L’equilibrio è un’arte. E io, naturalmente, non sono
un’artista. Ho giocato d’abilità per mesi: con cocciutaggine, determinazione e
speranza. Agendo sulla fiducia – e sull’esasperazione. Ma destreggiarsi su un
filo significa esporsi all’imprevedibilità degli elementi: destabilizzarsi è
questione di un attimo. Il freddo, il buio, la nebbia. Gli imprevisti, le
sgradevoli sorprese, gli acciacchi di stagione. Tante, troppe condizioni
sfavorevoli: la caduta è inevitabile. Sbam! A terra. Ovviamente succede quando
stai marciando a testa bassa, spinta dalle migliori intenzioni. Il primo stop
lo decreta la bronchite: tosse lacerante, antibiotici a dosi massicce,
impensabile muovere un passo. Una settimana scivola via così. Quando ti decidi
a rimettere fuori il naso, tocca subire le grida acute provenienti dal
calcagno. Ma come? L’avevi tenuto a riposo per diversi giorni, dovrebbe essersi
tranquillizzato almeno un po’… Macché, più incazzato che mai. Stringi i denti e
porti a termine l’allenamento. Così pure il giorno successivo, completando con
entusiasmo un’interessante seduta di sprint in salita e sul piano (adoro questa
fatica). Peccato che il resto della giornata lo trascorri zoppicando, e quando in
seguito riprovi ad accennare un movimento di corsa incedi come un burattino
impazzito e una fitta alla schiena quasi ti abbatte al suolo. Torni a casa
mestamente, cercando di controllare le scosse inquietanti che si irradiano dal
gluteo. Non riuscire a correre è drammatico, ma non poter camminare è oltremodo
tragico. Affidiamoci al riposo e a mani sapienti, magari si è trattato solo di
un colpo di vecchiaia. Così domenica mattina, sotto la pioggia, mi schiero
sulla linea di partenza della 5 Fossi. Gara per me nuova, su una distanza che
non affronto da chissà quanto e che non ho idea di come affrontare. Parto come
una forsennata, per non dare tempo alle mie articolazioni di avvinghiarsi.
Ovviamente scoppio di lì a poco. Il vento contrario e il tratto fangoso faranno
il resto. Arrivo in ginocchio, decisamente delusa. Ma, se non altro, non
eccessivamente dolorante. Perché mi lascio abbattere da una scarsa prestazione,
quando non potevo aspettarmi nulla? Non credevo di poter far peggio della gara
precedente, è vero, ma in queste condizioni, con tutti gli annessi e i
connessi, dove fantasticavo di andare? Niente da fare, il pessimismo la fa da
padrone. E quando, due giorni dopo, devo gettare la spugna dopo una decina di
minuti a causa del dolore insopportabile al solito maledetto tallone, è
l’inferno. Cocciutaggine, determinazione e speranza: crolla tutto. Tra le
lacrime. Rabbia? Forse, ma più che altro stanchezza. Stanca di combattere con
questo dolore che non ha un nome né una causa; stanca di sforzarmi di essere
forte; stanca di illudermi che sia solo questione di pazienza. Dovrò arrendermi
all’evidenza: smettere di correre una volta per tutte. Ci sono disgrazie
peggiori, no? Allora perché non riesco a rassegnarmi? Mi butto su attività
alternative ma, come se non bastasse, anche la cyclette mi lascia a piedi.
Qualcuno ha detto che la sfiga non esiste? Arriva così la domenica, e fatico ad
alzarmi dal letto. Mi sento un’ameba, incapace di reagire, refrattaria a
qualsiasi attività. Lasciatemi stare, oggi voglio solo piangere: concedetemi il
diritto di strisciare per un po’. Poi mi rialzerò, promesso. Già da domani.
Cinque di mattina, pedalare! E tornata dal lavoro, sotto col potenziamento. Un
altro giorno è andato. Martedì significa allenamento, che si fa? Ci si prova?
Fisso fuori dalla finestra, immobile. Stamane mi sono alzata con le migliori
intenzioni, mantenute durante tutta la giornata in ufficio. Poi, una volta a
casa, il vuoto. L’abbassarsi della temperatura, col calar del sole,
intorpidisce la mia volontà. Avrei bisogno di un pungolo, magari di un calcio
nel sedere. Jader tace. Forse è distratto, forse si aspetta che sia io a
scuotermi. Allora ti sorprenderò: mi cambio in fretta, do una stuzzicata alle
giunture, e via. Poco convinta, è vero, ma non intendo restare col dubbio. Se
il dolore è ormai scontato, non lo è la sua intensità: tollerarlo significa
crederci ancora, al contrario… Concludo l’allenamento, in condizioni precarie
(correre al buio non è nelle mie corde), ma lo concludo. Domani zoppicherò, mi
dedicherò ad altro. E giovedì mi tirerò il collo col lavoro che preferisco.
