domenica 15 luglio 2018

If you say run...


Proviamo qualche allungo di corsa?

No! Non sono pronta. Non sono trascorsi nemmeno due mesi dal (secondo) intervento, non ho mai camminato più di mezz’ora, non mi sono ancora liberata dal dolore – e, soprattutto, dalla paura. Panico, oserei dire: una vera e propria angoscia. Però, a ben riflettere, è più prepotente la voglia o l’ansia? Se prestassi attenzione al fremito delle gambe, non esiterei un secondo ad allacciarmi le scarpette; se invece continuassi ad ascoltare il brusio della mente, finirei col scrutare vanamente l’orizzonte, come in un desolato deserto dei tartari. La soluzione è soltanto una: affidarmi a chi si sta prodigando per risolvere questo disperato caso clinico. Uno è il verbo, l’imperativo che ha scandito le varie fasi del mio calvario: fidarmi di chi mi ha prospettato una via d’uscita. Senza se e senza ma. Quindi, se mi si dice che posso correre, significa che devo farlo. Datemi solo qualche giorno, il tempo per entrare nell’ordine delle idee. Lasciatemi scegliere l’occasione giusta. Ecco, venerdì ci sarebbe una camminata serale in paese: mi butto nella mischia, per non pensarmi addosso.

Venerdì trascorso quasi in trance. Arrivo a casa dal lavoro niente affatto convinta. Vento infernale e cielo plumbeo: devo proprio? Meglio di no, meglio rimandare. Domani è un altro giorno: di prima mattina, quando la coscienza è ancora assopita, con l’aria tersa e lo spirito alto. Un minuto di corsa e un minuto di cammino, per dieci volte. Cosa vuoi che sia? Mi avvio a passo svelto, Jader al mio fianco. Avverte la mia tensione, forse anche le mie pulsazioni, quasi mi stessi approssimando ad una fantomatica linea di partenza. Non sarà una gara, ma è come se lo fosse. Non ci sono avversarie, né ritmi da rispettare o tempi da sfidare: ci siamo io e il mio calcagno. È lui che temo, la sua reazione, i suoi segnali. Dimenticati di quel piede, fa come se non esistesse. Non hai mai subito operazioni, nessun infortunio: hai avuto solo una lunga influenza e adesso sei guarita. Adesso corri.
Primo minuto. Quel fottutissimo male è ancora qui, a sbeffeggiarmi. Speravi di esserti liberata di me, hai schierato chirurghi e fisioterapisti per debellarmi, ma io sono invincibile. Col cavolo! Io sono più forte di te, maledetto, e stavolta ti faccio secco. Il secondo minuto è durissimo. Ci rinunci? Neanche morta! Già il terzo va meglio, quindi via col quarto. Fino a dieci: dieci minuti di corsa, l’ultimo a 4’10”/km - quasi una ripetuta. È il 23 giugno, cinquantadue giorni fa uscivo dall’ospedale, da oggi si guarda solo avanti. Certo, duole ancora, soprattutto dopo alcune ore e il giorno seguente. Ma, trascorse quarantotto ore, riesco a replicare. Il dolore si è spostato, ora è lo stesso che si era scatenato in seguito alla prima operazione. Gli incubi offuscano la mia visuale, ma riesco a domarli. È normale che soffra ancora, così come è normale che gli acciacchi mi attraversino da capo a piedi, come non avessi mai corso in vita mia. L’importante è riuscire a domarli, attenendosi scrupolosamente alle indicazioni, nulla di più – e nulla di meno. Passiamo a due minuti per sette volte, poi a tre per cinque, quindi dodici minuti di seguito. Un’eternità. In funzione di un grande esordio. Ebbene sì, hanno deciso che sia giunto il momento di indossare una tenuta da gara e attaccarsi un pettorale. Una nuova divisa per una nuova società. Rinascita a tutti gli effetti. Ovviamente per me non sarà competizione. Mi accontenterò di annusare l’atmosfera, sarò onorata di rendere omaggio a chi organizza e, ammettiamolo, ne approfitterò per farmi coccolare da chi sarà felice di rivedermi.

Non conosco i nuovi compagni, né loro conoscono me. Ci saranno tempo e occasioni. Oggi, 12 luglio, mi limito a sorridere. Mi aspettano cinque chilometri. Ce la farò? Nelle gambe ne ho appena la metà, e mi sento un rottame. Piede, ginocchio, anche: tutto da buttare. E se mi procurassi danni irrimediabili? La vuoi finire?! Non devi gareggiare, devi divertirti. Parti piano piano e senti come stai, male che vada ti fermi al primo giro. Schierarsi nelle retrovie è decisamente rasserenante: se non temessi le reazioni del mio fisico, potrei dirmi totalmente rilassata. Lo sparo, da quanto tempo non lo udivo? Eccomi di corsa, alla ricerca di un assetto decente. Mi sento tutta storta, gli appoggi scomposti, il passo incerto. Il tallone si fa sentire, e questo non può che condizionare l’andatura. Ma procedo convinta, trovandomi mio malgrado a superare alcune ragazze. Il percorso si snoda all’interno di un parco, sentiero ghiaiato, ma non mi disturba. Mi sforzo per rimanere concentrata sulla mia corsa, nel tentativo di non buttare i piedi a vanvera, cercando di sollevare le ginocchia e di assecondarle con le braccia. So di avere esaurito i bonus per migliorare la tecnica, ma in questi giorni di ripresa ho notato che i dettagli possono fare la differenza. Il tratto che si approssima alla linea di partenza è alquanto tortuoso, ma c’è un gran tifo. Echeggia il mio nome, non riconosco le voci e non cerco i volti: in teoria non sto gareggiando, in realtà sto cercando di esprimermi al meglio. Non ho in mente né crono né tantomeno posizione: voglio solo correre sorridendo, sorridere perché sto correndo. Mancano un paio di chilometri, sarebbe il momento di spingere un po’ di più. Comincio però ad accusare, la mia resistenza è messa a dura prova. Ciò nonostante, sono sempre in sorpasso. Il periplo che precede l’arrivo è infinito, ma l’emozione supera la stanchezza. Un cenno di “cinque” a Tiziano, finalmente mi vede correre – con i miei mille difetti, ma che importa? Vorrei gridare, piangere e ridere di gioia. Posso permettermelo? Non avrò azzardato troppo? Quanto zoppicherò domani? Felicissima, sì, ma anche preoccupata. Mi godo il qui e ora; il tarlo del domani, però, non mi dà tregua. Dovrò conviverci. Basta tenerlo sotto controllo: basta, soprattutto, essere convinta dell’unica verità assoluta. Sono guarita. Da qui si riparte. Con nuovi colori, nuovi stimoli e nuove prospettive. Sarà una magnifica estate.



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