lunedì 29 luglio 2019

Magiche staffette


Adesso che sono finite, cosa faccio? Mi fermo, di nuovo ai box, guarda caso. Sembra fatto apposta: se ho zigzagato tra gli acciacchi dalla prima all’ultima staffetta, riuscendo ad impegnarmi al massimo ad ogni appuntamento, ora sono sul punto di arrendermi. Il calcagno è insopportabile, non mi concede nessuna tregua. E il mio incedere claudicante destabilizza l’intero organismo. Muscoli e articolazioni in rivolta, mi sto piano piano decomponendo.

Eppure, sembrava che tutto procedesse più che dignitosamente, sono persino riuscita a correre a velocità vicine a quelle dei tempi migliori. Certo, l’esordio non è stato dei più brillanti. Ma in quella fredda sera di inizio primavera potevo avvalermi di diverse attenuanti: totale assenza di allenamento, raffreddore in incubazione, orario, clima e percorso imbarazzanti. Per non parlare dell’inesperienza verso questa tipologia di gara. Di staffette ne avrò corse tre o quattro in tutta la mia vita, in un passato ormai troppo lontano. Non so come si interpretano, né come si gestiscono. So solo che bisogna correre forte. Ecco, qui casca l’asino. Il mio “forte” è all’incirca quello che per i miei compagni di squadra corrisponde al ritmo di riscaldamento. Ho detto compagni, e non si tratta di un refuso. L’idea era quella di ricostruire il fantastico trio del giro delle Eolie 2017, ma il mio entusiasmo coinvolge solo Pez. Il terzo uomo, Daniel, lo conosciamo la sera stessa, e la sua carica sarà determinante. Freddo, pioggerella, buio pesto: condizioni perfette per una pessima figura., Nonostante tutto (soprattutto, nonostante me), non arriviamo ultimi. Una fatica colossale, come una lunga ripetuta - chi se le ricorda più? Scattante ed esplosiva non lo sono mai stata, né potrò mai esserlo, ma se nei prossimi giorni riuscissi ad attivare la modalità “allenamento” qualcosa si potrebbe migliorare. Una certezza comunque l’ho acquisita: quella della staffetta mista è stata un’idea geniale. Non facciamo classifica, non abbiamo nulla da vincere né da perdere: gareggiare senza ansia da prestazione, spremersi al massimo per quei pochi minuti, tra l’incitazione dei compagni. Che, insieme al testimone, ti passano anche la loro foga. Gli avversari non ti considerano, tanto non sei una minaccia: e tu ricambi la cortesia, non curandoti affatto della posizione di chicchessia (e nemmeno della tua). Adrenalina senza stress, è quello che mi serve.

La seconda prova si presenta dopo un mese. Un’altra serata gelida, l’inverno quest’anno non ha fine. E anche questa gara è interminabile: inizia tardi, dura il doppio e termina a notte fonda. Mi tocca correre all’ora in cui di solito abbraccio il cuscino. Mi sarò scaldata abbastanza? Sopporterò le scarpe nuove? Reggerò due frazioni senza cadere a pezzi? Una staffetta moltiplicata per due è una vera agonia. Arrivo in ginocchio, dolorante in ogni cellula. Ma quando leggo la mia prestazione sul Garmin rinasco. Vedi, basta poco. Ci vorrebbe solo un po’ di continuità, tornare alle buone abitudini, riappacificarsi col corpo e con la mente.

L’illusione di un attimo. Provo a riprendere la routine degli allenamenti e alla mia seduta preferita, le salitelle, il polpaccio dice stop. Non avevo mai sofferto in quest’area, e non mi spiego perché da qualche mese a questa parte sia diventato il mio (nuovo) punto debole. Destro e sinistro a fasi alterne. Si deve essere rotto qualche altro ingranaggio: la postura, l’appoggio, la struttura. Sta di fatto che arrivo alla terza prova al culmine dell’incertezza. E stavolta si tratta di un cross, da affrontare con le chiodate: l’ideale per un tallone e un polpaccio andati a male. Mi angoscia l’idea di cedere sul più bello, quando i miei compagni mi aspettano al varco. Invece… Saranno state le scarpette fiammanti, o l’erba fresca, oppure l’energia di un pettorale e di voci incitanti. In quel terreno accidentato, tra quei zigzag, ho volato. Il polpaccio? Chi ci pensa più. 


Castenaso, di nuovo erba, e per finire un po’ di pista. Questo campionato permette di sperimentare ogni sorta di terreno, mi dovrò adeguare. La nostra squadra, del resto, deve adeguarsi alla defezione di Pez, che preferisce solcare altre strade. Peggio per lui, fortunatamente non mancano degni sostituti. Fabio prima, Ladislao oggi. La parola d’ordine è divertirsi. E poco importa che quello che ho stampato sul volto assomigli più ad un ghigno che ad un sorriso. Ogni volta credo di morire, ma ogni volta mi sento al settimo cielo.

