sabato 7 novembre 2015

TCS New York City Marathon 2015

Quando il cervello va in vacanza, si possono prendere decisioni azzardate come, per esempio, quella di partecipare alla maratona di New York. È vero che questo è (e sempre sarà) un mio punto debole: è sufficiente una parola, un minimo cenno che riguardi la città, perché si riaccenda in me l’emozione di correre lungo quelle strade. Potete tessermi le lodi di tutte le maratone del mondo, ma fatico a credere che ne esista un’altra paragonabile a questa: per l’intensità del coinvolgimento, per la partecipazione totale e totalizzante, per il senso di grandezza, di enormità, di unicità.

D’accordo, tutto bellissimo, ma prima di buttarsi bisogna valutare attentamente i rischi: se poi si finisce col tuffarsi alla cieca, non ci si deve stupire delle conseguenze.
Non credo al destino, alla sfiga un po’ si, ma di fatto vedo tutto in mano al caso – o al caos. Un caos è stato il mio avvicinamento alla grande maratona, con una preparazione condizionata da mille fattori: primo tra tutti, l’infortunio che mi perseguita da anni. La situazione sembrava sotto controllo finché,  ad un paio di mesi dall’evento, quando si doveva incominciare a fare sul serio, il dolore si risveglia, arzillo più che mai. Dai, sarà questione di un attimo, vedrai che passa subito. Un accidente. Se ne sta lì, l’infame, a ricordarmi che quella gamba non può spingere:  puoi ostinarti a correre, ma non andrai lontano. Me lo ricorda ad ogni passo, costringendomi a fermarmi in continuazione, non riesco a completare decentemente nessun tipo di allenamento. Ma sono testarda, devo fare un lungo, almeno uno oltre i 30km: stringo i denti, arrivo a 32. A passo di bradipo, ma sempre 32 sono. Due giorni per riprendermi, spuntano acciacchi nuovi. Ma si riparte, con convinzione e con sensazioni via via rassicuranti. Proviamo 35? Ci provo. Ma getto la spugna dopo il decimo: un piede indolenzito, non vado avanti. Mancano due settimane.  La domenica prima di partire sono determinata a completare i 20 km della camminata di Calderara, ma cedo al primo giro: ne ho corsi (male) appena 10, vietato illudersi di riuscire a completare una maratona. I giorni successivi il dolore è insopportabile, sono sempre ferma. Come se non bastasse, arriva un bel raffreddore con tanto di tosse. Posso stare a casa? No, non si può. Che almeno sfrutti l’occasione di Podisti.net, vivendo l’esperienza dalla parte della stampa.

New York ci accoglie sotto il diluvio, ma il mattino successivo il clima è spettacolare, come spettacolari sono i colori di Central Park in questo periodo dell’anno. Lo splendore di questo parco non finirà mai di incantarmi. Corro piano, insieme al gruppo; il dolore è sempre lì, imperturbabile. Provo a non ascoltarlo, a questa andatura è abbastanza sopportabile, magari distraendomi smetto di avvertirlo. Tutti a chiedermi quale sia il mio obiettivo, quando io non ho ancora deciso se partire o meno. Venerdì mattina altra corsetta, identiche sensazioni. Stato d’animo anomalo, il mio. Da un lato, il fascino della città non cessa di colpirmi. Dall’altro, non vorrei (e non dovrei) essere qui. Mi sento un ibrido, né turista né atleta. Indifferente a ciò che mi passa sotto gli occhi, noncurante di ciò che mi circonda; disinteressata a ciò che mangio (e a ciò che non mangio), e a quanto riposo (o non riposo). Assente. Sabato è il giorno più lungo, urge scrollarsi di dosso l’apatia e prendere una decisone salda e inossidabile: correrò questa maratona. Devo dare un senso a questo viaggio: lo devo a me stessa e a chi condivide con me dolori e speranze. Del resto, per me New York e la maratona sono sempre stati una cosa sola: non avrei mai conosciuto questa città se non fosse stato per correrla, e non ci sarei mai tornata se non per la stessa ragione. La ragione per cui sono nuovamente qui, dopo sette anni dall’ultima volta. Adesso non sono preparata, pazienza. La determinazione compenserà le carenze fisiche: per la prima volta nella mia vita, dovrò correre con la testa e col cuore, non potendo contare sulle gambe. Sarà una bella sfida.

Temperatura gradevole già alle cinque di mattina. Non ci speravo, non potrei chiedere di più. Provo una strana commozione, devo continuamente ingoiare le lacrime pur senza una precisa ragione. Non è tristezza, solo un misto di emozioni difficili da controllare. Arriva il momento di entrare in griglia, quindi il trasferimento sul ponte: l’inno americano e il cannone. Sto correndo la mia settima maratona di New York (contando anche quella non terminata). I primi chilometri scorrono fluidi, sorrido ad ogni “Go Vale!”. L’incitazione del pubblico amplifica quella che mi rimbomba dentro: un mantra tutto mio, energia pura che mi sospinge ad ogni passo. Dieci chilometri sono andati, ed è già tanto. La gamba vuole avvertirmi che non sta tanto bene, ma io mi concentro sul pubblico e sul mio dialogo interiore. Non guardo mai il Garmin, butto un occhio al cronometro solo ai riferimenti chilometrici (cioè ogni cinque). Quindi, ecco il quindicesimo: sto andando benissimo. Al prossimo saremo quasi a metà, non ci posso credere. Passo alla mezza in stato di grazia, ora mi mangerò il Queensboro Bridge e mi farò trascinare dalla folla lungo la First Avenue. Il passaggio al trentesimo mi illude: vuoi vedere che realizzo un tempo strabiliante? Non avevo tenuto conto che è qui che iniziano i giochi. Le ondulazioni del percorso mi segano le gambe, la mancanza di preparazione fa il resto: comincio a faticare parecchio. Di che ti meravigli? Fino ad una settimana fa non riuscivi a completare un chilometro senza fermarti, ora ne hai percorsi quasi trentacinque ininterrottamente. Il tratto sulla Quinta è devastante, ma il prossimo riferimento sarà quello dei 40km, ancora qualche sospiro e sarà fatta. Ecco il Columbus, si entra in Central Park, l’arrivo è lì, dietro l’angolo. Tra un po’ lo scorgerò, e forse troverò anche la forza di accennare uno sprint fino al traguardo. Sono raggiante, nemmeno le mie prestazioni migliori mi hanno vista così entusiasta. L’ho finita, ed è incredibile. In 3:39:30, ed è un miracolo. Certo, in termini assoluti questo tempo è ridicolo. Ma, nelle mie condizioni, non avrei scommesso né di riuscire a finirla, né di chiuderla sotto le quattro ore. La magia di New York – e del mio potentissimo mantra.

 
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