mercoledì 12 settembre 2012

Giro podistico delle Isole Eolie - parte 1


Zolfo.  Amo questo odore. E questi fumi che sbottano dalle rocce, dalla terra, dal mare. Forse è il demone che è in me a rendermi così succube al fascino di quest’isola. E mai come adesso avrei bisogno di un patto col diavolo: per guarire dall’infortunio che mi blocca da mesi e, soprattutto, per liberarmi dalle avversità che mi perseguitano da sempre. Supereremo anche questa: quante volte ce lo siamo ripetuti, negli ultimi anni? Sperando sempre di approdare in acque più quiete. Invece, ogni volta una tempesta: non appena credi di avere domato la zattera, ti ritrovi nuovamente naufrago.

Visite ed esami, cure e terapie, concluse con un “non hai niente”. Sì, ma allora, questo dolore? Vabbè, mi convinco che sto bene e rimetto le scarpe da corsa. Che fatica! Più di 2mila chilometri di bici sono serviti a ben poco, se ora arranco come l’ultimo dei tapascioni. Ciò che conta, però, è ripartire: perché non ho niente, quindi si deve andare. Un mese di tempo per riacquisire una condizione quanto meno accettabile. Non tanto da poter essere competitiva, ma sufficiente a poter svolgere un buon allenamento. Alle Eolie. Un colpo di vita, nel vero senso della parola: un azzardo, forse un salto nel vuoto, ma l’isola sta lanciando segnali ai quali non possiamo sottrarci.
Peccato che la preparazione non proceda come da programma: ritmi assurdi, quelli proposti, e magari fosse questo l’unico intoppo. Il problema è che la gamba inferma ha in qualche modo condizionato l’appoggio, e ora a dolere è la caviglia. Tanto da non riuscire a correre. A dieci giorni dalla partenza. Ultima domenica a casa, niente collinare – sostituito da 100 km in bici. E niente corsa nemmeno lunedì e martedì. Mercoledì si prova. Sentenza: nessun problema alla caviglia, ma il gluteo che sembrava essersi zittito è tornato a farsi sentire. Ma come? Non ho niente! Lo vuoi capire o no?! Domani qualche ripetuta, 400 e 800 (dovrò pure farle girare, queste gambe), poi solo fartlek e corsa lenta. Ultima sgambata prima della partenza: un sabato mattina come tanti, percorso già collaudato. Si attraversa Stiatico, e si ritorna sulla ciclabile lungo la Galliera. Ecco là il Mercatone, mancano ormai 3km. Il dolore è lì, acuto e persistente, ma io non ho niente quindi non l’ascolto. La strada curva a destra, un gradino per tornare sulla pista: prendo male le misure, e mi schianto al suolo. Il gomito destro è andato, si è aperta una voragine orripilante. Riprendo a correre grondando sangue. Cosa penserà vedendomi arrivare in queste condizioni? Come ho fatto? Perché anche questa? Perché oggi? Lavo la ferita, tampono l’emorragia e tremo al pensiero della diagnosi. “No, non ci sono segni di frattura, mi sento di escluderla”. Dottoressa, posso baciarla? Cucire? È proprio indispensabile? “Signora, ha visto la ferita?” Cucia pure… No, niente bagni. Pazienza, basta che possa correre.

Adesso, Vulcano amatissimo, mi devi assistere. Perché ho sfidato la cattiva sorte pur di essere qui: non importa se non andrò in classifica, ciò che conta è che riesca a chiudere ogni tappa con grinta e gioia. Del resto, i percorsi li conosco bene, so quali sono i punti critici e dove ho avuto più difficoltà nella passata edizione. Due anni fa, quando ero discretamente in forma, arrancai su tutte le salite, addirittura fermandomi  in molti tratti. Ora sono tutta rotta, niente affatto allenata: devo solo sopravvivere.
Vulcano, lunedì 10 settembre, ore 10. Parto nelle retrovie. Il podio è già composto, tutto il resto è un’incognita, ma poco importa. Me la prendo comoda, senza forzare. Oso un sorpasso, ma più piano di così non potrei procedere. Ecco l’attacco della salita, che dovremo percorrere tre volte. Agguanto un’altra ragazza, e una terza la supero proprio in cima, prima di buttarmi in discesa. Eppure non ho spinto, questo muro tanto temuto non mi è neppure sembrato particolarmente duro. Adesso però non riesco a lasciarmi andare come vorrei, un po’ per paura, essendo l’asfalto alquanto sconnesso, un po’ per il dolorino che non dà tregua. Credo però di avere guadagnato la quarta posizione, e questo mi rende alquanto euforica. Anche Jader non può credere ai suoi occhi quando mi vede, al primo giro di boa. Tengo il ritmo, il secondo giro rispecchia il primo. Chissà quanto margine ho… No, non mi guardo alle spalle, non sia mai che perda l’equilibrio. Al terzo passaggio la salita si fa sentire, ma è l’ultimo, e ormai è fatta. Adesso sì che sto dando tutto: sarà poco, ma per me è il massimo. Anche in discesa: non so quale sia il mio vantaggio, ma corro come se avessi il fiato sul collo. Così, fino alla fine.

