mercoledì 5 agosto 2020

Diecimiglia (anzi, tre) del Garda

Si può correre senza allenarsi? Ci si può allenare senza un obiettivo? La motivazione può essere alimentata semplicemente dalla sfida con se stessi? Tecnici ed esperti hanno materia su cui sbizzarrirsi, un dibattito aperto ad ogni sorta di interpretazione. Onestamente, non mi sono interrogata tanto sulla questione: anzi, non mi sono affatto posta il problema. Troppo concentrata sulla tenuta del mio fisico per potermi lamentare dell’assenza di gare. Anzi, a ben pensarci, lasciare lontani gli appuntamenti importanti può essermi di giovamento: più tempo per ritrovarmi, per ricostruire i gesti, per reimpostare gli schemi. Il grande evento è sfumato? Pazienza. Io continuo ad impegnarmi “come se”, seguendo le amate tabelle, annotandomi progressi e delusioni. In funzione della mia soddisfazione e, soprattutto, del mio equilibrio psicofisico – e scusate se è poco.

Capita poi, inaspettata, l’occasione di appuntarsi un pettorale. Così, all’improvviso, senza quasi avere il tempo per pensarci né, tanto meno, per programmarsi. Cinque chilometri scarsi, il breve ma intenso che non ho mai saputo gestire. Percorso sconosciuto, località sconosciuta, sconosciuti i partecipanti. Perfetto. Sono allenata? Abbastanza. In questi mesi mi sono impegnata, determinata e concentrata nonostante tutto: posso dire di non aver perso un colpo. Sono preparata? No. Nel senso che gareggiare non era affatto nei mei pensieri. Meglio così. Improvvisiamo e divertiamoci.

Già, divertiamoci. Cosa ci vuole? Basta alleggerire la testa, liberandola dai soliti, nefasti pensieri. Come si comporterà il piede? Sopporterò l’affanno? Saranno adatte le scarpe? E se sorgesse qualche nuovo acciacco? Notte tormentata, tra l’ansia per la sveglia in orario assurdo e il temporale che infierisce con sadica violenza. Il viaggio è lungo, iniziato con acqua a secchiate e proseguito attraverso squarci di sereno. Il lago, finalmente. Le emozioni si affastellano tra l’orizzonte e la memoria: quel capodanno romantico, un secolo fa; la gita di Pasqua, qualche mese più tardi, attrezzati per affrontare la ferrata dell’amicizia. Un’altra escursione all’Altissimo di Nago. Quindi le corse. Un’allegra competizione organizzata dalle radio italiane, a Riva del Garda. Poi, anni dopo, i campionati italiani di mezza maratona a Polpenazze dove, formichina tra i giganti, conquistai persino un premio di categoria. L’album dei ricordi è ancora aperto, tante devono essere le pagine da valorizzare e oggi aggiungeremo una nuova figurina.

La strada si inerpica, cambia il paesaggio e anche la temperatura: quasi uno shock termico, dopo i quaranta gradi sopportati fino a poche ore fa. Navazzo si presenta silenzioso e tranquillo, ancora addormentato. Una strada e, sul cucuzzolo, una chiesa. È lassù che si concentra tutta la vivacità del borgo: là pulsa il cuore della gara. Diversi operatori si occupano della consegna dei pettorali, così da non creare code né assembramenti. Ovviamente si accede con mascherina, previo controllo della temperatura. Ricevo la busta e il pacco gara (acqua, birra, brioche, borraccia e maglia tecnica). Ho tutto l’occorrente, non mi resta che correre. Sì, ma non con quella faccia! Va bene, si tratta sostanzialmente di un cross, ma ne hai fatti tanti e te li sei persino goduti. Avevi le chiodate? Dettagli. Qui il percorso è vario, bello mosso, diciamo allegro. Allegramente accedo allora all’area di riscaldamento (un piccolo campo da calcio), dopo l’appello dell’organizzazione e un ulteriore controllo della temperatura. Partenze individuali, a chiamata, con venti secondi di distacco tra un atleta e l’altro. Iniziano subito le difficoltà: discesa a tornanti, condita con tappeto di foglie bagnate. Mi sento subito ridicola. E il bello deve ancora venire. Subito dietro l’angolo, al termine della rampa, curva secca a destra e via sul prato. Morbido, un bel manto erboso, tutto sommato abbastanza compatto. Ma è pur sempre campagna. Ed è tutto un su e giù. Scendi di là, risali da quella parte, poi di nuovo indietro, zigzag qua e là, per poi arrampicarsi alla riconquista dell’asfalto. Nemmeno il tempo per riassestarmi, che mi ritrovo di nuovo coi piedi sull’erba. Sono piantata. Sarà normale tutta questa fatica? Riuscirò ad arrivare viva? Ho già subìto due sorpassi, mi sento un’ameba. Quelle che ho superato io non fanno testo – tranne una, che ha cercato di tagliarmi la strada per non farmi passare: vederla schiattare è una goduria. Quando finalmente si abbandona il campo, resta circa un chilometro di sofferenza. Ancora qualche gimcana, poi l’attacco alla rupe. La salita mi sfianca, come non ne avessi mai affrontate in vita mia. C’è gente che incita, dai che è finita! Uno scatto di orgoglio, per racimolare le ultime energie sopravvissute. Che pena, però, su quei tornanti. Accenno uno sprint negli ultimi metri, ma ormai la figuraccia è fatta. 


Pessima prestazione. Ma chi se ne frega! Ho riassaporato il gusto delle giornate più belle. Un ritorno. Una ripresa. Una promessa.


2 commenti:

nino ha detto...

Bello riprendere. Chissà quando potrò farlo anche io

Valentina ha detto...

Cosa te lo impedisce?

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