mercoledì 30 gennaio 2019

Cinque passi nella storia: la Cinque Mulini


Avendo ormai constatato che la medicina è un’opinione e che, oltre ad essere zoppa, sono ormai anche bipolare, cerco di sopravvivere a questo inverno che sembra non avere fine (e non mi riferisco a quello astronomico). Il dolore aumenta, e nessuno sa spiegarmi il perché: perché, fisiologicamente e anatomicamente, non sussiste nulla che giustifichi una simile sofferenza, non in quel punto e non in quella forma. Qualcuno lo esponga anche al mio calcagno, vi prego: non ne posso davvero più. E non si tratta solo dello sfinimento provocato dalla sensazione di un coltello infilzato nel tallone, dal non riuscire a camminare umanamente, dal non trovare una scarpa adatta né una posizione tranquilla. È il non arrivare a dare un nome a questo supplizio ciò che maggiormente esaspera: non conoscere il nemico, ignorare contro cosa combattere, perdere fiducia e speranza verso il mondo intero. Due settimane senza muovere un passo di troppo, un’infiltrazione, una manipolazione, un paio di dosi di antinfiammatori: vediamo cosa succede. Proviamo, almeno, a festeggiare correndo i nostri compleanni. Per poi ricadere nel tunnel. Voglia di sparire, di non farmi vedere, di eliminare qualsiasi forma di contatto: a nessuno interessano le mie disgrazie, sono venuta a noia perfino a me stessa. Non ho nulla di nuovo da raccontare, nulla di vecchio che valga la pena riesumare; niente da chiedere né tantomeno da ascoltare. Riesco solo a piangere. So benissimo che non serve a nulla, che non è la soluzione, che le disgrazie vere sono altre. Ma questa nebulosa in cui vivo ormai da anni è sul ciglio di un buco nero. Ho paura. Paura che le risposte tanto anelate possano all’improvviso rivelarsi indesiderate; paura di perdere di vista i pochi punti di riferimento a cui mi sto aggrappando; paura di abbandonarmi, trascurarmi, abbruttirmi. Fa che la passione continui a bruciare, affinché non manchi la forza per reagire.

Le reazioni di un individuo al limite della sopportazione sono spesso sproporzionate. Un giorno mi sento uno zombie e fatico ad alzarmi dal letto, il giorno dopo mi iscrivo ad una gara che nemmeno nei miei anni d’oro avrei pensato di affrontare. Avevo addirittura sempre creduto che la Cinque Mulini fosse roba da extraterrestri, non mi ero proprio posta la questione che potesse esserci spazio anche per i comuni mortali. Invece, incredibile a dirsi, possono correrla anche i rottami come me. Oddio, perché voglio farmi del male? Semplice: me ne farei molto di più restando a casa o, peggio ancora, inducendo persino il “mio” fotografo a non andare. Miseri e tapini a flagellarsi a vicenda, che bel quadretto. No, grazie, mi sono già fustigata abbastanza. Se devo proprio soffrire, che almeno soffra correndo.

Dopo una notte trascorsa a combattere coi miei spauracchi, il campo sportivo pare un luogo celestiale. Sono emozionata. E non si tratta della consueta tensione pre- gara, che tanto dalla competizione mi aspetto ben poco. Mi entusiasma perlustrare i sentieri che ho sempre visto in TV, mi eccita pensare che tra poco solcherò anch’io quei tracciati. E quei mulini! Il passaggio al loro interno è uno spettacolo unico, ripenso a quanto ci faceva ridere immaginare il mio caracollare in una simile situazione. Ti vorrei proprio vedere su quei gradini. Ecco, oggi mi vedrai. Non mi spaventano, neanche un po’. Nulla mi spaventa ora. La mente è completamente sgombra: intendo semplicemente godermi il momento. Fatico un po’ a trovare il mio assetto, meglio dire che non lo trovo affatto. Le variazione del terreno mi creano qualche difficoltà, dovute soprattutto alla mia totale estraneità alle scarpe chiodate. Paradossalmente, comincio a sentirmi a mio agio una volta in mezzo ai campi. Nonostante le buche e i fossi da saltare, riesco persino a guadagnare qualche posizione. Quando me lo ricordo, cerco di controllare l’andatura: sollevo le ginocchia, oscillo le braccia, spingo sui piedi. Insomma, ascolto le voci. Difficile esprimersi sul risultato, ma intanto metà gara è andata e i mulini sono nei paraggi. Qui il fondo è più duro, e i chiodi risultano fastidiosi. Ma dico, stai correndo nella storia, te ne rendi conto? La gente, le luci, io che entro e calpesto il tappeto verde. Si fa appena in tempo a realizzarlo, e Jader sta quasi per perdersi il mio grido di gioia, avendomi dato forse per persa. Un altro ingresso, altri gradini, poi via, verso il tratto più duro. Certo, l’ultimo chilometro è sempre il più ostico. Vorrei spingere ma non ho più le gambe, o forse è il fiato che manca, oppure entrambe le cose. L’incapacità di dosare le forze, di decidere quando staccare, quando partire alla morte. La mancanza di allenamento, la scarsa attitudine alla competizione, la paura di non farcela. È in momenti come questi che mi servirebbero incitamenti a squarciagola. Sarà una mia debolezza, ma ne avrei davvero bisogno. Ecco perché mi ha tanto commossa la scena di Daniele Caimmi che correva gridando accanto a Meucci: l’allenatore che sprona il suo atleta, lo carica, lo spinge virtualmente. Ho avvertito la passione, la dedizione, l’affiatamento: una sinergia esplosiva, che produrrà senz’altro eccellenti risultati. Ma quello è un altro pianeta, che ho ammirato una volta conclusa la mia piccola fatica. Da brava perenne insoddisfatta, posso confessare che la posizione e il crono mi inorridiscono, e tutti i bla bla bla sulla mia schifosa condizione fisica consolano ben poco. Non mi sono spremuta abbastanza, sempre troppo prudente e controllata. Insomma, non ho aggredito la gara. Però… Che spettacolo! Lo sto realizzando lentamente, giorno dopo giorno, che ho preso parte ad un evento straordinario: e lentamente sto caricando le pile. L’inverno è ancora lungo, ma ha le ore contate.




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