Concentratissima!
Lipari, martedì 11 settembre. Un minuto di vantaggio non è tanto. Se però penso che non credevo sarei rientrata nemmeno nelle prime dieci… Sono in gara, zoppa e monca, ma in gara. Con una notte insonne alle spalle. Sì, perché i guai non sono mai abbastanza. Ignoro le cause, ma non ho chiuso occhio. Non ci penso, non mi importa. Faccio come se non fosse successo nulla, perché nulla è successo. Devo solo pensare a correre – e a gestire il mio vantaggio. Stai lì, non tirare tu la gara: stai attaccata e non farle andare via. Rampa iniziale, poi saliscendi impegnativo, ultimo chilometro tutta discesa.  Parto cauta, davvero, a testa bassa, senza saltellare. Tranquilla. Ma dietro non riesco a starci, non è proprio possibile. Se mi riagguanteranno, sarà per merito loro, non per colpa mia. Io vado sul mio ritmo, le gambe girano: lente e acciaccate, ma girano. Nessun segno di cedimento su quella strada che nel 2010 mi vide procedere di passo sull’ultimo tratto critico. Ora invece crisi non ce ne sono, anzi. Un altro minuto conquistato, il distacco si fa interessante.

Salina, mercoledì 12 settembre. Questa tappa è la bestia nera di molti, spesso il banco di prova: qui la classifica si può stravolgere. Perché quasi 15 km, di cui 10 di salita, possono fare la differenza. Io sono sempre tranquilla, il mio gluteo un po’ meno. Lancia brutti segnali di allarme, già in fase di riscaldamento, ma non lo ascolto. Non ho niente! Anche oggi si tratta di gestire il vantaggio. La strada è tanta, e dura, può accadere di tutto. Le lascio andare, non forzo il passo, eppure riprendo subito la mia posizione. Fa male, accidenti! Non vorrà lasciarmi a piedi proprio qui? Sia mai! In fondo basta non pensarci: basta concentrarsi sulla bella gara che sto correndo, sulla soddisfazione negli occhi di Jader quando mi vedrà sbucare, sulla granita con briosche che mi concederò all’arrivo. Certo che 10 km di questi tornanti… Ne mancano solo 8, solo 7, solo 6… A meno due già vedo le stelle. Ho modo di voltarmi indietro, non vedo nessuna. Ho ancora qualche energia per superare uomini in difficoltà. L’ultimo chilometro è, come sempre, il più lungo. Ma, una volta scollinato, mi sento più sicura. Se non fosse per il dolore che non molla, e per l’altra gamba che decide di addormentarsi. Il tratto in piano lo corro come una papera, se mi vogliono abbattere è questo il momento buono. Poi riprende la discesa, riesco a sciogliermi un po’, ma non a lanciarmi del tutto. Se non altro, i tornanti permettono di scorgere chi insegue: non c’è pericolo. Non bisogna però accomodarsi, anche i secondi sono preziosi, specie nelle mie condizioni: spingere con tutte le forze, che manca poco. Con i due minuti di oggi, il vantaggio raddoppia: un buon margine, in prospettiva delle due ultime tappe – quelle che amo meno. La competizione è lungi dall’essere conclusa, ma la mia gara io l’ho già vinta.

1 commento:

Anonimo ha detto...

...nessuno commenta...siamo tutti in silenzio in attesa della seconda parte...ssssshh ;-)

zampa

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