N. 267 - GENNAIO 2007
Pare che quella di New York sia la maratona con la più bassa percentuale di ritirati. Sarà per il fragore della folla, che incita lungo quarantadue chilometri ogni singolo podista, o forse per il carattere mitico di questa manifestazione, che trasforma anche i più sedentari in eroici atleti, oppure per l’atmosfera da grande evento, che si respira dal primo all’ultimo giorno. Di fatto, risulta quasi impossibile tornare a casa senza la medaglia al collo. Sottolineo, quasi.
Ho riposto tante speranze in questa gara. Forse troppe. Un’overdose di aspettative: mie, di chi mi sta vicino, di chi crede nelle mie capacità. Eppure, so bene di non essere in perfette condizioni, ma confido nel potere taumaturgico dell’esperienza newyorkese e incrocio le dita.
Grazie al mio precedente piazzamento e alle ambiziose previsioni, quest’anno godo di un trattamento di favore: al riparo dal freddo e dalla calca, la lunga attesa può diventare una piacevole occasione di relax e concentrazione. Quale migliore auspicio, poi, del sorriso di Stefano Baldini, incrociato ai piedi del ponte, pochi minuti prima dello sparo?
Eccomi dunque a rivivere la maratona di New York. Fu qui che esordii, nel 2002, quando a malapena sapevo che cosa significasse correre. E qui sono tornata ogni anno, credendo sempre che fosse l’ultimo: e sempre assaporando le medesime emozioni, pur nel variare degli obiettivi.
Può succedere però che gli ingranaggi si incastrino e che la ruota non giri per il verso giusto: anche nel contesto più favorevole, un meccanismo inceppato stenta a scorrere. Così, dopo un paio di miglia troppo tirate, mi accorgo che i pensieri negativi stanno già pericolosamente inquinando la mia mente. Dove posso arrivare, se già da ora sento odore di fallimento? Cerco di visualizzare immagini positive, sperando che queste possano dissolvere il piombo che sta piantando le mie gambe. In effetti, dopo il decimo chilometro procedo più sciolta.
Go, Vale, go! E’ buffo come gli americani pronuncino il mio diminutivo (stampato sulla canotta): talmente curioso che, la prima volta, mi ci volle un po’ per realizzare che quel Veil incitava proprio me. Lo ripeto anch’io, go Vale, go! Sono forte, ce la posso fare, ce la devo fare. Ma cos’è l’angoscia che mi prende quando, all’ottavo miglio, i percorsi si uniscono e la strada è inondata da un mare di gambe? E il panico che mi assale ad ogni ristoro? E’ evidente che non ho superato il trauma fisico e morale dell’incidente di Carpi, quando sono stata letteralmente scaraventata sul tavolo dei rifornimenti, al decimo chilometro della maratona.
Il Queensborough Bridge dà il colpo di grazia al mio arto acciaccato, e a nulla serve il boato della folla, in uno dei passaggi più entusiasmanti della gara. Non mi sto godendo proprio nulla, e una simile sgradevole sensazione qui, nella più magica delle maratone, non è assolutamente ammissibile: se la sofferenza supera l’euforia, non ha senso continuare.
Ma cosa succede se ci si ritira a New York? Già l’esperienza del ritiro è frustrante in sé. Figurarsi quando si verifica in un contesto tanto fuori dalla norma. All’esterno del percorso, si trovano pullman che raccolgono i podisti malandati: offrono assistenza, acqua e un telo di alluminio, ma devono ovviamente aspettare la coda della gara per dirigersi verso l’arrivo. Cioè, diverse ore. La metropolitana, col pettorale, è gratuita. Ma trovare una stazione è un’impresa, e vagare per le strade seminudi e sudaticci, ad una temperatura di una decina di gradi, non è molto igienico.
Ormai prossima ad una crisi isterica, mi salvo saltando su un taxi. Fortunatamente il mio albergo è vicino all’arrivo, così indosso in fretta qualcosa e mi appresto a recuperare la mia sacca. Ho un po’ di problemi a capire dove sia il punto di raccolta, fino a quando un volontario compassionevole, colpito dalla mia disperazione, mi fornisce le giuste indicazioni. Ricevo i complimenti. Non l’ho finita, preciso. Oh, non importa, andrà bene l’anno prossimo!
Per quattro volte, a New York, ho tagliato il traguardo con le lacrime agli occhi. Hanno tutt’altro sapore le lacrime di oggi. Le ingoio con amarezza. E già penso a un’altra occasione. Non so quando e non so dove, ma avrò la mia rivincita.
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