Affondo il
tallone nella sabbia, nera come il mio umore. Un anno lontana dalle corse, due
interventi chirurgici, terapie a non finire: a cosa è servito? Ad incrementare
a dismisura la voglia di correre, senza però risolvere minimamente il problema.
Oggi stento a camminare. È vero, ho corso tre tappe impegnative con pochissimi
chilometri nelle gambe e nessun allenamento: senza alcun cedimento, senza mai
fermarmi, senza concedere nulla alla diretta avversaria. Ma lo sconforto supera
la soddisfazione, anche quella di trovarmi terza nella classifica generale. Non
so se domani riuscirò a riprendere la gara e, soprattutto, rabbrividisco alla
prospettiva di un ulteriore stop di durata indefinita (per non dire infinita).
Anziché godermi il giorno di riposo, guardo il mare con le lacrime agli occhi,
sfinita da un dolore che non mi dà tregua e non mi lascia intravvedere vie
d’uscita. Pianto amaro e rabbioso, uno sfogo che mi scuote e quasi mi fa
gridare: questa volta non voglio fermarmi! Sono giunta sin qui in condizioni
ben peggiori rispetto all’anno scorso, ma sono altrettanto determinata a non
farmi scoraggiare: la sfida è tra la mia determinazione e il mio fisico acciaccato.
Poi viene la competizione. E fino ad ora sto tenendo testa.
La prima
tappa è una prova, dove gli interrogativi superano le certezze. Non so se
temere maggiormente il piede, che mi tormenta da sempre, o il fondo schiena, che
mi assilla da un paio di settimane. Giù con punturoni di Voltaren e Muscoril, produrranno
qualche effetto? Mi presento al via con il dorso ornato da un fantastico taping.
Faccio due passi tra i podisti impegnati nelle operazioni di riscaldamento: io
ho bisogno di camminare un po’ prima di azionare la modalità “corsa”. Vorrei
provare anch’io la loro tensione, il mio patema è di tutt’altra natura: quanto
soffrirò, quanto saprò resistere, sarò in grado di completare il circuito?
Perché, oltre ai malanni, bisogna considerare che nell’ultimo anno non ho mai
corso più di mezz’ora senza interruzioni. Dove troverò le forze per affrontare
questi tracciati, tanto impegnativi? Partire piano è un obbligo, per non
arrivare già impiccata all’attacco della salita. Al primo scollinamento sono
quarta, appiccicata alla terza, che però scappa lesta in discesa – dove io,
contrariamente alla mia attitudine, tiro le briglie, temendo ripercussioni alla
schiena. Il tallone grida, ma non l’ascolto. Intanto, ripresa la salita, mi
porto in terza posizione; cedo di nuovo in discesa, riguadagno nell’ultima
salita per poi essere definitivamente superata. Il quarto posto è di tutto
rispetto, nelle mie condizioni. Inutile però negare un pizzico di amarezza: in
uno stato di forma sufficiente sarei seconda. Ma tant’è, ora si tratta di
prendere una decisione: continuare, nonostante stia barcollando, o buttarmi in
mare? Risposta scontata: perché la tappa Acquacalda-Canneto è spettacolare, e
perché dopo un’ora di spiaggia comincio a scalpitare.
Pessime
sensazioni. Il piede è talmente incazzato che si rifiuta di muoversi; ho
difficoltà ad appoggiare, a spingere, a snodare la caviglia, a sollevare la
gamba. Leggo la mia disperazione sul viso di Jader: mi vede già sconfitta. Non
sa se incoraggiarmi o insultarmi. Volgo lo sguardo altrove e mi concentro su me
stessa: oggi è una passeggiata, ce la posso fare, ce la farò. Allo sparo, la
numero due schizza via come una forsennata: quest’anno si è preparata per
essere qui al top e sta facendo scintille, beata lei. Io affronto i tornanti
con la terza, mi pare un po’ sofferente nell’affrontare le salite. O forse è
solo una mia impressione: può essere che mi stia semplicemente controllando,
per salutarmi una volta superate le cave di pomice. Fedele alla mia andatura,
me la lascio alle spalle – certa di trovarmela nuovamente accanto nel tratto in
piano. Invece, percepisco la sua presenza ma non la vedo. Grande tattica.
Dolore sotto controllo, proseguo imperterrita anche sull’ultima salita, la più
infame: mi giocherò tutto sul finale, sulla discesa a perdifiato. Lascio i
freni e vado. Un altro traguardo è conquistato, e ho guadagnato una manciata di
secondi. Come dice un amico, adesso non puoi stare tranquilla, ti tocca tirare
fino alla fine. Pericolosissimo, per una emotiva come me. Paradossalmente, la
mia salute precaria favorisce l’allentamento della tensione: sono talmente occupata
nel tenere assieme i vari pezzi di un fisico in rovina, che ho ridotto i
margini di concentrazione sulla gara. Ad
impensierirmi, a dire il vero, è il famigerato “tappone”: quasi quindici
chilometri, di cui buona parte in salita. Come si fa? Non lo ricordo più.
Eppure, non vedo l’ora di affrontare la prova più dura.
Piede sempre
una schifezza, alla quale si aggiunge un fastidio nuovo, una strana tensione
che sembra irradiarsi dal gluteo in giù. Provo ad allungarlo, persino a
sculacciarmi, ma l’ansia sale. Jader mi osserva sconsolato, leggo i suoi
pensieri e taccio i miei: anche oggi ti sorprenderò, amore mio, stanne certo. Muoio
di paura e scalpito allo stesso tempo: sono in stato confusionale, penso a
tutto e a nulla. C’è un’immagine mi si
stampa in mente nei momenti di difficoltà, quando sono sul punto di cedere: la
pagina del Moleskine scritta prima di schierarmi in griglia sul ponte di
Verrazzano, nel 2005.
