lunedì 22 ottobre 2018

Tre Monti e uno Spleen


È quel periodo in cui l’intero universo risulta insostenibile: gesti, espressioni, parole pesano come macigni. È quel periodo in cui basta un soffio per scatenare un uragano, e uno sguardo genera immediatamente una lacrima. È quel periodo in cui dovrei seguire il corso della natura e assecondare gli istinti: ergo, andare in letargo. Autunno, fuori e dentro di me. Magari si trattasse solo di un male di stagione: il male qui ha messo le radici, e non c’è diserbante che tenga. Che poi, detto così, suona forse esagerato. Perché è vero, ci sono disgrazie ben peggiori. Ma non posso fingere di stare bene: io di questo piede azzoppato non ne posso davvero più. Sono stanca di sopportare un dolore che non ha un nome né una cura, sono stanca di sentirmi un caso anomalo e inspiegabile, sono stanca di illudermi che tutto passerà. A forza di aspettare sto invecchiando: sono invecchiata. Ed ho paura. Paura di dovermi rassegnare ad una condizione di semi invalidità: di non potermi più permettere non solo di correre, ma nemmeno di fare una tranquilla passeggiata; di vivere con ansia il momento di alzarsi dal letto o dalla sedia e, lo ammetto, anche di non poter più indossare una scarpa elegante. Il pessimismo non aiuta, lo so. Ma l’esasperazione è tanta, l’insofferenza incontenibile: meglio starmi alla larga. Oppure, meglio me ne resti io alla larga dal mondo intero. Perché buttarmi nella mischia quando non ho voglia di parlare con nessuno? No ho nulla da dire, il racconto del mio calvario è venuto a noia persino a me. E assistere allo spettacolo a cuor leggero mi è impossibile: l’indifferenza non è nelle mie corde. Non riesco a starmene ferma a guardare nemmeno la tv, figuriamoci una gara podistica.

Insomma, non dovevo venire a Imola. L’idea, in realtà, era quella di correre la non competitiva, un giro del circuito tirato, quasi fosse un test sui 5 km. Poi, un po’ per l’atmosfera agonistica che ha solleticato le mie (vane) velleità, un po’ per le solite domande e le solite parole di circostanza, lo sconforto ha avuto il sopravvento. Troppo freddo, troppa fiacca, troppi acciacchi: ci rinuncio. Faccio compagnia al fotografo - per quanto lui ne farebbe volentieri a meno. Lasciamo sfilare l’onda dei podisti agguerriti e andiamo ad appostarci in una posizione idonea allo scatto perfetto. Quanto ci sarà da aspettare? Sai cosa ti dico? Che adesso mi cambio e parto anch’io. Così, tanto per ingannare il tempo e sgranchire le articolazioni. Sì, lo so, potevo decidermi prima. Ma devi perdonarmi, questo infortunio mi ha resa schizofrenica. Dunque, ci vediamo tra un po’. Un po’ tanto, a dire il vero: decisamente troppo. Mi sembra di starnazzare senza avanzare di un metro, come se le gambe girassero a vuoto. Che i 66 chilometri in mountain bike di ieri abbiano lasciato il segno? O è la disperazione per le quattro infiltrazioni subite invano che affossa il mio morale e, di conseguenza, la mia andatura? Il dolore dal calcagno sembra battermi in testa, è un incubo dal quale non riesco a svegliarmi. Non mi godo nulla di questo percorso, oggi chiedo solo che termini in fretta. Il finale è in discesa, riesco quindi a lanciarmi e persino a sorridere. Vorrei chiudere in spinta, fino al suono del quinto lap, ma un responsabile della gara mi blocca per incanalarmi a destra. Cerco di spiegargli che non sono competitiva, che non devo transitare sul traguardo, che intendo mantenermi in disparte e non ostacolare gli atleti. Niente da fare, devono passare tutti di là. Stoppo il Garmin e torno indietro, rinunciando agli ultimi duecento metri. Ma chi lo organizza questo evento, sul quale è stato pubblicato persino un libro? I competitivi costretti a zigzagare tra una massa di camminatori, rischiando scontri contundenti, mentre gli addetti ai lavori si sbracciano e si sgolano nel goffo tentativo di gestire un inevitabile guazzabuglio. Che dire? Meglio così: stavolta è più divertente osservare che partecipare.


Sarà meglio smetterla di correre ai margini delle gare, che poi si scatenano violenti temporali.
 Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve sull'anima gemente in preda a lunghi affanni, 
E in un unico cerchio stringendo l'orizzonte riversa un giorno nero più triste delle notti…

Domani mi sparo un po’ di sprint in salita. Perché una promessa è una promessa. E questo calcagno dovrà passare sul mio cadavere.

Nessun commento:

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...