Adesso che sono finite, cosa faccio? Mi fermo, di nuovo ai
box, guarda caso. Sembra fatto apposta: se ho zigzagato tra gli acciacchi dalla
prima all’ultima staffetta, riuscendo ad impegnarmi al massimo ad ogni
appuntamento, ora sono sul punto di arrendermi. Il calcagno è insopportabile, non
mi concede nessuna tregua. E il mio incedere claudicante destabilizza l’intero
organismo. Muscoli e articolazioni in rivolta, mi sto piano piano decomponendo.
Eppure, sembrava che tutto procedesse più che
dignitosamente, sono persino riuscita a correre a velocità vicine a quelle dei
tempi migliori. Certo, l’esordio non è stato dei più brillanti. Ma in quella
fredda sera di inizio primavera potevo avvalermi di diverse attenuanti: totale
assenza di allenamento, raffreddore in incubazione, orario, clima e percorso
imbarazzanti. Per non parlare dell’inesperienza verso questa tipologia di gara.
Di staffette ne avrò corse tre o quattro in tutta la mia vita, in un passato
ormai troppo lontano. Non so come si interpretano, né come si gestiscono. So
solo che bisogna correre forte. Ecco, qui casca l’asino. Il mio “forte” è
all’incirca quello che per i miei compagni di squadra corrisponde al ritmo di
riscaldamento. Ho detto compagni, e non si tratta di un refuso. L’idea era
quella di ricostruire il fantastico trio del giro delle Eolie 2017, ma il mio
entusiasmo coinvolge solo Pez. Il terzo uomo, Daniel, lo conosciamo la sera
stessa, e la sua carica sarà determinante. Freddo, pioggerella, buio pesto:
condizioni perfette per una pessima figura., Nonostante tutto (soprattutto,
nonostante me), non arriviamo ultimi. Una fatica colossale, come una lunga
ripetuta - chi se le ricorda più? Scattante ed esplosiva non lo sono mai stata,
né potrò mai esserlo, ma se nei prossimi giorni riuscissi ad attivare la
modalità “allenamento” qualcosa si potrebbe migliorare. Una certezza comunque
l’ho acquisita: quella della staffetta mista è stata un’idea geniale. Non
facciamo classifica, non abbiamo nulla da vincere né da perdere: gareggiare
senza ansia da prestazione, spremersi al massimo per quei pochi minuti, tra
l’incitazione dei compagni. Che, insieme al testimone, ti passano anche la loro
foga. Gli avversari non ti considerano, tanto non sei una minaccia: e tu
ricambi la cortesia, non curandoti affatto della posizione di chicchessia (e
nemmeno della tua). Adrenalina senza stress, è quello che mi serve.
La seconda prova si presenta dopo un mese. Un’altra serata
gelida, l’inverno quest’anno non ha fine. E anche questa gara è interminabile:
inizia tardi, dura il doppio e termina a notte fonda. Mi tocca correre all’ora
in cui di solito abbraccio il cuscino. Mi sarò scaldata abbastanza? Sopporterò
le scarpe nuove? Reggerò due frazioni senza cadere a pezzi? Una staffetta
moltiplicata per due è una vera agonia. Arrivo in ginocchio, dolorante in ogni
cellula. Ma quando leggo la mia prestazione sul Garmin rinasco. Vedi, basta
poco. Ci vorrebbe solo un po’ di continuità, tornare alle buone abitudini,
riappacificarsi col corpo e con la mente.
L’illusione di un attimo. Provo a riprendere la routine
degli allenamenti e alla mia seduta preferita, le salitelle, il polpaccio dice
stop. Non avevo mai sofferto in quest’area, e non mi spiego perché da qualche
mese a questa parte sia diventato il mio (nuovo) punto debole. Destro e
sinistro a fasi alterne. Si deve essere rotto qualche altro ingranaggio: la
postura, l’appoggio, la struttura. Sta di fatto che arrivo alla terza prova al
culmine dell’incertezza. E stavolta si tratta di un cross, da affrontare con le
chiodate: l’ideale per un tallone e un polpaccio andati a male. Mi angoscia l’idea
di cedere sul più bello, quando i miei compagni mi aspettano al varco. Invece…
Saranno state le scarpette fiammanti, o l’erba fresca, oppure l’energia di un
pettorale e di voci incitanti. In quel terreno accidentato, tra quei zigzag, ho
volato. Il polpaccio? Chi ci pensa più.
Castenaso, di nuovo erba, e per finire un po’ di pista. Questo
campionato permette di sperimentare ogni sorta di terreno, mi dovrò adeguare. La
nostra squadra, del resto, deve adeguarsi alla defezione di Pez, che preferisce
solcare altre strade. Peggio per lui, fortunatamente non mancano degni
sostituti. Fabio prima, Ladislao oggi. La parola d’ordine è divertirsi. E poco
importa che quello che ho stampato sul volto assomigli più ad un ghigno che ad
un sorriso. Ogni volta credo di morire, ma ogni volta mi sento al settimo
cielo.
