venerdì 1 gennaio 2021

Letture 2020

 L'unico bilancio che posso fare dell'anno nefasto appena concluso è quello delle mie letture: 

Grandi speranze Charles Dickens

La straniera Claudia Durastanti

Il guardiano della collina dei ciliegi Franco Faggiani

Lamento di Portnoy Philip Roth

Fiesta Ernest Hemingway

Uomini e no Elio Vittorini

Vi prego di strappare questa lettera Lev Nikolaevič Tolstoj

Lettere scontrose Giovanni Arpino

La vita davanti a sé Romain Gary

Il colibrì Sandro Veronesi

American psycho Bret Easton Ellis

Lacci Domenico Starnone

Un dolore così dolce David Nicholls

La misura del tempo Gianrico Carofiglio

Le ore Michael Cunningham

Primavera Ali Smith

Macbeth William Shakespeare

La cura Schopenhauer Irvin D. Yalom

Il nuotatore John Cheever

Middlesex Jeffrey Eugenides

Oblio David Foster Wallace

La suora giovane Giovanni Arpino

Il rosso e il nero Stendhal

Il senso di una fine Julian Barnes

Le inseparabili Simone de Beauvoir






venerdì 30 ottobre 2020

Tutti giù per terra

 

Cleopatra è già saltata su e giù dal letto diverse volte quando suona la sveglia. Le prova tutte per farmi alzare, così da poter conquistare un cantuccio caldo in cui accoccolarsi. E io le ho provate tutte per farle perdere questa pessima abitudine. Invano. Due anime irrequiete, già dalle prime ore della mattina. Con la differenza che lei scalpita per tornare al più presto a ronfare, io invece mi dimeno alla ricerca del sistema meno traumatico per rimettermi in piedi. Mi stiracchio, sgranchisco le gambe, e ascolto. Cosa dirà stamattina? Sarà sempre un grido insopportabile? Tutti i giorni lo stesso assillo. Da quanto tempo? Troppo. Ormai dovrei essermene fatta una ragione, ma assuefarsi al dolore non è così facile: non quando ti accompagna ad ogni passo, e rende allucinante persino lo spostamento dalla sedia al divano. Provo a fare finta di niente, a condurre una vita “normale”: cosa vuoi che sia, con tutte le disgrazie che infestano questo mondo? Peccato che fingere mi riesca malissimo – e questo mondo, fondamentalmente, mi faccia abbastanza schifo. E pensare che mi ero illusa. Avevo creduto di avere ancore delle speranze. Non di tornare quella che ero, ovvio. Ma riprendere la buona strada sì, questo lo avevo ritenuto possibile. Perché il quadro che si era definito dalla disanima del mio caso era ineccepibile, e le prospettive si delineavano severe ma convincenti. Stabilito il metodo, si trattava di sperimentarlo: sondandone gli effetti e aggiustando il tiro se necessario, procedendo con tanta cautela ma con altrettanta convinzione. Percorso complesso. Perché il ricordo del dolore è esso stesso dolore, e pare impossibile liberarsene: quanto sia il reale e quanto il percepito è difficile da comprendere. Nella consapevolezza che non mi abbandonerà mai, devo riuscire a tenerlo sotto controllo: gestirlo e dominarlo. Un gioco di incastri, un puzzle sempre alla ricerca della tessera adeguata, un mosaico scheggiato nei dettagli ma armonico nell’insieme. Questione di prospettive. E di equilibrio: avanzare su di un filo sottile con lo sguardo fisso all’orizzonte, a dispetto della paura di cadere.

Ma la corda si è spezzata. Quando il piano sembrava procedere alla perfezione. Succede sempre così, no? Sul più bello crolla tutto. Possibile che in un attimo si frantumi quanto era stato costruito con tanta dedizione? Non potrebbe essere solo un disagio passeggero? Qualche giorno di riposo poi si riparte. Facciamo una settimana. Anzi due. Che diventano tre, quattro, e… Segni di miglioramento? Zero. Anzi, va sempre peggio, peggio che mai. Diagnosi e prognosi, cause ed effetti, tesi e antitesi: un film già visto. Il ritorno di un incubo. Dove ho sbagliato? Cosa dovrei riconsiderare – o ritentare? Proprio nel più nefasto dei periodi, con la pandemia che dilaga e i soldi che ormai non bastano neppure per mangiare, mi ritrovo inerme e sfiduciata. Completamente spenta, Mi ostino a sfiancarmi con attività alternative, pur chiedendomi a che scopo, tanto non correrò più. Temo il giorno in cui la stanchezza, ora solo mentale, si abbatterà anche sul mio fisico, così da ridurmi ad un’ameba. Il tanto vituperato 2020 sta per finire. Al 2021 non voglio neppure pensare.  