Vedo la mia grafia, tonda e ordinata: vedo le parole di
una podista spaventata ma sicura, mi vedo e mi sento. Sono sempre io: sono
calma e farò una gran gara. Per un buon tratto, io e la terza corriamo
appaiate. Quando si stacca, credo ancora lo faccia per controllarmi. Tutto ciò
che posso fare è mantenermi sul mio ritmo, non ho alcuna risorsa a cui
attingere, nessuna energia da sprecare. Su questo percorso, poi. Tanto
spettacolare quanto bastardo. Ti sfianca con interminabili salite, quindi ti
illude con piacevoli discese, per poi ammazzarti con nuove impennate: e quando
sei lanciato in picchiata, col miraggio del traguardo, ti aspetta un chilometro
pianeggiante che corri quasi in ginocchio, tra curiosi e turisti. Ogni volta,
arrivata a questo punto, penso di non farcela: so che è finita, ma il
rettilineo è interminabile. Le gambe non ne vogliono più sapere: vorresti spingere, chiudere con un bello
sprint, ma sei inchiodata al suolo, se qualcuno ti prendesse a calci lo
ringrazieresti. Temi di essere abbattuta e calpestata da tutte le avversarie
del mondo, temi di stramazzare a terra prima di involarti sull’arrivo:
l’arrivo, appunto, dove accidenti è finito? Eccolo lì, senti il tuo nome, senti
annunciare la terza donna. Senti che sei ancora viva, e che qualcuno è forse
più felice di te. Sorpreso, vero?
Poi venne il
giorno di riposo. Giovedì nero – nonostante lo splendido sole. A rimuginare sui
cinque secondi di vantaggio e a piangere su un calcagno irrecuperabile. Non
intendo fermarmi, proprio no. Che Vulcano mi assista: questa corsa s’ha da
fare, fino alla fine.
Lo confesso:
detesto la quarta tappa. Cinque giri nel centro di Lipari, tra turisti
distratti e pietrini insidiosi – senza parlare di quella rampa da cardiopalma.
Il piede, rispetto a ieri, è quasi nuovo. Duole sempre, ovvio, ma ad un livello
tollerabile. Di contro, mi manca l’aria, come fossi in affanno ancora prima di
partire. Ansia da prestazione? Cinque secondi sono veramente un soffio. Su
questo percorso, poi, l’avversaria è molto più avvantaggiata di me: la sua
preparazione e la sua destrezza qui si possono esprimere al meglio. Su di me,
solo note negative: infortunata, impreparata, insicura. Rivedo quella pagina, e
lascio che si aprano le scommesse. Il mio compito sarebbe controllare, ma da
subito mi sento controllata. Più piano di così non potrei andare, aspetto di
essere superata per incollarmi. Ma non succede, non al primo giro. Dal secondo,
comincio a spingere un po’ di più nella salita, quasi fosse una ripetuta:
sprint e recupero, sprint e recupero, sprint e recupero. Ho capito di avere
progressivamente guadagnato secondi, ma non sono affatto tranquilla:
nell’ultimo giro sono decisamente provata, fisicamente e mentalmente. Ho un
buon margine, ma i conti si fanno al traguardo. E i numeri sono con me.
L’avresti mai detto?
Matematicamente,
potrei già considerarmi terza. Ma la gara finisce con la quinta tappa e, per
quanto mi riguarda, tutto può ancora succedere. È vero che in cinque chilometri
scarsi è difficile perdere un minuto, ma io resto un rottame e chi mi segue è
forte e allenata. Insomma, come si diceva: ti tocca tirare fino alla fine. Un
temporale nelle prime ore del giorno ha formato ampie pozzanghere che
costringono a qualche slalom. Cerco di controllare nel primo chilometro,
pianeggiante, per riuscire a spingere un tantino nel tratto in leggera salita e
guadagnare un po’ di strada prima della discesa, dove il vantaggio potrebbe
accorciarsi. Conduco la gara al massimo
delle mie possibilità. E realizzo il miracolo.
Un miracolo
averla portata a termine, un miracolo avere guadagnato il podio. È il potere
taumaturgico di questa terra, non ho più dubbi: gli odori, i colori, i sapori.
L’energia che ribolle, che impregna l’aria e penetra la pelle: la respiri, la
assimili, pervade le tue fibre. Trasforma gli umori e gli stati d’animo:
fornisce carica esplosiva anche alle indoli più afflitte. Qui ho realizzato
l’impresa. E non mi riferisco tanto alla mia posizione in classifica, quanto
alla mia condotta di gara: a dispetto di tutto e di tutti, non ho mai ceduto.
Non ho camminato un solo metro, non ho mai pensato di ritirarmi, non ho mai
perso la speranza. Ho sfidato me stessa, i miei limiti e le mie debolezze. Ho
vinto, contro ogni pronostico. Soprattutto: ho sorpreso chi ha subito ogni mia
lamentela, ogni mia paura, ogni mio sconforto. Era il mio obiettivo, scorgere
la sua meraviglia giorno dopo giorno. Obiettivo centrato. Ora, di obiettivi ne
ho a iosa: si tratta di continuare a crederci. E lasciare esplodere il vulcano
che è in me.
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