domenica 16 ottobre 2011

Maratonina di Cremona

Seconda puntata della serie “Cosa ci faccio qui?”. Il bollino rosso sul pettorale ci ha aperto l’accesso all’area di partenza riservata ai top runner – il perché resta un mistero, forse dipende dall’iscrizione al campionato italiano fatta dalla società. Tremo dal freddo, la temperatura rigida deve avermi atrofizzato i pensieri, ho infatti la mente sgombra da qualsiasi assillo. Non avverto tensioni, quasi si trattasse di una tapasciata qualsiasi. Cosa mi sta succedendo? Comincio ad agitarmi solo quando la massa di podisti alle nostre spalle comincia ad avanzare verso di noi: tremila persone che si apprestano a calpestarmi. Lo sparo scatena le bestie, l’impresa ora è restare in piedi. Barcollo per qualche centinaio di metri, incapace di impostare un decente assetto di corsa. Fortunatamente l’incubo è di breve durata, la strada si allarga e trovo la mia scia. Ritmo allegro, ma non forsennato: azzardato immaginare di mantenerlo fino alla fine? Può darsi, ma è ancora troppo presto per fare i conti. Di tanto in tanto, mi appaiono flash dell’edizione dei bei tempi: ne ho vaghi ricordi ma, ripensandoci, constato che forse anche allora affrontai la gara con una sorta di sospensione del giudizio. Non avevo neppure calcolato quale ritmo avrei dovuto mantenere per realizzare un ipotetico tempo ideale: ottenni quel risultato, con discreta agilità. Bei tempi, si diceva.
Un po’ di tifo carica sempre. Al decimo penso che siamo ormai a metà, come se mancasse poco: ottimo segnale. Salto anche questo ristoro, troppo affollato (non ho ancora esorcizzato il mio terrore): spero nel passaggio della bottiglia da parte di qualche anima buona, ma ovvio che ognuno faccia per sé. Poco male, in fondo la sete non è un problema. Anche i guanti, di cui avrei voluto liberarmi dopo pochi chilometri, ora non danno più fastidio. Né caldo né freddo, meglio di così! Sento che posso spingere ancora, e quasi mi spavento: se poi scoppio? Trattenersi o lasciarsi andare? Ascolto le sensazioni, sempre buone, e procedo a caccia di sorpassi. Atlete che mi sembravano irrimediabilmente lontane si fanno via via più vicine. Ne supero un paio, e subito punto a quella successiva. Siamo ormai al diciottesimo, nessun indugio è più ammesso. Guadagno ancora qualche posizione, guardo il crono e vedo numeri che mi piacciono tantissimo. La ragazza che ho appena superato viene incitata da un suo sostenitore, galvanizzata mi riprende. Io non demordo e torno davanti. Manca un chilometro, per un attimo mi sento appagata, come se avessi già esaurito il mio compito. Ma è proprio adesso che bisogna sputare sangue. Vado in apnea, ma la rampa finale ha anche stavolta un effetto deleterio: i pietroni mi frenano, e lei ne approfitta. Dopo mi chiederà addirittura scusa - Scherzi? Scusa per cosa? La gara è gara, sei stata bravissima, complimenti! Io invece avrei potuto spremermi un po’ di più, non ho espresso grinta a sufficienza. Il tempo è ottimo, ci mancherebbe, il migliore dal lontano 2006. Resta però la percezione di non avere dato tutto il possibile, di avere lasciato margini inespressi. Posso interpretarlo come un buon pronostico, certo, ma condizioni perfette come quelle di oggi sarà difficile ritrovarle: clima secco, temperatura moderatamente fresca, assenza di vento, percorso agile (né nervoso né monotono), ritmo stimolato dai tanti podisti lungo tutto il tracciato. Inoltre, la lontananza e il senso di anonimato: l’ho già constatato, cambiare aria mi fa bene. Lontana dalle solite strade, dalle solite sfide, dai soliti confronti, mi sento più leggera. Non conosco nessuno e nessuno mi conosce: sono tra migliaia di persone, ma è come se fossi solo con me stessa. Tutto torna: l’orso si conferma tale. Prima di andare in letargo, però, deve ancora sistemare alcune cose.