Arriva giugno, e la mia staffetta preferita. Non chiedetemi perché.
Obiettivamente di bello non ha proprio nulla: strade anonime in una zona squallida.
Forse perché è stata la mia prima staffetta, nei miei anni migliori; forse perché
qui mi sono espressa degnamente anche in tempi non troppo remoti. Insomma, per
gli arcani misteri del cuore, al Pioppeto sono affezionata e sono oltremodo
contenta di poterla affrontare. Spingo al massimo nei rettilinei, cerco di non rovinare
tutto nelle curve, e realizzo un tempo per me stratosferico. Sono talmente
entusiasta da lasciarmi convincere a partecipare al diecimila della domenica
successiva: le colline del Secchia. Bella corsa, per quel po’ che ricordo:
poteva essere il 2003 o il 2004, correvo per il Ghinelli e andammo in
rappresentanza della Uisp per contenderci non so quale trofeo. Diluviava, e un’avversaria
di stazza mastodontica cercò di farmi fuori con una spallata – non mi è ancora
andata giù. Me la ritrovo sulla linea di partenza anche stavolta. La domino per
un po’, fino al risveglio del tallone maledetto. Se al dolore aggiungiamo la
scarsa condizione generale, ne esce una gara penosa.
Una decina di giorni per rimettermi in piedi: si gioca in
casa, vietato mancare. Manca invece Daniel, anche lui acciaccato: e io che
pensavo di avere l’esclusiva dei malanni. Fabio e Ladislao sono i miei fidi scudieri. Il
drago da infilzare consiste in un perimetro rettangolare di un chilometro
scarso, ostacolato da fittoni e tratti bui, da ripetere due volte. Esatto, un’altra
staffetta “doppia”. No, questa formula non trova alcun consenso, ma vediamo di
farcela piacere. Come sempre, temo di fallire, di crollare anzitempo. Invece,
denti stretti e cuore in gola, mi spremo fino all’ultimo metro.
Percorso bizzarro quello di Casalecchio. Un po’ di asfalto,
un po’ di erba e un po’ di bossoli. Siamo in un campo di tiro a volo, e meno
male che non siamo noi i bersagli. Troppe curve, secche, a gomito; troppi cambi
di direzione e di terreno. Fatico a spingere, non trovo passo né ritmo.
Stavolta non mi sono piaciuta, e il calcagno riprende a disturbare troppo.
Una settimana difficile quella che precede la staffetta di
Ca’ de Fabbri. Il dolore è di nuovo al centro della mia attenzione, ancora a disturbare
il mio quotidiano. Rincorro una sorta di condizione atletica che continua a
sfuggirmi, e la sconfitta è sempre più concreta. Devi insistere, convincerti
che è solo una questione di resistenza: di riabituare il tuo piede e il tuo
organismo al gesto della corsa. Puoi riuscirci solo correndo. Già, ma come? Con
un coltello conficcato nel calcagno, con muscoli, tendini e ossa tesi e
disarticolati come in un burattino impazzito? Non è meglio rassegnarsi all’evidenza?
No, non ci riesco. E porterò a termine anche la penultima prova. Impegnativa come
tutte, come tutte tirata al massimo. Ridicola in termini assoluti,
importantissima per me.
Affossare l’entusiasmo è questione di un attimo. Basta avvertire
di nuovo una scossa al polpaccio, e tornare sui tuoi passi con la coda tra le
gambe. Dai, che non è nulla. Un bel massaggio, qualche giorno di riposo, e
sarai pronta per l’ultima staffetta. Forse. Intanto, di riprendere ad allenarsi
non se ne parla proprio. Riesci giusto a sgambettere attorno a casa, come
nemmeno l’ultimo dei tapascioni. Quasi speri che la prova della Ca’ Bura venga
annullata. Con questo diluvio, tra tuoni e fulmini, sarebbe legittimo: ne va
dell’incolumità dei podisti. Invece no, bisogna rendere onore al gran finale. Così
non resta che confidare nell’effetto del Voltaren – e in quello del pettorale. Quando
Daniel mi passa il testimone, do sfogo a tutta la grinta e la rabbia che ho in
corpo. Cerco di non farmi intimidire dalla salita scivolosa, e di minimizzare i
danni in discesa. Ora dovrei sprintare fino al traguardo, ma fatico a tenere
alto il ritmo. Potevo chiudere meglio, non mi è riuscito. Scarsa di rendimento,
di condizione, di tutto.
Adesso che sono finite, cosa faccio? Manca un mese all’evento
più importante dell’anno e io sono lontana anni luce dall’essere pronta. Contavo
nella ripresa, ma qui si continua ad affondare. Peggio dell’anno scorso. Con le
ambizioni azzerate, anche le speranze si riducono al lumicino – e l’idea di
mollare definitivamente tutto si fa sempre più assordante. Non vedo appigli, e
il naufragare in questo mare non mi è affatto dolce. Mi aggrappo a chi ancora
crede in me. Dobbiamo essere più forti
del dolore. Ricordamelo ogni giorno, ogni istante.
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