martedì 21 dicembre 2021

Winter tales (Day 90)

 

Come la semente anche la mia anima ha bisogno del dissodamento nascosto di questa stagione (Ungaretti) 

Sala operatoria, gesso, tutore… Sembra sia successo un secolo fa, sono invece trascorsi appena tre mesi da quando il primario mi mostrò le immagini del bisturi che fendeva la mia pelle per aprire il passaggio a quel tendine da ripulire. Otto settimane di (in)sofferenza: il piede, avvolto nella sua corazza, sta zitto e buono. È tutto il resto che scalpita, l’animale in gabbia che non trova pace. E che non sa quale sapore avrà quella libertà tanto sospirata. Perché non è mica vero che, una volta dismesse le armature, risplenderà l’arcobaleno. Al contrario: è proprio adesso che iniziano i dolori: quelli che non si sono mai manifestati nei mesi precedenti, e che invece ora presentano il conto. Sembrava troppo bello. Davvero credevi di uscirne indenne, di poter riprendere a camminare come nulla fosse successo? No, certo, ma nemmeno che facesse tanto male. Ti hanno maciullato un tallone e immobilizzato la gamba per sessanta giorni, è normale che la ripresa del movimento sia traumatica. Normale. Ma per quanto tempo lo sarà? Perché passano i giorni, e non noto miglioramenti. E ciò che più angoscia è che il dolore sia esattamente quello che mi aveva tormentato talmente tanto da convincermi a darci un taglio. L’incubo che non dà tregua: il terrore che anche stavolta tutto sia stato inutile, tutto ‘sto travaglio per tornare la vecchietta zoppa che ero prima. Il chirurgo dice che è la prassi, il fisioterapista - nonché allenatore e vero amico – mi sprona ad insistere: bisogna varcare la soglia, riacquistare la padronanza del gesto, convincere ossa, muscoli e articolazioni che la vita è movimento. Insomma: devi camminare! Va bene, cammino. Effettivamente, aumentando poco poco ogni volta, le sensazioni si fanno più gradevoli – o meno sgradevoli, dipende dall’umore. E pedala, e solleva pesi… Insomma, cerca di rimetterti in careggiata e riconquistare quel magnifico piacere della fatica. È la tua testa che te lo chiede: la mente che domanda e il fisico che risponde. Sentirti bene nel tuo involucro, almeno questo: tu che non ti senti a tuo agio in nessun luogo, appagati almeno del tuo corpo.

Appagamento, appunto. Difficile ottenerlo da una semplice passeggiata. Puoi allungare le distanze, rallegrare il ritmo, ma manca sempre qualcosa. Ti manca l’entusiasmo di mollare i freni e provare a raggiungere quella sagoma che procede davanti a te. Ti mancano i minuti da abbattere, il chilometro che non finisce mai, la sensazione di scoppiare. C’è chi ti dice che presto ritroverai tutto ciò, che occorre solo un po’ di pazienza, ancora un po’. Vorresti crederci, e qualche volta riesci davvero ad illuderti. Ma è sempre più difficile. Un momento sogni il giorno in cui proverai a spiccare il volo, il momento dopo affermi che rassegnarsi è l’unica soluzione. Brutta bestia, l’irrequietudine. Ma forse è proprio questo fermento a tenerti a galla, a non permetterti di raggomitolarti su te stessa. Nel freddo e nel buio che incombono, è più che mai necessario reagire. 


Quattro mesi dall’intervento, questa è stata la magica indicazione del chirurgo. Temo sia una visione oltremodo ottimistica. Sarà comunque una data speciale, che, in qualche modo andrà onorata.