domenica 9 ottobre 2011

Zena, Savigno e dintorni

Il lungo è un’esperienza mistica: un confuso monologo interiore scandito da ritmo del respiro, un flusso di (in)coscienza che affastella immagini, pensieri, sensazioni. C’è sempre un po’ di apprensione nell’approccio: l’impresa richiede un notevole impegno di forze fisiche e mentali la cui gestione non ha nulla di scontato. La compagnia può aiutare, c’è chi non può farne a meno. Non io. Questione di abitudine, o di indole – certe bestiacce o si sa come prenderle, o meglio lasciarle perdere. Oggi mi lascio perdere. E lascio perdere anche gli scaffali da svuotare e le scatole da riempire: a Jader l’incombenza. Stamattina va così. E non è che la cosa mi entusiasmi. Con tutto quello che c’è da fare, penso solo a correre: e mentre corro, penso a tutto quello che c’è da fare. Parto malissimo. Fatico a carburare e mi sento immediatamente fuori giri: con queste premesse, dove credo di andare? C’è vento, ovviamente contrario. Se sforo anche solo di un secondo mi altero, così rischio di scoppiare subito. Non va, non dovrei essere qui, non avrei nemmeno dovuto iscrivermi: come si può pensare ad una maratona, nel bel mezzo di un trasloco? Smettila, e vai forte! Se non ci fossi tu… Beh, a dire il vero oggi manchi davvero. Anzi, è in assoluto la prima volta che non mi segui in un lunghissimo. Già ti sento: Come è andata? La mia risposta può essere una sola, e devo portartela a casa con entusiasmo.
Le gambe cominciano a sciogliersi. Chissà, forse ci voleva la salita per risvegliarle. Questo è il tratto più impegnativo, fino al giro di boa c’è parecchio da faticare. Ma è come se fossi spinta da nuova energia. Succede, nel lungo. All’inizio si arranca, si vorrebbe avanzare subito a perfetta andatura, ma la partenza repentina non lo consente. È che, in prospettiva di tanti chilometri,  il riscaldamento diventa un optional. Come in rodaggio, si sbuffa per un buon tratto. Fino al varco. Non ha una linea ben definita, né è segnalato con preavviso: inaspettatamente, ti accorgi che stai correndo in scioltezza, senza curarti d’altro. Come in trance. La sfida diventa allora mantenere questo stato di grazia fino alla fine. Ecco Zena: dietrofront! Adesso è più facile, si frulla che è un piacere. Superate le salite più dure, mancano “solo” dodici chilometri, dolcemente ondulati. Sto correndo troppo bene, mi aspetto il botto da un momento all’altro. Arriverà in prossimità del cartello 5, non so perché ma lì inizia per me il tratto più ostico. Eccolo. Non succede nulla... Passo il 4, ancora tutto bene. Vedo il 3, e penso che ormai è fatta. Al 2 prendo la rincorsa, adesso c’è quella salita che mi stronca. L’1 è passato, avanti a tutta!


 
Fossi arrivata con questa spinta anche alla fine della Bologna-Savigno, domenica scorsa. Quel giorno la mia tabella prevedeva 30 km, la gara cadeva quindi a fagiolo. Ovviamente, lungi da me l' intenzione di svolgerla tranquillamente, come un qualsiasi allenamento. Impensabile: quando attacco il pettorale, scatta la molla della competizione, soprattutto se un buon piazzamento è alla mia portata.
Assaporo l’ebbrezza della prima posizione fino al sesto chilometro, quando un Ciao bella infrange i miei sogni di gloria. Come ipotizzato, ecco l’outsider che rompe le uova nel paniere. L’avessi vista alla partenza, non mi sarei illusa. Invece la forte atleta modenese che conobbi due anni fa alle Eolie (e che miracolosamente precedetti a Lucca, il mese scorso), sbuca all’improvviso, saluta e se ne va. Pazienza, cerchiamo almeno di mantenere un distacco dignitoso. Percorso infame, questo: sempre a corda tesa, finché ti abbatte definitivamente verso il venticinquesimo chilometro. Dalla regia mi avvisano che chi mi precede ha percorso l’intera salita camminando, alle prese coi crampi: potrei quindi avere qualche speranza. Mi impongo di continuare a correre, anche se l'andatura non differisce molto dal camminare svelto. È però una questione mentale: se cedo alla pendenza, mi sento sconfitta. Insisto a sfidarlo, questo Mongiorgio, ma lui è più forte di me. A poco serve, infatti, lasciarsi andare in picchiata, dopo un chilometro di agonia: al termine della discesa, sono piantata. Avverto anche un vago senso di nausea. Arriverò alla fine? Già mi vedo calpestata da tutto il mondo podistico che ho alle spalle. Cerco disperatamente immagini positive dentro di me, ma nulla riesce a liberarmi dal piombo che ho nelle gambe. Come rovinare, in soli tre chilometri, una prestazione fino a quel punto discreta... È vero, doveva essere solo un allenamento e, in quanto tale, è stato svolto alla grande. Quel finale così sofferto, però, lascia un pessimo sapore: devo addentare al più presto qualcosa di più gustoso.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...