L’aria
è frizzante, di prima mattina. Mi copro però più del necessario: non ho ancora
preso confidenza con le nuove temperature, né con la reazione del mio corpo
all’anomala deambulazione. Infatti, mi è sufficiente percorrere il breve
tragitto tra l’uscio e il sentiero di accesso per sentirmi oltremodo accaldata.
Un’altra delle tante complicazioni di questa vita da inferma.
Non
sono ancora le otto quando entro in pronto soccorso, e non so bene come
muovermi. Contatto così il dottore e in men che non si dica mi trovo su una
sedia a rotelle, assistita da un robusto infermiere che mi scorta fino
all’ambulatorio. Finalmente viene liberato il mio piedone. Dice che la ferita è
bellissima (ovviamente, tutto è relativo), che potrebbero essere necessarie
meno delle quattro settimane preventivate, e che tra una decina di giorni mi
toglierà i punti. Giungono quindi tre sorridenti assistenti per inscatolare
nuovamente piede e gamba con una fasciatura veramente elegante.
Dovrei
essere tranquilla, ora. Ma le lunghe ore tra queste mura, che non riesco ancora
a sentire mie, e le difficoltà nello svolgere qualsiasi piccolo gesto
quotidiano non fanno che alimentare il misero stato d’animo. Fortunatamente, uno
spicchio di sole illumina il mio grigiore: la visita di un’amica, l’unica che
abbia trovato il tempo e la voglia di interessarsi a me – sia in questa, che
nelle precedenti simili vicissitudini. Ed io, che continuo a sentirmi
irrimediabilmente orso, mi chiedo se la mia riconoscenza riesca ad esprimersi
adeguatamente. Forse sì, o forse semplicemente sono io che insisto a
martellarmi con infinite paranoie, quando sarebbe molto più salutare affrontare
la vita e il mondo con un pizzico di leggerezza. Meglio buttarsi sotto la
doccia e lasciare che i pensieri scivolino sotto il getto dell’acqua.
È
domenica. Anche oggi Jader è uscito presto, mentre io decido di indugiare
ancora a letto. Se non altro, riesco a dormire più del solito. Ho calcolato che
tra il momento in cui mi alzo e quello in cui raggiungo il piano di sotto, con
un minimo passaggio in bagno, trascorre circa mezz’ora. Cerco quindi di allestire
qualcosa che assomigli a una colazione, nonostante la fatica di preparare anche
solo una bevanda calda faccia venire meno anche l’appetito – scarso in
condizioni normali, figurarsi adesso. Che cosa bisognerebbe mangiare quando ci
si trova in uno stato di semi immobilità, con ossa e tendini mortificati e gestualità
del tutto alterata? Vorrei tanto saperlo: conoscere cosa potrebbe giovarmi e
cosa invece sarebbe meglio evitare. Ho provato a documentarmi, ma è sempre
complicato destreggiarsi tra il proliferare d’informazioni, spesso
contrastanti. L’esperta alla quale ho chiesto aiuto si è guardata bene dal
rispondermi (avrei preferito un semplice e diretto “non ho tempo”), così mi
sforzo di buttare giù qualcosa, spinta essenzialmente dalla consapevolezza che,
nonostante l’inattività, nutrirsi resta una necessità fondamentale.
Il clima, oggi, è la perfetta espressione del mio umore. O forse è il mio umore che risente della pessima stagione. Non trovo pace, qualsiasi posizione risulta scomoda, gambe e schiena gridano vendetta: ho bisogno di muovermi! Quando potrò riprendere anche solo a svolgere qualche esercizio che non coinvolga la gamba? Volevo chiederlo ieri, al dottore, ma mi è passato di mente. Dovrò ricordarlo al prossimo appuntamento. E starmene zitta e buona fino allora. Devi crederci, mi dice un amico. Ogni tanto me lo ripeto, così come stamattina, guardando sul web la maratona di Berlino, mi sono ripromessa che tornerò a correre quella distanza. Radichiamo l’idea, chissà che non generi i suoi frutti.
Nessun commento:
Posta un commento