N. 273 - luglio 2007
Avevo 17 anni. La breve età in cui chiunque è immortale.
Nulla mi appariva più lungo, lento e noioso del margine che ancora mi separava dalla fatidica soglia, superato la quale avrei potuto rivendicare a pieno titolo i miei diritti di adulto. Dovevo sopportare ancora per diversi mesi l’assurdità di divieti e limitazioni che, da un giorno all’altro, avrebbero perso qualsiasi significato.
Devi essere maggiorenne per poter partecipare. Ti porterò con me quando avrai diciott’anni. Per il tuo compleanno ti regalo l’iscrizione ad una gara. Ecc. Ecc.
Mio padre non faceva che ripetermelo. Dovevo avere solo un po’ di pazienza, ormai non mancava tanto. Peccato che il fatidico giorno ricorresse nel mese di giugno, cioè due settimane dopo l’evento sul quale lui – e, di conseguenza, tutta la famiglia – investiva il frutto degli sforzi di mesi e mesi. Per due sole stupide settimane avrei dovuto rimandare di un anno intero ciò che sognavo da una vita.
Il segnale era la coda di Birba: quando cominciava a scacciare le mosche, capivo che papà stava arrivando. Correvo subito alla finestra, volevo essere lì prima che lui alzasse lo sguardo per cercarmi. Dovevo essere pronto a ricevere il suo saluto festoso, ad accogliere il suo arrivo trionfale, ad esultare per quel cappellino sventolato al cielo, che sarebbe di lì a poco finito sulla mia testa.
Questo rito segnava la fine del giorno: lasciati compiti, amici e giochi, entravo nel mondo del crepuscolo e delle favole, mondo del quale mio papà era il sommo principe. Erano certo grandi imprese quelle che lo rendevano così affannato e sudato, ed ero sicuro che assistendolo avrei potuto assimilare il suo valore per poter anch’io, prima o poi, sostenere simili prove. Così, osservandolo di sottecchi attraverso la visiera che mi scendeva sugli occhi, cercavo di imitare i quegli strani gesti con gambe allungate di qua e di là, piegato, disteso e poi ancora piegato. Birba ci guardava stranita, ma ormai aveva imparato che non doveva azzardarsi a saltarci addosso, non era questo il momento di giocare. Terminati gli esercizi, arrivava il momento per me più impegnativo, quello che mi vedeva investito di una grande responsabilità: dovevo prendere il suo quaderno e trascrivere i dati che lui mi dettava. Numero di chilometri, ore minuti e secondi, condizioni meteorologiche e considerazioni di vario genere su soddisfazione, fatica o eventuali acciacchi. Gli riconsegnavo poi il diario, pronto a rispondere all’immancabile domanda: Quanto manca? La mia trepidazione per il grande evento era pari alla sua, se non più intensa. A mano a mano che la data si avvicinava, cominciavo a trascurare gli amici, sempre meno interessato ai tiri al pallone: volevo accostarmi il più possibile a lui, al suo spirito, alle sue sensazioni. Pensavo che, dimostrandogli che potevo emularlo, si sarebbe sentito ancora più forte. L’orgoglio di avere un fedele seguace, nonché un degno erede, non poteva che renderlo più sicuro delle proprie capacità. E questo, oltre a rappresentarlo invincibile ai miei occhi, avrebbe fornito sempre più concretezza al mio sogno: quello di correre con lui. Solcavo il perimetro del campo di calcio, mentre i miei compagni schiamazzavano nelle loro partite. Giravo e giravo attorno come un criceto nella ruota, senza stile né ritmo, fino a sfinirmi. Ma mi guardavo bene dal lasciar trapelare qualsiasi segno di stanchezza quando lui rientrava dall’allenamento: non solo perchè la sua eroica fatica doveva trovare un forte e pronto supporto, ma anche per non rivelare prematuramente i miei propositi. Doveva essere una sorpresa, tale da fare luccicare i suoi occhi: per lo stupore di trovarmi al suo fianco in pantaloncini e canotta e per l’orgoglio di avere un nuovo, fedele, insostituibile compagno di corse.
Non ho mai capito cosa non avesse funzionato nei miei piani. Probabilmente sapeva da sempre che non avevo mai calciato un pallone, o forse la sua era semplice e geniale intuizione paterna. Fatto sta che, per la promozione in prima media, ricevetti in regalo un fiammante paio di scarpe da corsa. Non l’avesse mai fatto! Come poteva pretendere, ora, che lo aspettassi buono e tranquillo alla finestra? Le mie gambe ben carburate scalpitavano, i miei piedi fremevano nel nuovo rivestimento, il mio impeto cercava sfogo e soddisfazione. Anziché attenderlo al varco, iniziai a corrergli incontro, e ben presto l’ultimo tratto del suo rientro diventò una sfida a chi toccava per primo il muro di casa, con Birba che incitava abbaiando vivacemente. Non so quando smise di lasciarmi vincere, quando il suo sforzo si fece reale e le mie vittorie, da semplice gioco, divennero una vera e propria conquista. Di certo, la strada per incontrarlo si allungava sempre di più, e sempre più esteso era il percorso che condividevamo.