Sabato c’è il cross, ne ho già saltato uno a causa della bronchite, non posso
perdermi anche questo: mi sono comprata le scarpe apposta! Questo bruciore alla
gola, però, non mi piace affatto. Una serie di starnuti annunciano l’arrivo del
raffreddore. Evviva, mi mancava proprio, soprattutto sapendo che l’immediata
conseguenza sarà la tosse. Di nuovo. L’incubo di tutti gli inverni: inizia
all’improvviso e non si sa se e quando finirà. Quali salite e quali sprint? È già
tanto se non mi butto sotto le coperte. Le mie scarpette nuove, le userò mai?
Se le mettessi in vendita? Giornata lunghissima, quella del venerdì. Tossisco
in maniera imbarazzante, l’aria secca dell’ufficio mi devasta e non arriva mai
l’ora di staccare. Continuo a rimuginare sul da farsi: sul mio destino
immediato. Correre o non correre l’indomani. E, optando per la prima ipotesi,
allenarsi attorno a casa o rischiare la vita al cross? Tra gli scaffali del
supermercato i pensieri, più che al carrello da riempire, vagano tra una
possibilità e l’altra, alla vana ricerca di quell’incognita che possa
appesantire uno dei piatti della bilancia. Finalmente, sulla via di casa, Jader
fa muovere l’ago: la sua presenza come fotografo è condizionata dalla mia
presenza come podista. E sia: sferriamo il colpo definitivo, così finirò
quest’anno schifoso all’obitorio.
Temperatura accettabile, timido sole, tanta paura. Ormai ci
convivo. Paura e dolore, che brutta coppia. Sorridi, che c’è tanta gente e ti
puoi distrarre. Chiacchierando con questo e quella, riesci persino a realizzare
un riscaldamento decente: hai visto, come niente hai corricchiato per mezz’ora
e sei ancora viva. Va bene che il bello (o il brutto) deve ancora venire, ma
allora sarà tutta un’esplosione di adrenalina. Appena il tempo di infilare le
scarpe sgargianti. Come sono belle! Così vivaci, così leggere: oddio, quanto
sono leggere! Non saranno dannose? Questi chiodi, poi, come li gestisco dal
parcheggio al campo? Non si romperanno? O, peggio, non mi faranno scivolare?
Sono sicura di ciò che sto per fare? Neanche un po’. E meno male che non c’è
margine di ripensamento. Raggiungo lo start pochi istanti prima dello sparo,
mai affrontato una gara con scarpe totalmente intonse. Che sarà mai, sono solo
tre chilometri… Tre chilometri? A me sembrano almeno il doppio. Il percorso è
abbastanza lineare, il terreno agevole, giusto un paio di dossi. Ma a metà del
primo giro sono già impiccata, come ci arrivo alla fine? Ne manca uno e mezzo e
sto arrancando. Alza quelle gambe, spingi un po’. Hai due scarpe che sono uno
spettacolo, non puoi fare la figura della papera. Recupero qualche risorsa, ma
che fatica. Meglio non pensare che mi sto ammazzando per procedere a passo di
bradipo. Soprattutto, meglio non pensare a tutte quello che mi sono davanti…
Forza, non sarai l’ultima, ha ancora senso sbattersi: su con quelle gambe, tira
fuori la grinta. Eh, manca poco, lo so. Alla fine di questo rettilineo c’è la
curva a destra, poi a sinistra, poi ancora a sinistra ed è fatta. Ma la prima
curva non arriva mai, le gambe sono di piombo e dai polmoni non arriva più
aria. Ci manca solo che inizi a tossire. No, dai, è questo il momento che conta:
sono gli ultimi metri che fanno la differenza. Qui si vede chi cede e chi no,
chi molla e chi morde l’osso fino al midollo. Eccolo il mio osso, bruciata
sulla linea del traguardo. Non vale niente, lo so, ma lo dovevo a me stessa:
dare tutto fino alla fine. Se ci riesco ancora, ancora ho qualche speranza.
Qualche minuto di defaticamento, voglio proprio esagerare.
Mi piace fare le cose per bene. Mi piace pensare che, dopo una dose massiccia
di ghiaccio e di arnica (non serviranno a nulla, ma mi rasserenano), potrò
tornare ad allenarmi. Il bello di gareggiare di sabato è che resta tutta la
domenica davanti – e di domenica, vuoi non correre? Sprint in salita e in
piano. Col freddo, con la nebbia, col dolore. Ma con la soddisfazione di
avercela fatta ancora una volta. Detesto non potermi permettere piani a lungo a
termine, tremo all’idea di dovermi fermare per chissà quanto – se non per
sempre. Per vederci più chiaro, ho prenotato una risonanza: tra un paio di
settimane saprò qualcosa in più. Forse. Nel frattempo, ogni giorno è un giorno
conquistato. Continuo a remare contro un mare ostile. Ma, fortunatamente, so
nuotare bene.
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