Il
rientro al lavoro, la ripresa dei ritmi consueti, la gestione delle attività
(sportive e casalinghe): ecco le ragioni della mia latitanza su questo diario. Aggiungo,
il timore di finire col parlarmi addosso, di risultare ripetitiva, di dire
sempre le stesse cose. Che questo piede non ne vuole sapere di “fare giudizio”,
che chissà se mi riavvicinerò mai più ad una corsa, che le mie elucubrazioni
tendono costantemente al catastrofismo.
Un
mese fa ero appena uscita dall’ospedale, stanca e indolenzita. L’unico
desiderio era dormire: per non pensare, per rigenerarmi, per svegliarmi con un
giorno di convalescenza in meno. Un mese. È molto o poco? Come dovrei sentirmi,
stando al protocollo? Non oso approfondire la questione, preferisco affrontare
il mio parere – sempre troppo influenzato dall’interpretazione di ogni segnale:
l’aspetto delle ferite, le sfumature del dolore, le parole di chi mi assiste. Devi ascoltarlo di meno, quel piede.
Sapessi come lo vorrei! Dimenticarmi della sua esistenza, considerarlo alla
stregua del naso, dell’orecchio, delle dita della mano. Sembra facile. Perché come
si fa a non pensarci e a prendersene cura allo stesso tempo? Dovrò pure
volergli bene, trattarlo con i guanti, coccolarlo a dovere. Idromassaggio quotidiano,
scarpe comode, passi misurati. Arrivo persino a portarlo in piscina. Ebbene sì,
ho ceduto. Per non lasciare nulla di intentato, ché non mi si accusi di avere
boicottato l’iter verso la completa guarigione. Un martedì pomeriggio, a pochi
chilometri da casa, approfittando della compagnia di un’amica che là è di casa.
Esagero: sottoscrivo un abbonamento di dieci entrate. Subito, senza nemmeno
provare, determinata come un pompiere. Se riabilitazione deve essere, che lo
sia fino in fondo. Mi butto in acqua e, con sorpresa, non avverto alcun
brivido. Vuoi vedere che questa vasca è davvero tiepida come mi avevano detto? Inizio
a calciare avanti e indietro, come mi è stato insegnato. Qualche minuto, poi
parto. Si sta proprio bene, la sensazione è oltremodo piacevole. Che sia per
questo, o forse per il mio ritmo lento, fatto sta che non provo fatica, né sento
la necessità di riposarmi tra una vasca e l’altra. Decido di arrivare a dieci,
per rimettermi a calciare. Poi altre dieci, e ancora calci. Ancora due serie, e
per oggi sono a posto. Facciamo due
vasche di gambe? Ma sì, divertiamoci a sfidarci, fianco a fianco, spingendo
a più non posso. Torno a casa contenta, oltre le più rosee prospettive. Ho realizzato
qualcosa di utile, per il fisico e per lo spirito.
Poi
succede che gli eventi si accaniscano ancora una volta contro di noi, mai una
volta che si spezzi il ciclo: se conquistiamo una gioia, immediatamente dopo
subiamo uno smacco. Prima lo scooter, ora l’auto: progetti che vanno a puttane,
soldi che non bastano mai. E poi ti dicono che devi mantenerti positivo, che la
sfiga non esiste… Come no! Sforziamoci pure per non abbatterci, per aggrapparci
al poco di buono che ci accompagna, ma che stanchezza.
In
tutto questo, il calcagno cosa dice? Giunta l’ora della seduta fisioterapica,
devo esprimere un opinione. Da alcuni giorni, un po’ meglio. Per l’esattezza,
quasi bene ieri e l’altro ieri, oggi invece si è risvegliato. Cammino meglio, è
vero, quasi normalmente. Il trattamento è dapprima doloroso, per poi volgersi
in gradevole. Ci aggiorniamo la prossima settimana. Ma domani ci vediamo: altro
luogo e altro contesto. Lui corre, Jader fotografa, io… Peso morto, ma di
restarmene a casa da sola, la sera del 2 giugno, non mi va proprio.
Quindi,
dopo la mattina trascorsa in piscina (50 vasche in tutto), il pomeriggio arriva
veloce e siamo tutti insieme sul furgone diretto a Reggio Emilia. I famosi
ponti di Calatrava, l’idea di questa gara non mi aveva mai sfiorata, orario per
me devastante, perciò mi tocca il giusto parteciparvi esclusivamente come
spettatrice. Qualche faccia conosciuta, convenevoli il minimo indispensabile,
temo solo di camminare più di quanto dovrei, vanificando i progressi sin qui
conseguiti. Ma la serata trascorre allegra, Jader sprizza entusiasmo. Peccato che
io sia sempre troppo abbottonata, che non riesca a scrollarmi di dosso
titubanze e preoccupazioni. Non vorrei aver rovinato l’atmosfera: non vorrei
essere la causa di futuri mancati appuntamenti. Dormiamoci su, che domani è
domenica e la bici mi aspetta.
91
km, con un discreto vento. Fatica il giusto, ma una volta ferma la testa
comincia a girare. Che sia a causa del semi digiuno di ieri? Buttiamo giù
qualcosa e passiamo oltre. Ciò che conta è che il piede non abbia risposto
negativamente agli “stravizi” del sabato. Ciò che conta è che mi sia convinta:
sto guarendo.
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