Arriva giugno, e la mia staffetta preferita. Non chiedetemi perché. Obiettivamente di bello non ha proprio nulla: strade anonime in una zona squallida. Forse perché è stata la mia prima staffetta, nei miei anni migliori; forse perché qui mi sono espressa degnamente anche in tempi non troppo remoti. Insomma, per gli arcani misteri del cuore, al Pioppeto sono affezionata e sono oltremodo contenta di poterla affrontare. Spingo al massimo nei rettilinei, cerco di non rovinare tutto nelle curve, e realizzo un tempo per me stratosferico. Sono talmente entusiasta da lasciarmi convincere a partecipare al diecimila della domenica successiva: le colline del Secchia. Bella corsa, per quel po’ che ricordo: poteva essere il 2003 o il 2004, correvo per il Ghinelli e andammo in rappresentanza della Uisp per contenderci non so quale trofeo. Diluviava, e un’avversaria di stazza mastodontica cercò di farmi fuori con una spallata – non mi è ancora andata giù. Me la ritrovo sulla linea di partenza anche stavolta. La domino per un po’, fino al risveglio del tallone maledetto. Se al dolore aggiungiamo la scarsa condizione generale, ne esce una gara penosa.

Una decina di giorni per rimettermi in piedi: si gioca in casa, vietato mancare. Manca invece Daniel, anche lui acciaccato: e io che pensavo di avere l’esclusiva dei malanni.  Fabio e Ladislao sono i miei fidi scudieri. Il drago da infilzare consiste in un perimetro rettangolare di un chilometro scarso, ostacolato da fittoni e tratti bui, da ripetere due volte. Esatto, un’altra staffetta “doppia”. No, questa formula non trova alcun consenso, ma vediamo di farcela piacere. Come sempre, temo di fallire, di crollare anzitempo. Invece, denti stretti e cuore in gola, mi spremo fino all’ultimo metro.

Percorso bizzarro quello di Casalecchio. Un po’ di asfalto, un po’ di erba e un po’ di bossoli. Siamo in un campo di tiro a volo, e meno male che non siamo noi i bersagli. Troppe curve, secche, a gomito; troppi cambi di direzione e di terreno. Fatico a spingere, non trovo passo né ritmo. Stavolta non mi sono piaciuta, e il calcagno riprende a disturbare troppo.

Una settimana difficile quella che precede la staffetta di Ca’ de Fabbri. Il dolore è di nuovo al centro della mia attenzione, ancora a disturbare il mio quotidiano. Rincorro una sorta di condizione atletica che continua a sfuggirmi, e la sconfitta è sempre più concreta. Devi insistere, convincerti che è solo una questione di resistenza: di riabituare il tuo piede e il tuo organismo al gesto della corsa. Puoi riuscirci solo correndo. Già, ma come? Con un coltello conficcato nel calcagno, con muscoli, tendini e ossa tesi e disarticolati come in un burattino impazzito? Non è meglio rassegnarsi all’evidenza? No, non ci riesco. E porterò a termine anche la penultima prova. Impegnativa come tutte, come tutte tirata al massimo. Ridicola in termini assoluti, importantissima per me. 
 

Affossare l’entusiasmo è questione di un attimo. Basta avvertire di nuovo una scossa al polpaccio, e tornare sui tuoi passi con la coda tra le gambe. Dai, che non è nulla. Un bel massaggio, qualche giorno di riposo, e sarai pronta per l’ultima staffetta. Forse. Intanto, di riprendere ad allenarsi non se ne parla proprio. Riesci giusto a sgambettere attorno a casa, come nemmeno l’ultimo dei tapascioni. Quasi speri che la prova della Ca’ Bura venga annullata. Con questo diluvio, tra tuoni e fulmini, sarebbe legittimo: ne va dell’incolumità dei podisti. Invece no, bisogna rendere onore al gran finale. Così non resta che confidare nell’effetto del Voltaren – e in quello del pettorale. Quando Daniel mi passa il testimone, do sfogo a tutta la grinta e la rabbia che ho in corpo. Cerco di non farmi intimidire dalla salita scivolosa, e di minimizzare i danni in discesa. Ora dovrei sprintare fino al traguardo, ma fatico a tenere alto il ritmo. Potevo chiudere meglio, non mi è riuscito. Scarsa di rendimento, di condizione, di tutto. 


Adesso che sono finite, cosa faccio? Manca un mese all’evento più importante dell’anno e io sono lontana anni luce dall’essere pronta. Contavo nella ripresa, ma qui si continua ad affondare. Peggio dell’anno scorso. Con le ambizioni azzerate, anche le speranze si riducono al lumicino – e l’idea di mollare definitivamente tutto si fa sempre più assordante. Non vedo appigli, e il naufragare in questo mare non mi è affatto dolce. Mi aggrappo a chi ancora crede in me. Dobbiamo essere più forti del dolore. Ricordamelo ogni giorno, ogni istante.


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