Proviamo
qualche allungo di corsa?
No! Non sono pronta. Non sono trascorsi nemmeno due mesi
dal (secondo) intervento, non ho mai camminato più di mezz’ora, non mi sono
ancora liberata dal dolore – e, soprattutto, dalla paura. Panico, oserei dire:
una vera e propria angoscia. Però, a ben riflettere, è più prepotente la voglia
o l’ansia? Se prestassi attenzione al fremito delle gambe, non esiterei un
secondo ad allacciarmi le scarpette; se invece continuassi ad ascoltare il brusio
della mente, finirei col scrutare vanamente l’orizzonte, come in un desolato
deserto dei tartari. La soluzione è soltanto una: affidarmi a chi si sta
prodigando per risolvere questo disperato caso clinico. Uno è il verbo, l’imperativo
che ha scandito le varie fasi del mio calvario: fidarmi di chi mi ha
prospettato una via d’uscita. Senza se e senza ma. Quindi, se mi si dice che
posso correre, significa che devo farlo. Datemi solo qualche giorno, il tempo
per entrare nell’ordine delle idee. Lasciatemi scegliere l’occasione giusta. Ecco,
venerdì ci sarebbe una camminata serale in paese: mi butto nella mischia, per
non pensarmi addosso.
Venerdì trascorso quasi in trance. Arrivo a casa
dal lavoro niente affatto convinta. Vento infernale e cielo plumbeo: devo
proprio? Meglio di no, meglio rimandare. Domani è un altro giorno: di prima
mattina, quando la coscienza è ancora assopita, con l’aria tersa e lo spirito
alto. Un minuto di corsa e un minuto di cammino, per dieci volte. Cosa vuoi che
sia? Mi avvio a passo svelto, Jader al mio fianco. Avverte la mia tensione, forse
anche le mie pulsazioni, quasi mi stessi approssimando ad una fantomatica linea
di partenza. Non sarà una gara, ma è come se lo fosse. Non ci sono avversarie, né
ritmi da rispettare o tempi da sfidare: ci siamo io e il mio calcagno. È lui
che temo, la sua reazione, i suoi segnali. Dimenticati
di quel piede, fa come se non esistesse. Non hai mai subito operazioni, nessun
infortunio: hai avuto solo una lunga influenza e adesso sei guarita. Adesso corri.
Primo minuto. Quel fottutissimo male è ancora qui, a
sbeffeggiarmi. Speravi di esserti
liberata di me, hai schierato chirurghi e fisioterapisti per debellarmi, ma io
sono invincibile. Col cavolo! Io sono più forte di te, maledetto, e
stavolta ti faccio secco. Il secondo minuto è durissimo. Ci rinunci? Neanche morta! Già il terzo va meglio, quindi via col
quarto. Fino a dieci: dieci minuti di corsa, l’ultimo a 4’10”/km - quasi una
ripetuta. È il 23 giugno, cinquantadue giorni fa uscivo dall’ospedale, da oggi
si guarda solo avanti. Certo, duole ancora, soprattutto dopo alcune ore e il
giorno seguente. Ma, trascorse quarantotto ore, riesco a replicare. Il dolore
si è spostato, ora è lo stesso che si era scatenato in seguito alla prima
operazione. Gli incubi offuscano la mia visuale, ma riesco a domarli. È normale
che soffra ancora, così come è normale che gli acciacchi mi attraversino da
capo a piedi, come non avessi mai corso in vita mia. L’importante è riuscire a
domarli, attenendosi scrupolosamente alle indicazioni, nulla di più – e nulla
di meno. Passiamo a due minuti per sette volte, poi a tre per cinque, quindi
dodici minuti di seguito. Un’eternità. In funzione di un grande esordio. Ebbene
sì, hanno deciso che sia giunto il momento di indossare una tenuta da gara e
attaccarsi un pettorale. Una nuova divisa per una nuova società. Rinascita a
tutti gli effetti. Ovviamente per me non sarà competizione. Mi accontenterò di annusare
l’atmosfera, sarò onorata di rendere omaggio a chi organizza e, ammettiamolo,
ne approfitterò per farmi coccolare da chi sarà felice di rivedermi.
Non conosco i nuovi compagni, né loro conoscono me. Ci
saranno tempo e occasioni. Oggi, 12 luglio, mi limito a sorridere. Mi aspettano
cinque chilometri. Ce la farò? Nelle gambe ne ho appena la metà, e mi sento un
rottame. Piede, ginocchio, anche: tutto da buttare. E se mi procurassi danni
irrimediabili? La vuoi finire?! Non devi
gareggiare, devi divertirti. Parti piano piano e senti come stai, male che vada
ti fermi al primo giro. Schierarsi nelle retrovie è decisamente
rasserenante: se non temessi le reazioni del mio fisico, potrei dirmi
totalmente rilassata. Lo sparo, da quanto tempo non lo udivo? Eccomi di corsa,
alla ricerca di un assetto decente. Mi sento tutta storta, gli appoggi
scomposti, il passo incerto. Il tallone si fa sentire, e questo non può che
condizionare l’andatura. Ma procedo convinta, trovandomi mio malgrado a
superare alcune ragazze. Il percorso si snoda all’interno di un parco, sentiero
ghiaiato, ma non mi disturba. Mi sforzo per rimanere concentrata sulla mia
corsa, nel tentativo di non buttare i piedi a vanvera, cercando di sollevare le
ginocchia e di assecondarle con le braccia. So di avere esaurito i bonus per migliorare
la tecnica, ma in questi giorni di ripresa ho notato che i dettagli possono
fare la differenza. Il tratto che si approssima alla linea di partenza è
alquanto tortuoso, ma c’è un gran tifo. Echeggia il mio nome, non riconosco le
voci e non cerco i volti: in teoria non sto gareggiando, in realtà sto cercando
di esprimermi al meglio. Non ho in mente né crono né tantomeno posizione:
voglio solo correre sorridendo, sorridere perché sto correndo. Mancano un paio
di chilometri, sarebbe il momento di spingere un po’ di più. Comincio però ad
accusare, la mia resistenza è messa a dura prova. Ciò nonostante, sono sempre
in sorpasso. Il periplo che precede l’arrivo è infinito, ma l’emozione supera la
stanchezza. Un cenno di “cinque” a Tiziano, finalmente mi vede correre – con i
miei mille difetti, ma che importa? Vorrei gridare, piangere e ridere di gioia.
Posso permettermelo? Non avrò azzardato troppo? Quanto zoppicherò domani? Felicissima,
sì, ma anche preoccupata. Mi godo il qui e ora; il tarlo del domani, però, non
mi dà tregua. Dovrò conviverci. Basta tenerlo sotto controllo: basta, soprattutto,
essere convinta dell’unica verità assoluta. Sono guarita. Da qui si riparte. Con
nuovi colori, nuovi stimoli e nuove prospettive. Sarà una magnifica estate.
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