Mi guadagnai così la partecipazione alle manifestazioni domenicali dove, però, dovevo accontentarmi dei circuiti ridotti, riservati ai ragazzini e a quelli che non volevano impegnarsi troppo, mentre papà esprimeva il suo talento sulle prove competitive. A me non era permesso, non ancora. Incapace di placare la mia irrequietudine, vivevo emotivamente le gare, condividendo le gioie e i dolori del mio mentore. Saltavo e urlavo come un clown quando lo scorgevo approssimarsi ansimante al traguardo, liberando finalmente tutta l’ansia dell’attesa.
Attesa che aveva un sapore quasi surreale in quella tanto sospirata notte di maggio. Cento chilometri sono un’eternità, un abisso, follia pura. Quale pazzo ambirebbe a correre per cento chilometri? Eppure, i pazzi sono tanti, centinaia, e mio padre è uno di loro. Ovvio che io abbia sempre considerato questa sua passione tutt’altro che perversa: quella che, immancabilmente, lui realizzava ogni anno, era per me l’impresa delle imprese. Del resto, un evento intitolato al mitico Passatore non poteva che evocare memorabili gesta. Trascorrere la notte nella piazza di Faenza era ormai un appuntamento fisso. I primi atleti cominciavano ad arrivare in tarda serata, e a stento si poteva credere che fossero partiti da una città tanto lontana come Firenze. Sotto il traguardo si snocciolavano podisti più o meno provati dalla fatica. Io li osservavo attentamente, uno a uno, soffrendo per loro e, soprattutto, per il “mio” podista, quello che chissà a che punto si trovava del percorso e chissà in quali condizioni… Sapevo che l’avrei abbracciato solo sul fare del giorno, ma ugualmente pativo alla vista di ogni figura che si stagliava nel buio della strada, in prossimità della piazza.
Quell’anno, però, l’idea di stazionare ore e ore nel centro di Faenza non mi dava pace: non riuscivo a rassegnarmi al fatto che non potessi ancora correre con lui, solo a causa di una stupida beffa del calendario. Supplicai mio padre affinché mi permettesse di accompagnarlo anche senza essere iscritto, ma lui non volle sentire ragione. Giustamente, voleva evitare che mi sottoponessi ad uno sforzo per me ancora prematuro, ma alla mia mente giovane e ardita un simile divieto suonava come un’incomprensibile crudeltà. Insistendo con bronci e mugugni, riuscii ad ottenere almeno una concessione: quella di seguirlo in motorino, così da tenere sotto controllo ogni fase della sua prova ed essere pronto per qualsiasi evenienza. Salito sul camper dei suoi compagni di gara, ero già in fibrillazione. Una volta a Firenze, fissai con un groppo in gola il folto gruppo di atleti schierato alla partenza, prima di allontanarmi sul mio mezzo, precedendoli sul percorso per non essere di intralcio. Non mi rendevo ancora conto di quanto avrei penato, anch’io, nello stare tante ore su una sella, procedendo ad un ritmo che, sulle due ruote, risultava insopportabilmente lento. Avevo però modo di distrarmi: scrutando papà e immaginandomi nella stessa situazione. Quanto avrei sofferto, quanto avrei alleviato la sua fatica, quanto avremmo potuto confortarci a vicenda? Così fantasticando, i chilometri, scorrevano fluidi, sotto un sole che sfumava gradatamente, mentre le ombre dei podisti si allungavano, rade, sulla strada. Il buio piombò all’improvviso e, quando il motore si fece particolarmente rumoroso, capii che iniziava la salita: quella famigerata cima della Colla di cui tanto avevo sentito parlare. L’incubo di tutti coloro che osavano sfidare il Passatore, il punto in cui tanti cedevano: ma, una volta superato quel limite, l’arrivo era già a portata di mano. Sapevo che papà avrebbe affrontato di passo il duro ostacolo, quindi non mi meravigliai quando lo vidi rallentare. Ma quando si accasciò, appoggiato ad un albero, saltai subito in suo soccorso. Lui mi allontanò, temendo che il mio intervento potesse comportare una sua squalifica. Sto bene, disse, solo un po’ stanco. Ma non si decideva a ripartire. Senza troppo indugiare, mi dimenticai del motorino e, dopo averlo invitato a seguirmi, cominciai a correre piano piano davanti a lui. Non sprecò fiato per chiedermi che cosa stessi facendo, ma riuscì a rimettersi in strada e a riprendere il suo cammino. Bravo papà, così si fa! Procedeva lentamente, con me che lo precedevo di un passo, a fargli da traino. L’aria era fredda, nera e ostile, ma noi eravamo forti e determinati. Invincibili. La discesa era lì, palpabile, e Faenza, in fondo, non era tanto lontana. Di nuovo di corsa, ora, papà sempre dietro di me. Non avevo l’abbigliamento giusto, ma che importava? A quell’ora, su quelle strade, nessuno ci avrebbe fatto caso. Il cielo gradatamente ammorbidiva i suoi colori, segno che la distanza si stava via via accorciando. Io davanti, papà a ruota. Un lungo rettilineo e la piazza in fondo. Uscii dal percorso quando ormai l’impresa era compiuta, lasciandolo solo, per il suo personale trionfo. Per la prima volta non lo vidi tagliare il traguardo. Per l’ennesima volta, invece, lo sentii inveire contro il Passatore, giurando e spergiurando che non l’avrebbe mai più affrontato. Sapevo che, dopo una dormita, avrebbe subito cambiato idea. E sapevo che la stessa dichiarazione, di lì ad un anno, l’avremmo fatta insieme.
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