 

giovedì 21 ottobre 2021

I hate fall (Day 34)

 

«Conto a estati, non a anni, il tempo»

 




Siamo sinceri: il tutore è più ingombrante del gesso. Sarà pure la sofferenza di una settimana, durante la quale dovrò indossarlo ininterrottamente, ma questo enorme macigno è una vera tortura. Superati i sette giorni, mi sento come quando, al termine di un’escursione in montagna, si tolgono finalmente gli scarponi: una goduria che non ha eguali. Il piede può finalmente respirare. Lo muovo con cautela, senza esagerare, con molta attenzione e tanta (troppa) paura. Decido che è giunta l’ora di mettere in moto ciò che può essere attivato: giù a terra e via di addominali. Sempre con la “palla” al piede, che complica qualsiasi esercizio. Ma è bene iniziare. Ed è bene anche rivolgersi anche ad un professionista per capire come sia meglio procedere nella riabilitazione. Dapprima, un lungo massaggio alla cicatrice per scongiurare possibili aderenze. Sensazioni piacevoli. Pizzica un po’, ma è quella specie di fastidio che dona tanto benessere, una sorta di risveglio dei sensi dopo un prolungato torpore. Si passa poi ad una serie di mobilizzazioni attive: devo usare la forza, che ovviamente scarseggia, ma spingo meno di quanto potrei, sempre per eccesso di timore. Va bene così, il tallone e vivo e vegeto, non mostra particolari segni di sofferenza – per quanto, ai miei occhi, la ferita appaia orripilante. D’ora in poi dovrò sbrigarmela da sola. Comincio così a dedicare una o due ore di ogni giornata all’esercizio fisico, con l’attrezzatura di cui dispongo: panca, pesi, elastici. Cercando di stimolare il maggior numero possibile di gruppi muscolari, sognando il momento in cui potrò almeno pedalare. Nostalgia della bici, chi l’avrebbe detto? È che non oso ambire ad altro.  Se è vero che conto i giorni che mancano al prossimo controllo, è altrettanto vero che tremo al pensiero di ciò che mi sarà prescritto. Presumibilmente, sarò dispensata dal tutore, ma quali attività potrò svolgere? Riuscirò ad indossare un paio di scarpe, sarò in grado di reggermi sul piede operato: quando avrò la facoltà di camminare? E tra quanti mesi si potrà pensare di azzardare qualche passo di corsa? Ne avrò mai il coraggio, con i fantasmi di tutto il pregresso? Mi sto già martoriando con queste paturnie, che senso ha? La ripresa, adesso, è pura fantascienza. Dovrei stare concentrata sul quotidiano e accontentarmi dei segnali positivi riscontrati fino ad oggi: è così che agirebbe una mente sana ed equilibrata. Ma un soggetto ipocondriaco e maniaco-depressivo scalpita e ulula, scorgendo un baratro dietro ad ogni curva. Eccomi dunque sempre qui a fremere, alternando momenti di iper-attività ad altri di profonda inerzia. Umore perfettamente sintonizzato con la stagione: e siamo solo all’inizio. Vorrei buttare nel fuoco stampelle e tutore: riappropriarmi del mio corpo e delle sue minime abilità. Vorrei riuscire a sperare.

venerdì 8 ottobre 2021

Navigare a vista (Day 21)

Uno potrebbe vivere nel suo buco solo tutta la vita. Sì, certo. Ma avrebbe sempre bisogno di qualcuno per calarlo nella fossa anche se se la fosse scavata con le sue mani. Tutti lo facciamo. Solo l'uomo seppellisce i morti. Quel che colpisce subito. Seppellire i morti. Dicono che Robinson Crusoe è realistico. Bene allora lo seppellì Venerdì. Ogni Venerdì seppellisce un Giovedì a pensarci bene. 
(Joyce)

Giornate che scorrono tutte uguali, ma con sempre maggiore stanchezza. Stanca di far niente, di stare scomoda in qualsiasi posizione, di incontrare difficoltà ad ogni movimento. Sempre con la paura di farmi male, ché è un attimo perdere l’equilibrio e moltiplicare i danni. Ormai ho maturato la convinzione che certe imprese deve affrontarle chi possiede i mezzi appropriati – fisici e mentali: chi può farsi beatamente assistere, chi può organizzare opportunamente gli spazi, chi ha fiducia in se stesso e nel mondo.