 




                                                                                                                                                   

mercoledì 5 agosto 2020

Diecimiglia (anzi, tre) del Garda

Si può correre senza allenarsi? Ci si può allenare senza un obiettivo? La motivazione può essere alimentata semplicemente dalla sfida con se stessi? Tecnici ed esperti hanno materia su cui sbizzarrirsi, un dibattito aperto ad ogni sorta di interpretazione. Onestamente, non mi sono interrogata tanto sulla questione: anzi, non mi sono affatto posta il problema. Troppo concentrata sulla tenuta del mio fisico per potermi lamentare dell’assenza di gare. Anzi, a ben pensarci, lasciare lontani gli appuntamenti importanti può essermi di giovamento: più tempo per ritrovarmi, per ricostruire i gesti, per reimpostare gli schemi. Il grande evento è sfumato? Pazienza. Io continuo ad impegnarmi “come se”, seguendo le amate tabelle, annotandomi progressi e delusioni. In funzione della mia soddisfazione e, soprattutto, del mio equilibrio psicofisico – e scusate se è poco.

Capita poi, inaspettata, l’occasione di appuntarsi un pettorale. Così, all’improvviso, senza quasi avere il tempo per pensarci né, tanto meno, per programmarsi. Cinque chilometri scarsi, il breve ma intenso che non ho mai saputo gestire. Percorso sconosciuto, località sconosciuta, sconosciuti i partecipanti. Perfetto. Sono allenata? Abbastanza. In questi mesi mi sono impegnata, determinata e concentrata nonostante tutto: posso dire di non aver perso un colpo. Sono preparata? No. Nel senso che gareggiare non era affatto nei mei pensieri. Meglio così. Improvvisiamo e divertiamoci.

Già, divertiamoci. Cosa ci vuole? Basta alleggerire la testa, liberandola dai soliti, nefasti pensieri. Come si comporterà il piede? Sopporterò l’affanno? Saranno adatte le scarpe? E se sorgesse qualche nuovo acciacco? Notte tormentata, tra l’ansia per la sveglia in orario assurdo e il temporale che infierisce con sadica violenza. Il viaggio è lungo, iniziato con acqua a secchiate e proseguito attraverso squarci di sereno. Il lago, finalmente. Le emozioni si affastellano tra l’orizzonte e la memoria: quel capodanno romantico, un secolo fa; la gita di Pasqua, qualche mese più tardi, attrezzati per affrontare la ferrata dell’amicizia. Un’altra escursione all’Altissimo di Nago. Quindi le corse. Un’allegra competizione organizzata dalle radio italiane, a Riva del Garda. Poi, anni dopo, i campionati italiani di mezza maratona a Polpenazze dove, formichina tra i giganti, conquistai persino un premio di categoria. L’album dei ricordi è ancora aperto, tante devono essere le pagine da valorizzare e oggi aggiungeremo una nuova figurina.

La strada si inerpica, cambia il paesaggio e anche la temperatura: quasi uno shock termico, dopo i quaranta gradi sopportati fino a poche ore fa. Navazzo si presenta silenzioso e tranquillo, ancora addormentato. Una strada e, sul cucuzzolo, una chiesa. È lassù che si concentra tutta la vivacità del borgo: là pulsa il cuore della gara. Diversi operatori si occupano della consegna dei pettorali, così da non creare code né assembramenti. Ovviamente si accede con mascherina, previo controllo della temperatura. Ricevo la busta e il pacco gara (acqua, birra, brioche, borraccia e maglia tecnica). Ho tutto l’occorrente, non mi resta che correre. Sì, ma non con quella faccia! Va bene, si tratta sostanzialmente di un cross, ma ne hai fatti tanti e te li sei persino goduti. Avevi le chiodate? Dettagli. Qui il percorso è vario, bello mosso, diciamo allegro. Allegramente accedo allora all’area di riscaldamento (un piccolo campo da calcio), dopo l’appello dell’organizzazione e un ulteriore controllo della temperatura. Partenze individuali, a chiamata, con venti secondi di distacco tra un atleta e l’altro. Iniziano subito le difficoltà: discesa a tornanti, condita con tappeto di foglie bagnate. Mi sento subito ridicola. E il bello deve ancora venire. Subito dietro l’angolo, al termine della rampa, curva secca a destra e via sul prato. Morbido, un bel manto erboso, tutto sommato abbastanza compatto. Ma è pur sempre campagna. Ed è tutto un su e giù. Scendi di là, risali da quella parte, poi di nuovo indietro, zigzag qua e là, per poi arrampicarsi alla riconquista dell’asfalto. Nemmeno il tempo per riassestarmi, che mi ritrovo di nuovo coi piedi sull’erba. Sono piantata. Sarà normale tutta questa fatica? Riuscirò ad arrivare viva? Ho già subìto due sorpassi, mi sento un’ameba. Quelle che ho superato io non fanno testo – tranne una, che ha cercato di tagliarmi la strada per non farmi passare: vederla schiattare è una goduria. Quando finalmente si abbandona il campo, resta circa un chilometro di sofferenza. Ancora qualche gimcana, poi l’attacco alla rupe. La salita mi sfianca, come non ne avessi mai affrontate in vita mia. C’è gente che incita, dai che è finita! Uno scatto di orgoglio, per racimolare le ultime energie sopravvissute. Che pena, però, su quei tornanti. Accenno uno sprint negli ultimi metri, ma ormai la figuraccia è fatta. 


