giovedì 1 novembre 2007

VENEZIA







Finalmente. Finalmente arrivo alla vigilia di una gara con mente serena e tanta voglia di correre. Erano anni che non provavo una simile carica positiva, anni passati a lottare con infortuni e varie negatività. Due recenti ritiri ad infierire su un programma di allenamento che non ha dato i frutti sperati. Ma ora basta. Non sono al top, è vero, ma che importa? Qui darò comunque il meglio e da qui ripartirò. Ne sono sicura.

Sbuccio una banana e mi metto in coda, per ritirare il mio pettorale. L’expo è affollato, aria pesante quasi irrespirabile, ma come mi esalta! Adoro curiosare tra gli stand, raccogliere omaggi, magari incontrare facce conosciute. Chiacchiere, tante chiacchiere, e sorrisi e abbracci. Mi sto divertendo, anche se non dovrei stare tanto in piedi, anche se rischio di stancarmi troppo. Ma cosa farei se non fossi qui? Passerei il pomeriggio a misurare il tempo che scorre, pensando alla gara fino a farmi venire mal di testa.
Ecco, non lo dovevo nominare. Il mal di testa mi attacca violentemente durante il sonno, la notte. Sarà il caldo esagerato della camera, o la strapazzata del pomeriggio, oppure la tensione che, nonostante tutto, si fa sentire. Mi addormento e mi risveglio di continuo, mi dico che passerà, che non è niente, ma la preoccupazione, inevitabilmente, sale.
Mi alzo decisamente intontita, mi sento ovattata, tutto ondeggia e rimbomba attorno a me. Quasi mi manca il respiro. Provo a far finta di niente, non voglio spaventare Jader. Passerà.
Sul pullman cerco di rilassarmi e un po’ mi assopisco. Ma sì, sto meglio, sarà una grande giornata.
Il clima è dalla mia parte, non sento freddo e non è neppure troppo umido. L’attesa, in zona partenza, non è tanto lunga: non c’è tempo per annoiarsi, e nemmeno per pensare troppo.
Così si parte. Senza eccessiva foga o violenti spintoni. Incredibile. La mia prima gara senza nessuno che mi tocchi i piedi!
Imposto un ritmo che vorrei mi accompagnasse il più a lungo possibile, e su questa andatura incontro diversi compagni di strada. Qualcuno passa e va, qualcuno resta indietro, nessuno mi sarà accanto fino alla fine. Ma ci sono abituata. Ciò che conta è che sto bene.
Il passaggio alla mezza è perfetto, sono già a metà – notare: già a metà, non solo a metà.
C’è tanta gente lungo la strada, gente che incita e applaude: sapessero quanto mi incoraggiano, e quanto mi caricano anche i gruppi musicali, ragazzi giovanissimi che offrono un vero spettacolo. Le note di Every breath you take sono un’emozione fortissima, per un attimo chiudo gli occhi e lascio scorrere quelle parole dentro di me.
Entriamo nel parco di San Giuliano, Marescalchi esalta il mio sorriso. È vero, siamo al trentesimo e sto sorridendo. È che tutto mi sembra bellissimo: questa giornata è bellissima, questo percorso è bellissimo, Venezia, lì ad un passo, è bellissima. Sono felice di essere qui.
Attraverso il ponte della Libertà quasi in trance. Sapevo che mi avrebbe fatto questo effetto. Quello che per tutti è un incubo infinito, per me è una sorta di passaggio in una dimensione senza spazio e senza tempo. Continuo a sorpassare podisti più o meno in crisi. Vedo il profilo della città, la sento già mia. E quando ci arrivo, quando mi trovo sulla prima delle quattordici passerelle che coprono i ponti, do sfogo ad una grinta che raramente ho saputo rivelare. Aggredisco quei ponti quasi dovessi sfondarli. Largo, largo, sto arrivando io! Accidenti, proprio sull’ultimo mi trovo davanti un podista che mi ostruisce il passaggio, non ci voleva adesso, quando devo lanciare lo sprint. Accelero al massimo sul rettilineo finale, tagliando il traguardo esultante e gioiosa.
No, non ho fatto il personale, né mi sono piazzata in qualche classifica. Ma ho finito una maratona, dopo due anni di digiuno. E l’ho finita piena di energia, già pensando alla prossima.

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