Vado a ripetere le analisi del sangue, ricevendo conferma della meschinità del genere umano. Che si palesa con qualcosa che va oltre l’indifferenza: una persona in bilico sulle stampelle viene semplicemente ignorata solo perché non può essere subitamente abbattuta. Manca poco che mi calpestassero, per passarmi davanti. E non va tanto meglio nemmeno là dove gli “invalidi” sono il pane quotidiano: al Rizzoli ho dovuto zampettare lungo un infinito corridoio per raggiungere l’ascensore che conduceva agli ambulatori. Fossi stramazzata al suolo, non se ne sarebbe accorto nessuno. Dopo una lunga attesa, eccomi finalmente al cospetto del mio dottore. Come va? Che dire? Non ne posso più. Già, dovevo saperlo, devo avere pazienza… No, questo non lo dice, me lo dico tra me e me, da momento che dovrei avere ben memorizzato la tiritera. La rimozione dei punti è meno dolorosa di quanto mi aspettassi, e ora pare che non ci sarà bisogno di ulteriori medicazioni. Nessun fastidio nemmeno premendo sulla zona martoriata. Il gesso può dunque essere sostituito dal tutore (nuovo di zecca): da indossare permanentemente per una settimana, sempre osservando le precauzioni adottate sinora, per poi cominciare ad appoggiare e a concedere al piede un po’ di movimento. E qui verrà il bello: stando al referto, potrò iniziare anche idrokinesiterapia e fisioterapia per rinforzo muscolare e esercizi per il ROM. A parte il fatto che non so proprio di cosa si stia parlando, mi chiedo dove andare a sbattere. In acqua, rabbrividisco solo al pensiero, e direi di scartare a priori quest’opzione. Potessi nuotare, farei forse uno sforzo, ma poiché ciò non rientra nella profilassi, opto per l’esclusione di tutte le attività al bagnato. E la fisioterapia? Chi la paga? Se almeno sapessi quali accidenti siano gli esercizi per il ROM, potrei pensare di svolgerli autonomamente. Certo, proverò a documentarmi sul web. Resta in fatto che continuo a navigare a vista – e all’orizzonte non vedo nulla di piacevole. Intanto, ho ancora una settimana di immobilità, durante la quale riflettere e rimuginare (tanto per cambiare). 


Questa condizione, se non altro, favorisce la lettura: ho piacevolmente riesumato tomi che avevo abbandonato anni fa. Letture straordinarie, che evidentemente avevo approcciato con spirito inadeguato. Ora, non so quale genere possa accarezzare il mio stato d’animo, di certo il tempo a disposizione gioca a favore di libri impegnativi. Ho deciso quindi di esagerare: ci riprovo con Joyce, per la terza volta. Duecento pagine sono già andate, ormai non mi fermo più: consapevole che per buona parte vagherò nella nebbia, sono convinta che ne valga la pena.

mercoledì 29 settembre 2021

Voci e nebbie (Day 14)

 

…ti rendi nemmeno conto che sei diventato triste. Non hai più voglia di fare granché, ecco tutto. A forza di fare economie su tutto, per tutto, tutte le voglie ti son passate. (Céline)

 


Mi soffermo di tanto in tanto a gettare lo sguardo là fuori: è un po’ come respirare profondamente, far sì che la bellezza investa i miei sensi e calmi il mio spirito. E cercare di convincermi che ne sia valsa la pena, che gli aspetti positivi superino i fastidi che fatico a tollerare. Possibile che si costruiscano case con muri di cartone? Davvero c’è chi non si cura di vivere con i vicini in casa propria? Respira profondamente, fattene una ragione, continua a sognare. Anche se, così facendo, permarrai in uno stato di sospensione. Che è poi quello in cui ti trovi da sempre: da sempre in attesa di tempi migliori, alla ricerca di un equilibrio che nemmeno tu sai se possa esistere. Quel senso di inadeguatezza che ha caratterizzato tutte le fasi della tua vita, sin dall’infanzia. Quella bambina dalla salute cagionevole, sempre dentro e fuori dagli ospedali, forse non è mai diventata adulta. Di certo non ha mai trovato una sua dimensione. Basterebbe volersi un po’ più bene, per affrontare di petto le difficoltà. Invece continuo a mortificarmi e a rendermi insopportabile.