Pessima prestazione. Ma chi se ne frega! Ho riassaporato il gusto delle giornate più belle. Un ritorno. Una ripresa. Una promessa.


sabato 25 aprile 2020

Bella ciao!

Da quanto tempo non parli di corsa? Silenzio confuso e imbarazzato. Scaramantico. Temi di riferirti a qualcosa che non ti riguarda più: evocare il passato ti deprime, auspicare al futuro ti incupisce. Fluttui in un limbo di paradossi e contraddizioni: tra la smania di ripartire e il terrore di muovere un passo; da un’esplosione di energia a una ricaduta nel dolore; tra i “vorrei e non vorrei” e i “dovrei ma se poi”. Difficile crederci, dopo che la chirurgia ha peggiorato anziché risolvere, dopo aver visto affondare tutti i tentativi, dopo aver perso anche il piacere di una semplice passeggiata. Fino a quando le risposte paiono finalmente trasmettere il sapore della concretezza. Non sai se la svolta sia generata dentro o fuori di te, e forse poco importa. Fatto sta che sul finire del 2019  hai azzardato alcuni passi di corsa – dopo tre mesi di stop totale, preceduti da tre anni tormentati. Un minuto alla volta, ed è già una grande impresa. Che ansia! Ritrovare un gesto perduto è oltremodo complicato, quello che dovrebbe essere naturale risulta goffo e scoordinato. Sei sicura di essere ancora in grado di correre? Ecco, questo è il tarlo. La paura di volare: il terrore di cadere che ti impedisce di goderti lo spettacolo. L’ansia di ripiombare nell’incubo. Perché il dolore è ancora lì che preme, dovrai rassegnarti a conviverci: dovrai essere tu a dominarlo. Non lasciare che condizioni i tuoi pensieri, che influisca sulle tue azioni, che smorzi la tua vitalità. Prenditi cura di te, coccolati e vivi. Belle lezioni. Più difficile metterle in pratica. Ma non c’è fretta. L’inverno e il freddo non giocano a tuo favore, ma hai imparato ad affrontare le avversità. Riesci ad apprezzare i minimi progressi e a reprimere i sintomi negativi. Frulli entusiasta tra palestra, piscina e corsa. Quasi come un’atleta vera. L’obiettivo punta avanti, verso l’estate e oltre. Ogni giorno un nuovo tassello, fino a completare il puzzle.
Succede poi che, all’affacciarsi della bella stagione, quando i sensi e le sensazioni sono effervescenti e il gusto ha sfacciatamente surclassato la fatica, si presenti un bislacco intruso. Misterioso e infimo. Bastardo. Sparge ovunque morte e angoscia, impossibile non sentirsi minacciati. Tu, poi, che appena senti parlare di una malattia ne avverti subito tutti i sintomi… Proprio quando stavi ricostruendo il tuo percorso con determinazione e continuità, ti trovi a dover fronteggiare nuove ansie. Proprio quando il dolore sembrava non ricordarsi tanto bene di te, ti costringono a fermarti. Perché questo virus, oltre i polmoni, infetta anche le menti. Un delirio collettivo, un diffondersi repentino di astio e prepotenza, una caccia irrazionale al colpevole, al trasgressore: al capro espiatorio. Le istituzioni spargono a oltranza ordinanze e decreti raffazzonati e ambigui, alimentando lo sbando totale dell’opinione pubblica. Correre diventa un atto criminale. Come se il tuo passo solitario e il tuo respiro, lontano da tutto e da tutti, potessero danneggiare chicchessia. Come se la tua passione, dettata da amore per il corpo, per la mente, per la salute, fosse un vizio oltraggioso e irresponsabile. Certo, molto meglio schiamazzare sui balconi, cucinare e ingozzarsi all’inverosimile, accalcarsi al supermercato. Molto meglio dar sfogo alla violenza repressa, vomitando sui social accuse e aggressioni - ma sempre con l’hashtag adeguato.
A te, che di social hai decisamente poco (per non dire nulla), questa quarantena disturba relativamente. Evitare l’ufficio, anzi, è un toccasana. Quanto a frequentazioni, incontri, aggregazioni: non partecipavi neppure prima. Ma rinunciare alla corsa sì, questo ti pesa. Non perché avessi chissà quali ambizioni, nemmeno perché stavi giusto cominciando ad ingranare. Semplicemente perché non ha alcun senso. Hai trascorso anni cercando di comprendere la ragione che ti impediva di risolvere il tuo problema, ora che hai trovato un bandolo non puoi tollerare limitazioni dettate da assurdità. Quindi, allacciati le scarpe e vai. Attorno a casa, d’accordo, nel raggio di quella ridicola prossimità che hanno imposto, avanti e indietro come una scheggia impazzita. Per non impazzire. Nell’attesa di una normalità che in fondo non è mai esistita. Del resto, al futuro incerto sei abituata.


