I traslochi
sono eventi traumatizzanti, ma rappresentano anche un’ottima occasione per
sbarazzarsi di oggetti inutilmente accumulati nel corso degli anni. Facile poi
che, nella foga dello sgombero, si finisca col buttare al macero anche ciò che
andrebbe conservato. Fu così che sparirono le mie scarpe chiodate, non trovo
altra spiegazione. Le ho cercate tra i cartoni, anche solo per curiosità, ma
niente, neanche l’ombra. Ricordo bene l’ultima volta che le vidi, magicamente
ripulite dalla buon anima di mia madre – in un impeto di pietà verso quella
zozzeria abbandonata da settimane tra le doppie finestre del terrazzo.
Evidentemente erano già predestinate: acquistate quasi per obbligo, rimosse per
distrazione. Un gesto drastico, dettato dall’inconscio: per liberarmi dal
rischio di correre un altro cross.
Le indossai
nel 2008. E basta. I campi infangati non videro più le mie zampe ridicole:
signore e signori, il divertimento è finito. Vi siete sbellicati dalle risate
per due o tre volte, più che sufficiente. Io ho bisogno di stabilità: terreni
solidi, lisci, compatti. Nel caso non si fosse capito: aborro i cross. Quasi mi
infastidiscono persino da spettatrice. I piedi che affondano nel pantano, i
passaggi scivolosi, gli schizzi di melma sulla pelle: immagini disgustose. Chi
ve lo fa fare? A me potete evitare persino di chiederlo. Del resto, non ho
neppure le scarpe.
Sarà poi
così importante indossare le chiodate per correre una campestre? Sorprendente
non è la risposta, bensì ciò che ha determinato la formulazione della domanda.
In due parole: eterno infortunio. Dopo oltre un anno di stop, qualsiasi terreno
ti sembra un sogno. Non ne puoi più di restare a guardare mentre tutto il mondo
gareggia. Soprattutto, non ne puoi più di rinunciare per l’ennesima volta a
quella competizione a cui tenevi, a quella a cui contavi di tornare o all’altra
che ambivi a conoscere. L’avevi promesso a Vulcano, non mi fermerò di nuovo.
Mantenere la parola è un’impresa. C’è sempre quel morso, sul calcagno, che non
molla la presa. I primi passi di corsa sono una tortura, il dolore ti toglie il
fiato, ti chiedi se abbia senso continuare, se potrai resistere. Capita che
vinca lo sconforto: ti blocchi di colpo, con un nodo in gola e la rabbia che è
lì per esplodere. Cammini nervosa, riempiendo i polmoni di aria e di
cattiveria, poi butti fuori tutto e riparti. Non l’avrai vinta, non mi
vincerai: ti sento ma non ti ascolto, maledetto dolore. Anzi, adesso inizio a
correre più velocemente, provo a spingere, ad alzare le ginocchia, ad aumentare
la frequenza. Provo ad allenarmi, perché correre non mi basta, non più. Sto
delirando, lo so. Dovrei pregare per stare bene accontentandomi di corricchiare
allegramente, invece no: voglio stare bene per poter eseguire allenamenti
sfiancanti, per avere una tabella da seguire, giorno dopo giorno, per fissare
un obiettivo sfidante. Si dice che l’importante sia divertirsi: ebbene, io mi
diverto facendo fatica. Mi entusiasma la ripetuta che toglie il fiato, il lungo
che sfinisce, la salita che spezza in due; mi galvanizza il pensiero della
gara, i riti, la tensione. Correre è questo. L’alternativa è smettere, evenienza
a cui non sono preparata, non ancora. Per quanto potrò resistere, in tali
condizioni? Senza sapere se e quando potrò tornare a fare sul serio,
sopportando un dolore spesso insopportabile, con l’incubo di ulteriori
complicazioni e con la speranza sempre più ridotta al lumicino? Non ho
risposte, nessuno sembra averle – e ciò accresce l’afflizione. Ma la
determinazione e la testardaggine, per quanto messe alla prova, non hanno
ancora ceduto. Ho diversi appigli a cui aggrapparmi, e li difendo con le unghie
e con i denti. Quando mi assale la debolezza, nei momenti più freddi e bui, si
accendono gli sguardi che sento su di me: gli occhi di chi mi aspetta sempre al
traguardo e quelli di chi si sta prodigando per rimettermi in piedi. La
soddisfazione di chi crede in me è lo stimolo più forte. Tanto forte da far
passare in secondo piano timori e titubanze.
Se non mi
spaventa un dolore lancinante, figuriamoci se può intimorirmi un campo terroso.
Jader vuole fotografare i cross, allora io voglio correrli. Ebbene si. Scalpito
talmente tanto che mi butterei volentieri anche nel fango. Tre chilometri,
posso farcela. Non ho le chiodate? Correrò con semplici scarpe da gara.
Scivolerò? Chi se ne frega. Mi asfalteranno giovani e vecchie? Pazienza, ci
vuole anche l’ultima. L’idea mi frullava in testa da troppo tempo, alla fine mi
decido, convinta come un pompiere. Certezza che vacilla una volta iniziato il
riscaldamento: solita pessima sensazione di un piede senza speranza. Due
infiltrazioni non hanno generato effetti rilevanti, non voglio pensare che
anche questa cura sia inutile: adesso non voglio pensare proprio a nient’altro
che alla gara che sto per affrontare. È un mondo nuovo, questo. Le esperienze
precedenti sono ormai preistoria, adesso è un’altra vita, e me la voglio
godere. Sono di poche parole: le mie disgrazie sono un argomento noioso, le
soluzioni miracolose che alcuni sembrano avere in tasca mi esasperano. L’orso
non si smentisce, oggi più che mai. In disparte anche sulla linea di partenza,
dove mi sento totalmente fuori posto: senza preparazione, senza esperienza,
persino senza scarpe. Quando tutti schizzano come proiettili, mi trovo subito
imbottigliata. Il che, se vogliamo, è un buon segno. Difficile prendere il
ritmo, specie in un percorso tutto a zig zag. Eppure, piano piano, scartando di
qua e di là, guadagno posizione su posizione. Il terreno è asciutto e compatto,
l’appoggio stabile e privo di ostacoli: nessuna difficoltà, neppure per una
papera come me. Mi sento incredibilmente in spinta, agguerrita, quasi cattiva.
Continuo a puntare elementi da superare, uomini e donne, senza pietà. Non ci si
può credere: sto correndo un cross e mi sto enormemente appassionando.
Aggredisco con violenza l’unica salita del percorso, più incerta la discesa, ma
è solo un attimo, perché ora il tracciato si fa più lineare, è il momento di
lanciarsi. Ancora sorpassi, ci provo fino alla fine, con una volata che non
vinco, ma che mi gratifica ugualmente: perché ho dato tutto. È stato
bellissimo. Mi sento come una bambina che ha scoperto un gioco nuovo e grida
“ancora”. Come vorrei poterlo dire…
Foto @Jadersimages |
Foto @Jadersimages |
PS:
l’entusiasmo ha avuto breve durata, dato che il giorno successivo il calcagno
ha urlato vendetta. Come se non bastasse, sembra essersi risvegliato anche il
dolore infame provocato dal primo intervento. Che dire? Proseguiamo con le
infiltrazioni e crediamoci intensamente: devo crederci, perché devo tornare a
correre seriamente. Lo devo a chi mi ama e a chi mi segue. E un po’ anche a me.
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