Ricordo che nei primi chilometri avevo conquistato una buona
posizione. La pendenza non era eccessivamente impegnativa e avevo superato
agilmente alcune avversarie già in difficoltà. Finché la strada cominciò a
digradare: prima una discesa asfaltata, tanto breve quanto verticale, poi
un’infinita pietraia dove mai avrei messo piede, nemmeno per una passeggiata.
Un incubo. Di correre non se ne parlava, era un’impresa persino camminare.
Mentre tutto il mondo mi passava davanti. Calpestatemi pure, già che ci siete,
tanto non so se arriverò in fondo. Magri Jader, non vedendomi arrivare,
chiamerà il soccorso alpino. Era una donna distrutta quella che gli si parò
davanti, quando lui si trovava ormai sull’orlo della disperazione. Solo l’approssimarsi
del traguardo riuscì a rianimarla: e poco importava che l’ultimo tratto fosse un’impennata.
Anzi! Mai salita fu tanto agognata.
Questo il terribile ricordo di Rocca di Roffeno. Una delle
peggiori prestazioni della mia carriera podistica, una gara che solo a
nominarla mi ha sempre provocato crisi di rigetto. Eppure, quando correre
diventa un’utopia, quando guardi col magone anche le vecchie scarpe da running,
quando nulla ti dà pace se non la speranza, saresti disposta a spillarti
qualsiasi pettorale pur di assaporare ancora quell’emozione. La fatica,
l’ansimare, la sfida. Quanto ti mancano? Quanto ti mancano quelle giornate in
cui, da quando scendi dal letto, attendi con trepidazione l’ora
dell’allenamento? Che forse odierai, che ti annebbierà la vista o non ti
gratificherà abbastanza, ma che terminerai con il pensiero già proiettato alla
sessione successiva. Quanto ti mancano i rituali pre-gara? Scarico, pasti,
abbigliamento; tutto condito da ansie e timori di ogni sorta. Così, quando ti
si prospetta la possibilità di partecipare ad una competizione, persino un
percorso infernale assume le sembianze di un viale dorato. Del resto, è passato
tanto tempo da quella volta. Nemmeno ricordo quanto: non saprei neppure dire a
quale società appartenessi. Di certo so che il mio passaggio, allora, non ha
lasciato tracce: né nei miei file, né (tantomeno) negli albi podistici. E così
sarà anche stavolta: tanto peggio non potrà andare, camminerò oggi come allora.
Con la differenza che in questa occasione mi sentirò giustificata, e non
inveirò contro lo scarso risultato. Solo il dolore mi preoccupa, questo
bastardo che non si decide a darmi pace. Per alcuni giorni mi ero illusa: buone
sensazioni, sofferenza ridotta al minimo e recupero quasi perfetto. Poi di
nuovo quel male acuto, come un anno fa, come non avessi fatto il possibile e
l’impossibile per sconfiggerlo. Cerchi di calmarti, di convincerti che si
tratti di una fase di adattamento, che occorra pazienza per riabituare alla corsa
un piede fermo da un secolo. Ma lo sconforto è pronto ad assalirti. Come non
pensare che tutto sia stato inutile, che non uscirai mai da questo sporco
tunnel?
Zitta e corri.
Agli ordini, capo. Parto con gli ultimi, ma subito comincio a scalpitare. Le
gambe vogliono girare, nonostante il calcagno dolente. Magari è solo questione
di minuti, cinque dieci o quindici. Il tempo di scaldarsi. Magari. Intanto
corro, e mi lascio alle spalle un bel po’ di gente. Stento a crederci, che
abbia esagerato? Ecco, inizia la salita. Punto ad agguantare la ragazza a pochi
metri da me, ma la scarsa attitudine alla corsa e la totale assenza di
allenamento mi presentano il conto. Fiato corto e tallone incazzato: inizio a
camminare. Poi riparto di corsa, poi di nuovo cammino. Avanti così, che
tristezza. Mi ero illusa di riuscire ad affrontare l’ascesa: non agilmente,
certo, ma piano piano, senza fermarmi. Per una volta, ho peccato di ottimismo. Mi
consola il fatto che, nonostante i miei stop, i distacchi restino invariati:
evidentemente, il ritmo di chi corre non è tanto più svelto della mia
camminata. Peccato che, allo scollinamento, non possa lanciarmi come vorrei: in
discesa devo essere oltremodo cauta. Mi limito a spingere (più o meno) nel
tratto in piano, sfidando le mie capacità di resistenza – e il solito male, che
a volte preme all’esterno, altre all’interno, tanto per non annoiarmi. Passerà,
dai: guarda quanti cadaveri stai ancora raccogliendo. Il signore con la
bandierina segnala che il divertimento è finito: salutate l’asfalto e godetevi
il sentiero di montagna. Non vedevo l’ora. Mi inoltro prudente, sguardo fisso a
terra, già pronta alla crisi di panico. Che non arriva. Continuo a correre
sullo sterrato, senza troppe difficoltà: sono cambiata io o è cambiato il
percorso? Sono un bradipo, è vero, ma non barcollo né inveisco. I più agili
(tutti) mi fanno mangiare la polvere, ma io proseguo imperterrita – per non
dire soddisfatta. Tornata sull’asfalto, mi sembra di volare. In un battito d’ali
recupero tutti quelli/e che mi avevano umiliata sul ciottolato. Li stacco
talmente tanto che nemmeno quando la salita diventa inaffrontabile riusciranno
a riprendermi. Effettivamente, sono davvero pochi quelli che riescono a correre
negli ultimi due chilometri. Mi chiedo se, in condizioni ottimali, io avrei
potuto essere una di loro – ma forse sarebbe meglio evitare certi
interrogativi, così come è inutile domandarsi se sia più condizionata dal
dolore incessante o dai tanti mesi di stop. Accenno un allungo negli ultimi
metri che portano al traguardo. 59’, un’eternità. Che vale però il premio di
categoria, quasi mi vergogno. Contenta sì, ma solo a metà. Perché ho sofferto
troppo. E non mi riferisco alla fatica, scontata, ma al calcagno, che speravo
più silente. Non è guarito, forse non guarirà mai. Forse non dovevo operarmi,
forse non dovevo riprendere così presto, forse non dovrei correre mai più. Forse
dovrei piantarla con tutti questi forse. Zitta
e corri. Questo deve essere il mio mantra, oggi e sempre. Purtroppo non
potrò avere sempre a disposizione mani prodigiose che attenuino i danni, ma
sarebbe già tanto non aggravare la situazione con elucubrazioni devastanti. Tra
ghiaccio e riposo, spengo la luce su una domenica luminosa. E, il mattino
seguente, mi rialzo senza zoppicare: questa è una grande conquista. Sciolgo
corpo e mente in piscina, dove i pensieri si perdono tra le bolle d’aria del
mio respiro.
Quindi sono pronta a ripartire. Con gli sprint in salita, i minuti
a perdifiato, la cura dell’andatura. Con la fatica, quella meravigliosa fatica
che mi fa sentire viva. E forte. Stupido calcagno, non avrai il mio scalpo.
PS: Giusto per inquadrare correttamente gli eventi: tre mesi
fa uscivo dalla sala operatoria.
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