domenica 13 ottobre 2019

01:59:40


Ho accolto la notizia con scetticismo, per non dire indifferenza. Un altro circo come quello allestito due anni fa a Monza, giusto per aumentare le vendite di quelle fantascientifiche scarpe – che fanno credere anche all’ultimo dei tapascioni di poter battere tutti i record. Poi comincio a dare un’occhiata a qualcuno dei video che promossi da Ineos. Un’operazione di marketing di tutto rispetto, al fine di rendere l’evento un’esperienza a cui è impossibile sottrarsi. Al centro di tutto c’è l’uomo, prima che il campione: più che i primati, le vittorie, le prestazioni straordinarie, ne viene mostrata l’umiltà, la dedizione, la vita spartana. Una rosa nel deserto. Concentrarsi su un obiettivo e vivere in funzione di esso, senza fronzoli e senza distrazioni, lavorando sulle proprie capacità e fondando su di esse una sicurezza inossidabile.

Sveglia alle 7.30, per essere in perfetto orario davanti alla TV. Non so cosa aspettarmi, non riesco a farmi un’idea circa il risultato, né so cosa mi soddisferebbe: un fallimento, per poter credere che il futuro sia ancora là da venire e tanta strada sia ancora da percorrere, o un successo, per dare una scossa all’intero panorama atletico e far sognare un po’ noi piccoli esseri. Di sicuro io, che sono nata nell’anno del primo uomo sulla Luna, ora sto per assistere a qualcosa di simile.

Le immagini che precedono la partenza assomigliano a quelle di qualsiasi grande maratona: un manipolo di africani che scalpitano sulla linea di partenza. Lo sparo apre le danze: con una coreografia perfetta prende forma lo schieramento che scorta il predestinato verso l’impresa. Sette uomini in posizioni strategiche scandiscono e riparano un ritmo che sfiora l’impossibile. Tutto all’interno di una corsia ben tracciata, seguendo un raggio verde proiettato dall’auto che determina l’andatura. Terminato un giro, con sapienti pennellate sfumano le prime lepri e si innesta il secondo gruppo: la stessa geometria, la medesima figura costruita ad arte. Sì, quello che stanno realizzando questi 41 uomini è un’opera d’arte. Qui non viene sublimata solo la prestanza fisica: quello che è stato pianificato in mesi di studio è un vero inno alla bellezza del gesto atletico. Sono incantata dalla perfezione con cui questi corpi si muovono: e non si tratta solo  della tensione dei muscoli o dell’equilibrio dell’incedere, elementi che si possono ammirare in qualsiasi manifestazione di alto livello. Ciò che rende unico questo spettacolo è la costruzione armonica dei gesti. In una sincronia impeccabile, persino le espressioni sembrano rivelare un ruolo ben preciso: più tesi i volti degli atleti in posizione laterale, più rilassato quello del capitano che precede Kipchoge. Lui, appunto, il fulcro di tutta l’operazione. Non lascia trasparire nulla. Cosa starà pensando? Che cosa passa nella testa di un uomo che sta correndo verso la storia? Impassibile, quasi  come non respirasse neppure. È umano costui? Poi lo vedi sbuffare e capisci che, forse, un po’ di fatica la stia provando. Però, nell’ultimo giro, quando ormai il miracolo ha preso forma, lo vedi attento alle inquadrature: si accorge di essere inquadrato e sorride. Dico: dopo quasi 40 chilometri ad un ritmo forsennato, quest’uomo riesce a sorridere! E il sorriso si allarga a mano a mano che si avvicina al traguardo. Una gioia serena, sicura, intensa. Di chi sa quanto vale e non ha bisogno di ostentarlo. Alza le braccia e si batte il petto verso la linea di un nuovo mondo. Il raggio verde si è spento già da un chilometro, gli angeli custodi sono arretrati: ormai non ha più bisogno di nulla, ormai ha tutto.

Tutto ciò che c’era di costruito, artificioso, commerciale dietro a questo evento, cade in secondo piano. Io ho visto solo uno spettacolo di ineguagliabile bellezza, il capolavoro di un uomo straordinario che ha saputo coinvolgere ed emozionare. Fino alle lacrime.

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