lunedì 11 gennaio 2016

My Hero

And the clock waits so patiently on your song...
A tredici anni ero già alquanto irrequieta. Un’età difficile, si sa: i genitori diventano ingombranti, i fratelli maggiori si allontanano e vorresti inseguirli, il mondo offre infiniti orizzonti da esplorare. Tanti amici, tutti con qualche anno in più: i motorini, le fughe dal paese, la discoteca. Ciò che non è consentito si fa di nascosto: oppure ci si accontenta di quello che si ha a disposizione. Per esempio, una sala ARCI. E un gruppo di attivisti che prende a cuore la causa dei “giovani” e chiama due DJ per animare le loro domeniche pomeriggio. Fu lì che accadde: la folgorazione. Certi accadimenti non hanno una spiegazione, impossibile razionalizzare un colpo di fulmine: succede e basta, e resti segnato per sempre. Quella canzone… Mai sentita prima, nonostante fosse già datata: forse troppo, per me, chissà. Chissà quali corde mi fece vibrare, chissà come rivoluzionò il mio sentire. Fatto sta che con Heroes il mio senso per la musica fu sconvolto per sempre. Un amore senza mezzi termini: ti prende totalmente, come una malattia. Di lui non sai nulla, e ora vuoi conoscere tutto: e tutto ti sembra straordinario.
Mi chiudo in camera, appoggio l’LP sul piatto, la puntina sull’LP, e parto. Il mio primo acquisto importante, il mio primo disco di David Bowie. Ma la musica non mi basta: devo leggere la biografia, imparare i testi, ammirare le foto – che ovviamente hanno già tappezzato le pareti, in fondo sono un’adolescente. Inizia così il rito: una volta assimilato l’intero album, ne acquisto un altro, e così via, fino a completare la collezione. Comprese le rarità, le raccolte, i live. Non mi sfugge nulla. Nemmeno la notizia del suo concerto in Italia. Non mi pongo neppure il problema se mi sia permesso o meno: il 9 giugno 1987, alle sette di mattina, sono davanti allo stadio di Firenze. Inutile descrivere un’esperienza che è scontato definire unica: una ragazzina sotto al palco, incantata di fronte al suo idolo. Ho detto tutto.
Gli anni passano, i gusti cambiano, la vita presenta difficoltà sempre crescenti. Ma nulla ha incrinato quella passione: quella ragazzina resta viva in me. È la stessa che ha assistito a tutti i suoi concerti in Italia (a volte anche in più date del medesimo tour), immancabilmente in prima fila: dopo Firenze, Torino, Milano, Modena, Bologna, Pistoia, Lucca… Capisco che è sciocco, so di apparire stupida, ma tutt’ora mi è sufficiente una sua nota, o una sua immagine, per paralizzarmi. Nessun altro artista, per quanto apprezzato, ha mai avuto su di me un simile effetto. Non me lo so spiegare. Forse perché tutto è nato in un momento particolare della mia vita, l’età in cui si è alla ricerca di punti di riferimento e si recepisce con enfasi ogni stimolo; forse per l’estrema grandezza del personaggio – estremo e grande in tutti i sensi, e in tutti gli ambiti artistici in cui si è espresso. O forse perché la passione si vive e basta. Nulla la definisce, e nulla la spegne. Nemmeno la morte.
Di quest’ultima non riesco ancora a parlare senza che mi si appanni la vista. So di non essere l’unica. So che non me ne farò mai una ragione. So anche che non smetterò mai di ascoltarlo, e che nessuna altra musica saprà mai toccarmi come la sua.
Stars are never sleeping. Dead ones and the living.

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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