Sono trascorse due settimane. Siamo a buon punto? Non ne ho idea. Non ho ancora capito quali saranno gli sviluppi. Martedì prossimo mi toglieranno i punti, e poi? Le informazioni, al momento della dimissione dall’ospedale, sono state piuttosto vaghe: e continuano ad esserlo. Il primario aveva parlato di un periodo in cui dovrò indossare un tutore, di esercizi che dovrò svolgere: mi auguro sarà illustrato tutto al prossimo appuntamento, perché questa incertezza mi sta logorando. Ho i nervi a fior di pelle, me ne rendo conto, e inquino chi mi deve sopportare. Sta andando tutto bene, perché ti preoccupi? Hai ragione, se solo riuscissi ad ascoltarti, ad ascoltare le voci che contano. Sono poche, è vero. Ne mancano diverse, ma altre si sono fatte sentire, più inaspettate: belle sorprese che diradano la nebbia.

domenica 26 settembre 2021

Distanze (Day 9)

 

L’aria è frizzante, di prima mattina. Mi copro però più del necessario: non ho ancora preso confidenza con le nuove temperature, né con la reazione del mio corpo all’anomala deambulazione. Infatti, mi è sufficiente percorrere il breve tragitto tra l’uscio e il sentiero di accesso per sentirmi oltremodo accaldata. Un’altra delle tante complicazioni di questa vita da inferma.

Non sono ancora le otto quando entro in pronto soccorso, e non so bene come muovermi. Contatto così il dottore e in men che non si dica mi trovo su una sedia a rotelle, assistita da un robusto infermiere che mi scorta fino all’ambulatorio. Finalmente viene liberato il mio piedone. Dice che la ferita è bellissima (ovviamente, tutto è relativo), che potrebbero essere necessarie meno delle quattro settimane preventivate, e che tra una decina di giorni mi toglierà i punti. Giungono quindi tre sorridenti assistenti per inscatolare nuovamente piede e gamba con una fasciatura veramente elegante.

Dovrei essere tranquilla, ora. Ma le lunghe ore tra queste mura, che non riesco ancora a sentire mie, e le difficoltà nello svolgere qualsiasi piccolo gesto quotidiano non fanno che alimentare il misero stato d’animo. Fortunatamente, uno spicchio di sole illumina il mio grigiore: la visita di un’amica, l’unica che abbia trovato il tempo e la voglia di interessarsi a me – sia in questa, che nelle precedenti simili vicissitudini. Ed io, che continuo a sentirmi irrimediabilmente orso, mi chiedo se la mia riconoscenza riesca ad esprimersi adeguatamente. Forse sì, o forse semplicemente sono io che insisto a martellarmi con infinite paranoie, quando sarebbe molto più salutare affrontare la vita e il mondo con un pizzico di leggerezza. Meglio buttarsi sotto la doccia e lasciare che i pensieri scivolino sotto il getto dell’acqua.

