Nel certificare
che il motore potrà sopportare un altro anno di attività agonistica,
il medico sportivo mi chiede quale sarà la mia prossima gara. Saperlo! Tasta il
mio tendine acciaccato, legge l’esito dell’ecografia e sentenzia: almeno un anno
senza correre. Ottimo. Proprio quello che avrei voluto sentirmi dire, a due
settimane dalla partenza del giro a tappe delle Eolie. Non che pensassi di
poter gareggiare, ma da lì a vedermi ferma per “almeno” un altro anno…
Mi ero
iscritta con le migliori intenzioni, seppure già infortunata. Uscita malconcia
dalla mezza maratona di Bibione (7 maggio), confidavo che oltre un mese di stop
mi avrebbe consentito di ripartire adeguatamente. Invece, nessuna luce all'orizzonte.
E a forza di dire che c’è ancora tempo, il tempo passa e io resto ferma ai box.
Comincia a prospettarsi una settimana di solo mare: un sogno per tanti, un
incubo per noi. Urge una strategia di avvicinamento acutamente persuasiva: fino
all'ultimo istante, vietato accennare al piano B (ovvero l’ultima spiaggia, nel senso
letterale della definizione).
Metà agosto,
è ora di sondare il terreno. Mi butto nella mischia (si fa per dire) della
camminata al Parco Cavaioni. Solo l’idea di accennare un passo di corsa mi
terrorizza, vorrei riuscire a non aver il pensiero fisso su quel tallone, ma è
impossibile. Mi incammino, in coda a tutti, quasi fossi ad una scampagnata,
quasi non ricordassi come si fa a correre: perché di fatto è così. Alle prime
falcate mi sembra di volare, un’euforia che mi stordisce, ma basta poco per
sentirsi piombare addosso tutta la pesantezza di tre mesi abbondanti di
inattività: goffa, scoordinata, tutta storta. Una fantoccio mosso da un
marionettista ubriaco. Manca il fiato, mancano i muscoli, manca il ritmo. Non
manca invece il dolore. Sopportabile, sì, ma sempre lì, a ricordarmi che nulla
è risolto. Però, seppure con diversi tratti di passo, riesco ad arrivare alla
fine con un bel sorriso. Quasi quasi ci credo! Tanto da prendere la folle
decisione di attaccarmi un pettorale di lì a due giorni: così, giusto per
vedere l’effetto che fa. Pazienza se camminerò pressoché tutta la salita – e buona
parte della discesa sterrata: è ciò che ho sempre fatto su quel percorso, dove
riesco a dare il peggio di me. Disattivata
la modalità agonistica, fregandomene altamente sia del crono che della
posizione, sono persino capace di divertirmi. Ho sofferto? Un po’, comunque meno di
quanto temessi. Che da qui si possa ripartire? L’entusiasmo gioca brutti
scherzi, conduce sottilmente all'illusione. Illusione di breve respiro: il
giorno seguente zoppico, e sul mio tallone sembra essere cresciuta una pallina
da tennis. Reset. Una settimana senza muovere un passo. Mi tuffo in piscina
rischiando l’ipotermia, macino chilometri sulla mia mountain bike da strapazzo,
mi sfianco di esercizi per potenziare muscoli invisibili. Tutto per giungere ad
una sola conclusione: se non sono fatta per correre, lo sono ancora meno per
qualsiasi sport alternativo. Ergo: o mi rimetto in sesto, oppure mi dovrò
dedicare all'uncinetto.
La camminata
paesana del venerdì sera cade a fagiolo. La valigia è ormai pronta, mancano
solo le scarpe tecniche. Corro qualche centinaio di metri, mi fermo e penso che
dovrò disfare tutto: rimettere nel cassetto short, top, calzini che non
potranno servirmi. Poi all'improvviso avverto come una zaffata di zolfo…
Riparto, e non mi fermo più. Infischiandomene dell’erba alta, della terra
sconnessa, del vento contrario: infischiandomene dei dolori. Ce la posso fare. Ce
la farò.
Lo zolfo ora
è qui: lo vedo, lo sento, lo amo. Mai come questa volta la vacanza si prospetta
incerta, mai come questa volta i dubbi sono superiori alle certezze. La mia
costante insicurezza è ora prevaricata dalla triste realtà: le possibilità sono
ridotte al lumicino. E non mi riferisco al mio piazzamento, bensì alla mia
partecipazione: sarò al via, chissà se sarò al traguardo. La posta in gioco è
altissima, e va ben oltre il semplice esito di una gara. Siamo qui a dispetto
di ogni logica, contro ogni ragionevolezza: siamo qui da folli, da sognatori. Ed
è così che mi presento alla partenza. Senza condizione, senza allenamento,
senza prospettive. Andate pure, scatenatevi. Io procedo cauta, con calma,
assaporando passo dopo passo il miracolo di esserci. Inizia la salita e il
tendine urla. Ho paura: paura che ceda il fisico, paura che ceda la
determinazione. Un attimo di tentennamento, giusto il tempo di aggiustare il
respiro e rimettersi in carreggiata. Ed ecco la discesa. Solo altri due giri,
che sarà mai? Ho già realizzato più di quanto sia riuscita a compiere negli
ultimi quattro mesi, e non intendo demordere. Procedo col mio passo: lento, tutt'altro che competitivo, ma incessante. Per non dire instancabile. Al secondo
giro comincio a raccogliere cadaveri – io, che sono un rottame. Non avrei
scommesso un centesimo su di me, avrei giurato che quella rampa mi avrebbe
costretta quantomeno a camminare, invece non mi fermo un attimo. Non sono in
trance agonistica, tutt'altro. Nessuno sforzo, nessuna tensione, nessun
accanimento: solo la gioia di riuscire a correre, alla faccia degli infortuni, degli
allenamenti mancati e delle prognosi catastrofiche. E supero anche una delle
favorite. Ormai è fatta. Manca il rettilineo finale, che ovviamente sembra
interminabile. Jader, per quanto incredulo, prova a spronarmi: Dai, che ti sta prendendo! Faccio
spallucce, in fondo che importa? Beh, dai, un pochino importa. In una frazione
di secondo mi ritrovo agonista. Non ho mai avuto il finale, nemmeno al top
della condizione. Cosa potrà mai spingere chi non ricorda neppure cosa sia un
allungo o uno sprint? Eppure… Eppure ho
gestito la tappa in modo superlativo. Me lo dico da sola, ebbene sì. L’anno
scorso la vinsi, oggi ho vinto su me stessa. Non so cosa succederà domani. Senza
dubbio, tra qualche ora il tallone griderà vendetta: vedremo chi saprà gridare
più forte.
1 commento:
Brava. E incosciente. (Da che pulpito)
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