Come la semente anche la mia anima ha bisogno del dissodamento nascosto di questa stagione (Ungaretti)
Sala
operatoria, gesso, tutore… Sembra sia successo un secolo fa, sono invece
trascorsi appena tre mesi da quando il primario mi mostrò le immagini del
bisturi che fendeva la mia pelle per aprire il passaggio a quel tendine da
ripulire. Otto settimane di (in)sofferenza: il piede, avvolto nella sua
corazza, sta zitto e buono. È tutto il resto che scalpita, l’animale in gabbia
che non trova pace. E che non sa quale sapore avrà quella libertà tanto
sospirata. Perché non è mica vero che, una volta dismesse le armature,
risplenderà l’arcobaleno. Al contrario: è proprio adesso che iniziano i dolori:
quelli che non si sono mai manifestati nei mesi precedenti, e che invece ora
presentano il conto. Sembrava troppo bello. Davvero credevi di uscirne indenne,
di poter riprendere a camminare come nulla fosse successo? No, certo, ma
nemmeno che facesse tanto male. Ti hanno maciullato un tallone e immobilizzato
la gamba per sessanta giorni, è normale che la ripresa del movimento sia
traumatica. Normale. Ma per quanto tempo lo sarà? Perché passano i giorni, e
non noto miglioramenti. E ciò che più angoscia è che il dolore sia esattamente
quello che mi aveva tormentato talmente tanto da convincermi a darci un taglio.
L’incubo che non dà tregua: il terrore che anche stavolta tutto sia stato
inutile, tutto ‘sto travaglio per tornare la vecchietta zoppa che ero prima. Il
chirurgo dice che è la prassi, il fisioterapista - nonché allenatore e vero
amico – mi sprona ad insistere: bisogna varcare la soglia, riacquistare la
padronanza del gesto, convincere ossa, muscoli e articolazioni che la vita è
movimento. Insomma: devi camminare! Va bene, cammino. Effettivamente,
aumentando poco poco ogni volta, le sensazioni si fanno più gradevoli – o meno
sgradevoli, dipende dall’umore. E pedala, e solleva pesi… Insomma, cerca di
rimetterti in careggiata e riconquistare quel magnifico piacere della fatica. È
la tua testa che te lo chiede: la mente che domanda e il fisico che risponde.
Sentirti bene nel tuo involucro, almeno questo: tu che non ti senti a tuo agio
in nessun luogo, appagati almeno del tuo corpo.
Appagamento, appunto. Difficile ottenerlo da una semplice passeggiata. Puoi allungare le distanze, rallegrare il ritmo, ma manca sempre qualcosa. Ti manca l’entusiasmo di mollare i freni e provare a raggiungere quella sagoma che procede davanti a te. Ti mancano i minuti da abbattere, il chilometro che non finisce mai, la sensazione di scoppiare. C’è chi ti dice che presto ritroverai tutto ciò, che occorre solo un po’ di pazienza, ancora un po’. Vorresti crederci, e qualche volta riesci davvero ad illuderti. Ma è sempre più difficile. Un momento sogni il giorno in cui proverai a spiccare il volo, il momento dopo affermi che rassegnarsi è l’unica soluzione. Brutta bestia, l’irrequietudine. Ma forse è proprio questo fermento a tenerti a galla, a non permetterti di raggomitolarti su te stessa. Nel freddo e nel buio che incombono, è più che mai necessario reagire.
Quattro mesi
dall’intervento, questa è stata la magica indicazione del chirurgo. Temo sia
una visione oltremodo ottimistica. Sarà comunque una data speciale, che, in
qualche modo andrà onorata.