È domenica. Anche oggi Jader è uscito presto, mentre io decido di indugiare ancora a letto. Se non altro, riesco a dormire più del solito. Ho calcolato che tra il momento in cui mi alzo e quello in cui raggiungo il piano di sotto, con un minimo passaggio in bagno, trascorre circa mezz’ora. Cerco quindi di allestire qualcosa che assomigli a una colazione, nonostante la fatica di preparare anche solo una bevanda calda faccia venire meno anche l’appetito – scarso in condizioni normali, figurarsi adesso. Che cosa bisognerebbe mangiare quando ci si trova in uno stato di semi immobilità, con ossa e tendini mortificati e gestualità del tutto alterata? Vorrei tanto saperlo: conoscere cosa potrebbe giovarmi e cosa invece sarebbe meglio evitare. Ho provato a documentarmi, ma è sempre complicato destreggiarsi tra il proliferare d’informazioni, spesso contrastanti. L’esperta alla quale ho chiesto aiuto si è guardata bene dal rispondermi (avrei preferito un semplice e diretto “non ho tempo”), così mi sforzo di buttare giù qualcosa, spinta essenzialmente dalla consapevolezza che, nonostante l’inattività, nutrirsi resta una necessità fondamentale.


Il clima, oggi, è la perfetta espressione del mio umore. O forse è il mio umore che risente della pessima stagione. Non trovo pace, qualsiasi posizione risulta scomoda, gambe e schiena gridano vendetta: ho bisogno di muovermi! Quando potrò riprendere anche solo a svolgere qualche esercizio che non coinvolga la gamba? Volevo chiederlo ieri, al dottore, ma mi è passato di mente. Dovrò ricordarlo al prossimo appuntamento. E starmene zitta e buona fino allora. Devi crederci, mi dice un amico. Ogni tanto me lo ripeto, così come stamattina, guardando sul web la maratona di Berlino, mi sono ripromessa che tornerò a correre quella distanza. Radichiamo l’idea, chissà che non generi i suoi frutti.

 

 

 

 

sabato 25 settembre 2021

"Il mio equilibrio nasce dall'instabilità" (Day 8)

 

Impulsi, slanci, amori, intensità, svagatezza appassionata fanno d’un uomo un malato. Quanto tempo potrò sopportare queste percosse interiori? La parete frontale di questo corpo s’abbandonerà. La mia vita intera che batte contro i propri limiti, e l’impeto di desideri inibiti che ritorna in forma di veleno lancinante. Male, male, male… Frenetico, caratteristico, estatico amore che si trasforma in male. (Saul Bellow)

Quando dicevo che i libri ci chiamano e ci rispondono: come non ritrovarsi in questa irrequietudine? Potrei tappezzare le pareti con le migliori pillole di saggezza, ma a nulla servirà indossare occhiali rosa se l’ottimismo vive altrove. È per questo che continuo a pensare che sarebbe stato meglio lasciare le cose come stavano: per affrontare simili situazioni occorre animo sereno, oltre a fiducia incondizionata – fiducia negli altri ma, soprattutto, in se stessi. Caratteristiche che, si sa, non mi appartengono. E se è vero che la testa condiziona ciò che accade nel fisico, la vedo davvero grigia.


Un’altra giornata in solitudine, che decido di prendere di petto sin dall’inizio: mi butto subito sotto la doccia. Ormai ci ho preso la mano, mi gestisco con discreta disinvoltura. Sono sempre in apprensione, invece, nell’affrontare le scale, con le stampelle da spostare e gli appoggi che non mi sembrano mai sufficientemente sicuri. Quanto manca alla liberazione dal gesso? Meglio non pensarci, non siamo neppure a metà. Divano, sedia; sedia, divano. La crio-magnetoterapia scandisce le ore, mentre tv, libri e internet creano l’atmosfera. Atmosfera oggi movimentata dal campanello, che suona più di due volte. Ho così modo di appurare quanto sia necessario risolvere al più presto almeno un paio dei difetti di questa abitazione: il cancello che non si chiude e il citofono che funziona solo verso l’esterno. So che oggi dovrebbero consegnarmi due pacchi, ma chi mi assicura che quello che suona sia il corriere? Fortunatamente dalla finestra vedo chi si approssima alla porta, resta comunque una situazione anomala. Presumo che il primo fattorino abbia lasciato il cancello aperto, visto che il secondo entra senza nemmeno lasciarmi il tempo di rispondere. Dopo qualche ora, ancora uno squillo. Non aspetto più nessuno, chi potrà essere? Guardo fuori e vedo il padrone di casa che vaga in giardino. Arzillo vecchietto, peccato sia già annebbiato dalla demenza senile. Vuole a tutti i costi appiopparmi una busta che si è ritrovato in buchetta: peccato che non riporti né i nostri nomi, né il nostro indirizzo. Come fargli capire che non posso impossessarmene, e tantomeno sono in grado di andarmene in giro a cercare il corretto destinatario? A forza di insistere, riesco a liberarmene. Ma che fatica. Perché deve essere tutto così opprimente? Perché vorrei scappare lontano ogni volta che sento i rumori dei vicini, oggi particolarmente insopportabili? La salvezza è sull’isola: dovrà venire quel giorno.

