martedì 28 agosto 2018

Fanano-Capanno Tassoni: luci e ombre


La battaglia contro il perfido calcagno ha aperto una guerra su più fronti. C’era da aspettarselo. Decidi di ripartire dopo un anno, con intenzioni bellicose, pensando di uscirne illesa? Col tuo fisico da quattro soldi, poi. E quel piede a mezzo regime, che chissà come ti fa appoggiare. Tutta storta, ovvio. Grida il tallone sinistro, risponde il gluteo destro: in quella posizione ambigua, che fatichi a localizzare – non sapresti descrivere dove esattamente inizi e dove finisca, se interessi il piriforme o il nervo sciatico, se si limiti al fondoschiena o si estenda al femorale. Tutto sotto controllo, mi assesterò e passerà. Così parto per la mia seduta di un’ora, da frazionare in tre parti. Nei primi venti minuti il solito piede ricomincia con la solita solfa (ti sei operata per l’anima del cavolo, io non ti darò mai pace). Non ti ascolto, no no no! Pausa di due minuti, ed ecco che si risveglia il gluteo. Possibile? Corro quasi indenne, ma cammino dolorante. Allora via di nuovo di corsa. Calcagno muto, ma chiappa fastidiosa. Non sculettare, non ciondolare: busto eretto, ginocchia alte, braccia piegate. Spingi su quei piedi, senza saltellare, senza cedere al vento contrario. Dopo la curva sarai più riparata, un’agevolazione per gli ultimi cinque minuti. Concentrata sul passo, sulla postura, sulla fatica. Forse troppo: troppa tensione, troppa attenzione sui punti dolenti. Termino la seconda sessione sempre più acciaccata, dal lato destro il fastidio si è spostato verso il centro: oddio, avrò rotto l’osso sacro? Ultimi venti minuti in discreta spinta, non un fulmine ma neppure una lumaca: soprattutto, fatica al minimo. Peccato che poi stenti a camminare, e subito mi si prospettano gli scenari più catastrofici (ernia, frattura, decomposizione, ecc).
Due giorni di riposo e un trattamento manuale (e psicologico) mi rimettono in moto. Il dolore però non molla: riesco ad allenarmi, anche discretamente, ma cammino male. Zitta e corri, dunque? Sarà così. E’ così che mi ritrovo a Fanano, con un pettorale sulla canotta. Gara mai sperimentata, sempre osservata e sempre schivata – per la distanza, per la durezza, per la concomitanza con altri eventi.  Finalmente si propone come l’occasione perfetta, ideale per questa fase di riavvicinamento alle questioni serie. Peccato che l’unico argomento serio, oggi come ieri, sia l’elenco dei miei malanni. Tutto sotto controllo, mi assesterò e passerà. Non ne dubito, diversamente non sarei qui. Avrei potuto sfoggiare saggezza e prudenza, restando a casa a leccarmi le ferite. Invece no, ho troppa voglia di combattere: con le mie debolezze, con i chilometri e le pendenze, con il mondo podistico. Dicono sia molto dura, ottimo: la fatica schiaccerà i pensieri più nefasti. Tra i quali c’è anche quello di arrivare ultimissima, del resto siamo talmente in pochi. E se invece quella manciata di avversarie fosse più scarsa di me? Almeno una o due, dai. Pronti via, e si precipita in discesa. Il tallone suona il campanello, avvisandomi che il suo silenzio dei giorni precedenti è stato un bluff; anche il fondoschiena, tranquillo fino a pochi minuti fa, mi rammenta che non posso frullare a piacimento. Tranquilla, il bello è là da venire. Neanche due chilometri, e la strada prende a salire: da qui in avanti non darà tregua. Testa bassa e pedalare. In pochi minuti mi metto alle spalle un buon numero dei podisti che si erano lanciati a tutta. Ma è con me stessa che devo competere: con la mia capacità di soffrire – e di resistere. Si tratta di glissare sugli acciacchi, declassandoli come biechi e ininfluenti concorrenti sleali, e sintonizzarsi sulla propria andatura: regolarizzare ritmo e respiro in un processo fluido e incessante. Se solo si allentasse quel morso sul calcagno… Invece no, non molla la presa. Mi destabilizza e cedo: col pretesto del ristoro, interrompo la corsa e procedo camminando per alcuni metri, bagnandomi la bocca. Gli stop and go sono deleteri soprattutto per il posteriore, evita di fermarti, accidenti a te. Piano piano, ma senza sosta. Una discesa inaspettata mi spiazza. È decisamente ripida, non oso approfittarne, a discapito della mia posizione. Tanto in un attimo siamo di nuovo su tornanti spezza gambe. Micidiali davvero, ma vogliamo parlare dell’incanto di questa strada? Quante volte abbiamo abbracciato questi pendii? Abbiamo solcato i sentieri attraverso ai boschi, con lo zaino in spalla, fino alle cime più alte: le nostre piccole conquiste. Cercare un angolo riparato per godersi la vetta addentando un panino, che poi la strada del ritorno pare sempre più lunga e quel rifugio, al termine del cammino, ci intrattiene per un po’ di tempo ancora: come a confortare la malinconia che assale al termine di una giornata intensa. Sono felice di essere qui, oggi, in una nuova veste. Abbigliamento ridotto ai minimi termini, scarpe leggere e nessun fardello, se non il mio fisico provato. Jader non segue la mia traccia, ma è come se lo facesse: avverto il suo sguardo, sento le sue parole, percepisco la sua apprensione – e il suo incitamento. Siamo tornati in un luogo che amiamo, ognuno ad assecondare la propria passione: sarà emozionante incrociarci strada facendo, sarà entusiasmante ricongiungerci all’arrivo, ancora una volta al riparo di un caldo rifugio.
Quando odo la sua voce ho un sussulto. Devo mostrarmi forte e carica, nessun cenno di abbattimento né di sconforto. Da come grida al mio passaggio, dubito di esserci riuscita. L’ultimo chilometro dovrei aggredirlo, invece sono piegata a metà. L’avversaria con cui ho giocato a ping pong fino a questo punto viene raggiunta dal compagno che, avendo ultimato la sua gara, si appresta a scortarla fino all’arrivo. Un aiuto non da poco. La vedo infatti cambiare marcia, e io getto la spugna. Ormai è fatta, a questo punto basta portare a termine l’impresa. Finisce l’asfalto e inizia il sentiero: a cento metri c’è il traguardo. È finita. O forse no: forse è proprio adesso che devo sondare la mia condizione per capire cosa mi aspetti. Il pensiero a cui mi aggrappo è solo uno: pur con molte (troppe) soste, ho corso per dodici chilometri in salita. Una delle gare più dure a cui abbia mai partecipato, se non la più dura, affrontata nella peggiore delle mie condizioni. Eppure, conclusa a testa alta. Ci sarei riuscita se fossi un vero rottame? Avrei sostenuto fino alla fine un simile sforzo, se il mio fisico fosse irrimediabilmente compromesso? Tutto sotto controllo, mi assesterò e passerà. Qual era il mantra? Zitta e corri. 



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