È quel
periodo in cui l’intero universo risulta insostenibile: gesti, espressioni,
parole pesano come macigni. È quel periodo in cui basta un soffio per scatenare
un uragano, e uno sguardo genera immediatamente una lacrima. È quel periodo in
cui dovrei seguire il corso della natura e assecondare gli istinti: ergo,
andare in letargo. Autunno, fuori e dentro di me. Magari si trattasse solo di
un male di stagione: il male qui ha messo le radici, e non c’è diserbante che
tenga. Che poi, detto così, suona forse esagerato. Perché è vero, ci sono
disgrazie ben peggiori. Ma non posso fingere di stare bene: io di questo piede
azzoppato non ne posso davvero più. Sono stanca di sopportare un dolore che non
ha un nome né una cura, sono stanca di sentirmi un caso anomalo e inspiegabile,
sono stanca di illudermi che tutto passerà. A forza di aspettare sto
invecchiando: sono invecchiata. Ed ho paura. Paura di dovermi rassegnare ad una
condizione di semi invalidità: di non potermi più permettere non solo di
correre, ma nemmeno di fare una tranquilla passeggiata; di vivere con ansia il
momento di alzarsi dal letto o dalla sedia e, lo ammetto, anche di non poter
più indossare una scarpa elegante. Il pessimismo non aiuta, lo so. Ma l’esasperazione
è tanta, l’insofferenza incontenibile: meglio starmi alla larga. Oppure, meglio
me ne resti io alla larga dal mondo intero. Perché buttarmi nella mischia
quando non ho voglia di parlare con nessuno? No ho nulla da dire, il racconto
del mio calvario è venuto a noia persino a me. E assistere allo spettacolo a
cuor leggero mi è impossibile: l’indifferenza non è nelle mie corde. Non riesco
a starmene ferma a guardare nemmeno la tv, figuriamoci una gara podistica.
Insomma, non
dovevo venire a Imola. L’idea, in realtà, era quella di correre la non
competitiva, un giro del circuito tirato, quasi fosse un test sui 5 km. Poi, un
po’ per l’atmosfera agonistica che ha solleticato le mie (vane) velleità, un po’
per le solite domande e le solite parole di circostanza, lo sconforto ha avuto
il sopravvento. Troppo freddo, troppa fiacca, troppi acciacchi: ci rinuncio. Faccio
compagnia al fotografo - per quanto lui ne farebbe volentieri a meno. Lasciamo sfilare
l’onda dei podisti agguerriti e andiamo ad appostarci in una posizione idonea
allo scatto perfetto. Quanto ci sarà da aspettare? Sai cosa ti dico? Che adesso
mi cambio e parto anch’io. Così, tanto per ingannare il tempo e sgranchire le
articolazioni. Sì, lo so, potevo decidermi prima. Ma devi perdonarmi, questo
infortunio mi ha resa schizofrenica. Dunque, ci vediamo tra un po’. Un po’
tanto, a dire il vero: decisamente troppo. Mi sembra di starnazzare senza
avanzare di un metro, come se le gambe girassero a vuoto. Che i 66 chilometri
in mountain bike di ieri abbiano lasciato il segno? O è la disperazione per le
quattro infiltrazioni subite invano che affossa il mio morale e, di
conseguenza, la mia andatura? Il dolore dal calcagno sembra battermi in testa,
è un incubo dal quale non riesco a svegliarmi. Non mi godo nulla di questo
percorso, oggi chiedo solo che termini in fretta. Il finale è in discesa,
riesco quindi a lanciarmi e persino a sorridere. Vorrei chiudere in spinta,
fino al suono del quinto lap, ma un responsabile della gara mi blocca per
incanalarmi a destra. Cerco di spiegargli che non sono competitiva, che non
devo transitare sul traguardo, che intendo mantenermi in disparte e non
ostacolare gli atleti. Niente da fare, devono passare tutti di là. Stoppo il
Garmin e torno indietro, rinunciando agli ultimi duecento metri. Ma chi lo
organizza questo evento, sul quale è stato pubblicato persino un libro? I competitivi
costretti a zigzagare tra una massa di camminatori, rischiando scontri
contundenti, mentre gli addetti ai lavori si sbracciano e si sgolano nel goffo
tentativo di gestire un inevitabile guazzabuglio. Che dire? Meglio così: stavolta
è più divertente osservare che partecipare.
Sarà meglio smetterla di correre ai
margini delle gare, che poi si scatenano violenti temporali.
Quando, come un coperchio, il cielo pesa
greve sull'anima gemente in preda a lunghi
affanni,
E in un unico cerchio
stringendo l'orizzonte riversa un giorno nero più triste delle notti…
Domani mi sparo un po’ di sprint in salita. Perché una
promessa è una promessa. E questo calcagno dovrà passare sul mio cadavere.
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