giovedì 23 settembre 2021

Big foot - Day 6


Insomma, cosa si fumano alla RAI? Quale mente perversa ha considerato di mandare in onda contemporaneamente il primo episodio della nuova serie di Coliandro e Pretty Woman? Non si può costringere l’utente medio ad una scelta così sofferta: quel film non si può perdere, nemmeno alla milionesima visione. E ogni volta si piange, non si scappa. D’accordo, ho scelto l’ispettore per pure questioni affettive (che poi, se proprio vogliamo dirla tutta, visto uno visti tutti), ma il finale su Rai1 l’ho acchiappato, giusto in tempo per “voglio la favola”: e giù lacrime. 


Una settimana fa mi trovavo in una stanza d’ospedale, attaccata ad una flebo che instillava nella mia vena dosi massicce di antidolorifici. Efficaci, senza dubbio. Fortunatamente, finora non sono più stati necessari. Qualche fitta, un leggero fastidio: pressoché nulla che non avvertissi anche prima dell’intervento. Solo stasera ho cominciato a percepire una strana sensazione di pizzicore, una sorta di sfrigolio nella zona operata. Non vedo l’ora di scoprire cosa stia succedendo lì, sotto a quell’ingessatura che mi sembra già da sistemare – per non dire eliminare. Questione di percezioni. Ciò che a me sembra enorme, e simbolo di indubbia sofferenza, ad altri appare quasi inesistente. L’ho notato stamattina, davanti all’ingresso del punto prelievi di Bentivoglio. Porte ancora chiuse, col guardiano a controllare: ci si potrebbe aspettare che una persona in equilibrio su una gamba e due stampelle fosse invitata ad accomodarsi all’interno, in attesa dell’arrivo del personale sanitario. Col cavolo! Chissà perché mi aspetto ancora qualcosa dalla gente, non ho ancora imparato nulla. Ho dovuto invece mettermi in coda prima per la misurazione della temperatura, poi allo sportello di accettazione, appoggiandomi maldestramente a qualsiasi muro o sedia fossero a portata di mano. Solo l’infermiera che mi ha tolto il sangue si è impegnata a mettermi a mio agio: uno su mille…

Le temperature si sono notevolmente abbassate, troppo per i miei gusti. Noto però che anche la mia sensibilità al caldo e al freddo è variata: spostarmi con quegli attrezzi infernali deve comportare un discreto dispendio energetico, considerato come mi accaloro, specie quando zompo al piano di sopra. Sul divano, invece, in maniche corte e piedi nudi non si può più stare. E sulle gambe? Con cotanto zampone non riesco ad infilarmi quasi nulla, se non un pigiama che però vorrei indossare solo a letto. Certo, ci sono problemi più gravi, ma anche a questa quisquilia dovrò trovare una soluzione. Intanto mi godo Saul Bellow. Avevo preso in mano questo romanzo nel 2010, abbandonandolo dopo poche pagine. Evidentemente, allora lo trovai ostico, chissà perché. È sempre una questione di percezioni: forse non siamo noi a scegliere i libri, ma sono essi a scegliere noi. Oggi Herzog aveva bisogno di me – o io di lui. Lettura straordinaria, stavolta mi ci tuffo e mi ci perdo. Un toccasana. 


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