché nel 2016, oltre ad essere asciutto, si presentava all’inizio
della gara: ti toglievi il pensiero subito, e avevi tutto il tempo per
recuperare. Oggi, invece, riesce a prosciugare le poche energie che mi sono
rimaste. A coronare la performance, a due chilometri dall’arrivo, riecco uno
dei tanti acciacchi che mi hanno assillato negli ultimi tempi. Non hai niente,
lo vuoi capire o no? Intanto, col traguardo lì a un soffio, mi asfaltano due
atlete arrivate chissà da dove.
Delusione al top. Contavo di terminare la stagione in
bellezza, per ripartire con slancio. Invece chiudo con la coda tra le gambe –
gambe, tra l’altro, fuori uso fino a chissà quando. Avrei fatto meglio a
conservare il bel ricordo dell’anno scorso, anziché cercare improbabili conferme. Come se non sapessi che
le maggiori soddisfazioni sono quelle del tutto inaspettate. Già: come se non
sapessi che nei luoghi che mi catturano non mi stancherò mai di tornare.
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martedì 10 gennaio 2017
Io sono un'isola
Li riconosco
al primo sguardo, non appena mettono il naso fuori dal traghetto.
Individuo subito chi merita di calpestare la mia terra, e chi
invece farebbe meglio a tornare da dove è venuto. Naso arricciato, fronte
aggrottata, pugni serrati sul manico del trolley: siete ancora in tempo a fare
dietro front, risalire a bordo e sbarcare alla
prossima isola. Sopracciglio alzato, occhi sgranati, viso illuminato e
smanioso di essere accarezzato dall’aria: siete arrivati, questo è il vostro
posto. Lo leggo nel vostro incedere incerto e curioso, nel vostro silenzio
gonfio di sorpresa, nel vostro respiro intenso e riconoscente. Siete
frastornati, non riuscite a dare un nome a quel formicolio, a quella sensazione
che è tanto nuova quanto antichissima, a quello stupore che poi tanto stupore
non è. Ci siamo appena incontrati, ma è come se ci conoscessimo da sempre. Non
è così che si definisce il classico colpo di fulmine? Lo so, c’è qualcosa di
malvagio nel mio carisma, impossibile restarne indifferenti: io per primo non
tollero l’indifferenza. Potete odiarmi,
ma non trascurarmi. Siete qui perché mi avete scelto: o perché io ho scelto
voi. Voi che adesso siete in mio possesso: non lo sapete ancora, ma non vi
libererete più di me. La mia luce dilaterà le vostre pupille, le renderà
estremamente sensibili ai riflessi, alle ombre, ai chiaroscuri: non potete
immaginare quante sfumature si staglieranno al vostro orizzonte, quanti colori
si alterneranno nelle ore che scandiscono giornate mai uguali. Questo azzurro
potrebbe all’improvviso mutare in grigio, questo grigio fiorire d’un tratto in
giallo, questo giallo adombrarsi di marrone. E il nero, l’avete mai visto tanto
luminoso? Vi siete mai tuffati nell’oscurità, vi siete mai immersi nella sua
trasparenza? Il sole non si limiterà ad asciugare la vostra pelle: scaldandola,
allargherà i vostri pori, così che possa insinuarsi in essi la mia essenza.
Penetrerò in voi, col mio odore, con le mie sostanze, con la mia natura. Mi
respirate, mi assaporate, sono parte di voi.
Zolfo. Amo questo odore. E questi fumi che sbottano
dalle rocce, dalla terra, dal mare. Forse è il demone che è in me a rendermi
così succube al fascino di quest’isola. Come avessi sigillato un patto col
diavolo: o con una divinità. Vulcano mi ha rapita, ha esercitato su di me un
incantesimo, ha fatto di me una sua creatura. E adesso? Adesso come faccio a
voltargli le spalle? Spezzare la magia è terribilmente rischioso, si può finire
col perdere l’equilibrio, se non addirittura smarrire il senso della realtà.
Ammesso che esista una realtà: che si abbia la certezza di saper distinguere
tra vita vissuta e vita sognata. Perché io sono sicura che, anche a migliaia di
chilometri da qui, mi capiterà di avvertire certi aromi: annuserò come un
segugio, perché avrò bisogno di questi effluvi per ricaricarmi. L’energia
primordiale che ribolle sotto la crosta di questa terra si trasmette nel corpo,
attraversa le fibre e le elettrizza: perciò non posso allontanarmi troppo a
lungo, senza ricaricare le batterie si finisce con lo spegnersi
lentamente. Devo respirarti, Vulcano.
Devo viverti. Perché una volta che sei arrivato qui, non esiste più un altrove.
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