Avendo ormai
constatato che la medicina è un’opinione e che, oltre ad essere zoppa, sono
ormai anche bipolare, cerco di sopravvivere a questo inverno che sembra non
avere fine (e non mi riferisco a quello astronomico). Il dolore aumenta, e
nessuno sa spiegarmi il perché: perché, fisiologicamente e anatomicamente, non
sussiste nulla che giustifichi una simile sofferenza, non in quel punto e non
in quella forma. Qualcuno lo esponga anche al mio calcagno, vi prego: non ne
posso davvero più. E non si tratta solo dello sfinimento provocato dalla
sensazione di un coltello infilzato nel tallone, dal non riuscire a camminare
umanamente, dal non trovare una scarpa adatta né una posizione tranquilla. È il
non arrivare a dare un nome a questo supplizio ciò che maggiormente esaspera:
non conoscere il nemico, ignorare contro cosa combattere, perdere fiducia e
speranza verso il mondo intero. Due settimane senza muovere un passo di troppo,
un’infiltrazione, una manipolazione, un paio di dosi di antinfiammatori:
vediamo cosa succede. Proviamo, almeno, a festeggiare correndo i nostri
compleanni. Per poi ricadere nel tunnel. Voglia di sparire, di non farmi
vedere, di eliminare qualsiasi forma di contatto: a nessuno interessano le mie
disgrazie, sono venuta a noia perfino a me stessa. Non ho nulla di nuovo da
raccontare, nulla di vecchio che valga la pena riesumare; niente da chiedere né
tantomeno da ascoltare. Riesco solo a piangere. So benissimo che non serve a
nulla, che non è la soluzione, che le disgrazie vere sono altre. Ma questa
nebulosa in cui vivo ormai da anni è sul ciglio di un buco nero. Ho paura.
Paura che le risposte tanto anelate possano all’improvviso rivelarsi
indesiderate; paura di perdere di vista i pochi punti di riferimento a cui mi
sto aggrappando; paura di abbandonarmi, trascurarmi, abbruttirmi. Fa che la
passione continui a bruciare, affinché non manchi la forza per reagire.
Le reazioni
di un individuo al limite della sopportazione sono spesso sproporzionate. Un
giorno mi sento uno zombie e fatico ad alzarmi dal letto, il giorno dopo mi
iscrivo ad una gara che nemmeno nei miei anni d’oro avrei pensato di
affrontare. Avevo addirittura sempre creduto che la Cinque Mulini fosse roba da
extraterrestri, non mi ero proprio posta la questione che potesse esserci
spazio anche per i comuni mortali. Invece, incredibile a dirsi, possono
correrla anche i rottami come me. Oddio, perché voglio farmi del male?
Semplice: me ne farei molto di più restando a casa o, peggio ancora, inducendo
persino il “mio” fotografo a non andare. Miseri e tapini a flagellarsi a
vicenda, che bel quadretto. No, grazie, mi sono già fustigata abbastanza. Se
devo proprio soffrire, che almeno soffra correndo.
Dopo una
notte trascorsa a combattere coi miei spauracchi, il campo sportivo pare un luogo
celestiale. Sono emozionata. E non si tratta della consueta tensione pre- gara,
che tanto dalla competizione mi aspetto ben poco. Mi entusiasma perlustrare i
sentieri che ho sempre visto in TV, mi eccita pensare che tra poco solcherò
anch’io quei tracciati. E quei mulini! Il passaggio al loro interno è uno
spettacolo unico, ripenso a quanto ci faceva ridere immaginare il mio
caracollare in una simile situazione. Ti
vorrei proprio vedere su quei gradini. Ecco, oggi mi vedrai. Non mi
spaventano, neanche un po’. Nulla mi spaventa ora. La mente è completamente
sgombra: intendo semplicemente godermi il momento. Fatico un po’ a trovare il
mio assetto, meglio dire che non lo trovo affatto. Le variazione del terreno mi
creano qualche difficoltà, dovute soprattutto alla mia totale estraneità alle
scarpe chiodate. Paradossalmente, comincio a sentirmi a mio agio una volta in
mezzo ai campi. Nonostante le buche e i fossi da saltare, riesco persino a
guadagnare qualche posizione. Quando me lo ricordo, cerco di controllare
l’andatura: sollevo le ginocchia, oscillo le braccia, spingo sui piedi.
Insomma, ascolto le voci. Difficile esprimersi sul risultato, ma intanto metà
gara è andata e i mulini sono nei paraggi. Qui il fondo è più duro, e i chiodi
risultano fastidiosi. Ma dico, stai correndo nella storia, te ne rendi conto? La
gente, le luci, io che entro e calpesto il tappeto verde. Si fa appena in tempo
a realizzarlo, e Jader sta quasi per perdersi il mio grido di gioia, avendomi
dato forse per persa. Un altro ingresso, altri gradini, poi via, verso il
tratto più duro. Certo, l’ultimo chilometro è sempre il più ostico. Vorrei
spingere ma non ho più le gambe, o forse è il fiato che manca, oppure entrambe
le cose. L’incapacità di dosare le forze, di decidere quando staccare, quando
partire alla morte. La mancanza di allenamento, la scarsa attitudine alla
competizione, la paura di non farcela. È in momenti come questi che mi
servirebbero incitamenti a squarciagola. Sarà una mia debolezza, ma ne avrei
davvero bisogno. Ecco perché mi ha tanto commossa la scena di Daniele Caimmi
che correva gridando accanto a Meucci: l’allenatore che sprona il suo atleta,
lo carica, lo spinge virtualmente. Ho avvertito la passione, la dedizione,
l’affiatamento: una sinergia esplosiva, che produrrà senz’altro eccellenti
risultati. Ma quello è un altro pianeta, che ho ammirato una volta conclusa la
mia piccola fatica. Da brava perenne insoddisfatta, posso confessare che la
posizione e il crono mi inorridiscono, e tutti i bla bla bla sulla mia schifosa
condizione fisica consolano ben poco. Non mi sono spremuta abbastanza, sempre troppo
prudente e controllata. Insomma, non ho aggredito la gara. Però… Che
spettacolo! Lo sto realizzando lentamente, giorno dopo giorno, che ho preso
parte ad un evento straordinario: e lentamente sto caricando le pile. L’inverno
è ancora lungo, ma ha le ore contate.
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