Siamo nel pieno di quella stagione in cui ti chiedi se mai
rivedrai il sole. L’inverno, da noi, è un film in bianco e nero: giornate
monocromatiche, opache e lattiginose. Perfette per l’umore, del tutto adeguate
alla mia condizione. Lo stato d’animo di chi brama per un barlume da oltre un
anno, di chi ha ormai assunto le sembianze di quel paesaggio: inerte e
ammuffito. Si azzerano i tempi di reazione, si annichilisce l’entusiasmo, spenta
è la motivazione. Il gelo impera, sui campi e sull’indole. Può una zoppa
arrischiarsi su strade ghiacciate? Proprio no. Meglio dirottare su attività
alternative, giusto per non rattrappirsi. Trascinarsi fino alle feste,
lasciarle scorrere come niente fosse, e presentarsi sulla linea di partenza con
i soliti dubbi: raggiungerò il traguardo? Che angoscia. Ogni giorno chiedermi
se e quanto riuscirò a correre, sondare di volta in volta lo stato dei vari
acciacchi, evitare di posare lo sguardo sul calcagno per paura di vederlo
paurosamente lievitato. Cosa c’è lì dentro che non mi dà pace? Cosa devo fare
(o non fare) per uscire da questo stallo? Non pensarci, non ora. Oggi ho una
grande opportunità: quella di attaccarmi a una lepre – sperando non decida di
abbandonarmi al mio destino. Ma certo che lo farà, impossibile sopportare la
mia andatura da passeggio. Sono anzi io a spronarlo: vai pure, tu che ne hai. Ma figurati, stiamo andando benissimo! Ad
ogni chilometro controlla la media e mi rassicura. Sarà. Io devo fare i conti
col dolore e con la mia pessima forma: cosa aspettarsi da chi corre poco e
male, da chi vorrebbe onorare complesse tabelle di allenamento, ma a malapena
riesce a seguire uno straccio di schema? Dai,
che all’ultimo giro andiamo a prendere quella là. Certo, aspetta proprio
me. Significherebbe dare tutto proprio nel finale, impossibile quando mancano le
risorse da cui attingere. Proprio impossibile? Sembra di no:
sembra che lo spazio tra me e l’altra si stia restringendo, pare davvero che mi
stia avvicinando. Nonostante senta di non averne più, nonostante anche lei sia
scortata. Effettuato il sorpasso, monta l’orgoglio. L’obbligo è non farsi riagguantare.
Pazienza se ci supera un marciatore, pazienza pure se ci doppia il vincitore
della gara. Ormai si tratta di affrontare l’ultimo chilometro: quello in cui non
si vede la fine, quello nel quale le gambe diventano piombo, quello che
affronti annaspando come un pesce fuor d’acqua. Traguardo raggiunto. Degnamente.
Grazie al gabbiano che mi ha protetto con le sue ali. Avevo dimenticato cosa
significhi avere qualcuno che ti accompagna, che sa incoraggiarti, motivarti:
ti distoglie dai pensieri più cupi e ti lancia una sfida. Perché devi
meritarlo, quell’aiuto; devi essere all’altezza, non puoi permetterti
cedimenti, guai deludere chi ti porge il fianco. Sono stata brava, siamo stati
bravi. Sì, ma poi? Poi succederà che, esaurita l’adrenalina, il calcagno
presenterà nuovamente il conto e se ne fregherà del ghiaccio e dell’arnica che
gli verserò addosso. Mi rialzerò zoppicando e zoppicando trascorrerò la
giornata. Fino a quando non riproverò a correre, sempre con lo spirito di un
condannato: uscire senza sapere cosa succederà.
Concludere un allenamento è già una vittoria,
ovviamente non prendendo in considerazione i tempi. Sempre senza avere un idea
dei tempi mi ripresento su un campo di gara. Per l’esattezza, un gomitolo di
strade tra i campi, nel gelido abbraccio della nebbia. Sono le terre della mia
infanzia, qui ho respirato i primi tre anni della mia vita. Anche per questo ho
voluto essere presente. Non mi era mai capitato di correre in prossimità del
luogo in cui sono nata, luogo di cui ho ricordi sfumati – così come sono
sfumati dalla bruma i contorni di case, alberi e persone. Temo che, quand’anche
sopravvivessi al dolore, oggi sarà il freddo a finirmi. Fatico a respirare, l’aria
gelida penetra il mio essere rendendomi catatonica. Vi prego, fateci partire
prima che muoia. Un giro attorno al caseggiato, appena cinquecento metri, poi
fuori, verso il nulla. Subito un cavalcavia, tanto per spezzarci subito le
gambe. Nonostante tutto, il primo chilometro risulta abbastanza veloce. Per modo
di dire, certo. Insomma, più di quanto avessi ipotizzato. È che in questo stato
di “corsa e non corsa” fatico ad avere una percezione della mia andatura, mi
manca proprio la sensibilità al ritmo. Stavolta, poi, non ho nessuno a cui
affidarmi. Posso contare solo su me stessa – il che è tutto dire. Ad un certo
punto le strade di chi va e di chi viene si incrociano, un giro di boa e siamo
di nuovo sul cavalcavia. Accidenti, vogliono proprio renderlo cattivo questo
Trofeo 8 Comuni. Ancora un passaggio in paese, prima di perderci nelle lande
desolate. Non è uno scherzo. Quando scocca il sesto chilometro, cioè l’ipotetica
distanza della gara, prevale il senso di smarrimento. Non ho la minima idea di
dove siamo, né di dove sia l’arrivo. Un margine di errore ci sta, non mi
aspettavo certo un percorso misurato al centimetro, ma qui si vede solo
campagna. O meglio, non si vede proprio nulla. Nebbia, nebbia e solo nebbia. Suona
il settimo chilometro, la situazione si fa grottesca – per non dire drammatica.
Quanto mancherà? Sarebbe bello saperlo. Invece davanti a noi si profila l’ennesimo
cavalcavia. Oh no! È quello di prima o è un altro? Siamo quasi alla fine o da
tutt’altra parte? Intanto, pur arrancando, in salita supero una ragazzina in
seria difficoltà. Poi, in discesa, agguanto anche un’altra podista. Odo delle
voci: a meno che non stia delirando, il traguardo si avvicina. Otto chilometri
e spicci. Pare che il tragitto sia stato improvvisato sul momento.
Non so se
sia peggio questo, o fare la fila per transitare sull’arrivo. Prendiamola in
ridere, che sono ancora viva. E, nonostante tutto, ho corso pressoché allo
stesso ritmo di qualche giorno fa. Mi godo il momento, che so avrà breve
durata. Tra poco tornerò a zoppicare, e a domandarmi se e quanto riuscirò
ancora a correre.
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