lunedì 30 novembre 2009

Maratona di Firenze


9 giugno 1987, ore 7.30 (circa). Esco dalla stazione di Santa Maria Novella e mi guardo attorno, alquanto disorientata. Individuo il punto informazioni del servizio di autotrasporti e chiedo come poter raggiungere lo stadio. Sguardo stranito: a quest’ora?!?! Certo, a quest’ora. Proprio a quest’ora mi appresto a guadagnare una posizione strategica davanti all’ingresso, per poter scattare come un fulmine sotto il palco, non appena si apriranno i cancelli. Dovrò aspettare ore, è vero, ma per David questo e altro: il primo concerto di Bowie in Italia, e io sarò lì, in adorazione del mio idolo.


29 novembre 2009, ore 7.30 (circa). David domina su Piazzale Michelangelo. Un altro David, ovviamente, così come ben altra è la ragione che mi ha portato, oggi, a Firenze. La follia di allora, però, non è tanto lontana da quella attuale: c’è sempre una dose di irrazionalità nelle passioni, quella che porta a compiere gesti che gli estranei considerano assurdi. Stamattina, su questo balcone che offre una delle viste più spettacolari del mondo, di “pazzi” ce ne sono davvero tanti. Oltre diecimila, pare. Troppi. Il numero mi spaventa. Gli anni addietro, guardando la maratona in tv, mi chiedevo cosa sarebbe successo quando quelle stradine strette lungo le quali stavano correndo una decina di atleti (poiché la diretta RAI, ovviamente, inquadra solo i primi), sarebbero stata invase dalla massa di podisti. Non è una gara per me, mi dicevo. Perché mi sono iscritta, allora? Già, perché? Una questione di data, fondamentalmente. Poi, ammettiamolo, un evento di grande richiamo desta sempre un certo interesse. Beh, ora che ho soddisfatto la mia curiosità posso affermare che, per quanto mi riguarda, una volta basta e avanza.


Già dal primo chilometro mi domando chi me l’abbia fatto fare. Impossibile correre in una simile calca. Le mie migliori intenzioni vanno lentamente sgretolandosi. Tutti i bei pensieri che avrebbero dovuto accompagnare la mia corsa non riescono a raggiungere la mente, tesa invece in un costante stato di allerta: anziché concentrarmi su ritmo e sensazioni, cerco di proteggere la mia incolumità, non risparmiando insulti a chi non riesce ad evitare di toccarmi i piedi (la maratona di Carpi, finita al pronto soccorso, ha lasciato il segno). Tutta la prima metà della gara è un frenare, riprendere, scartare , accelerare. Mi auguro che il tempo perso all’inizio possa fruttare in seguito. Peccato che le gambe non rispondano. La brillantezza che auspicavo non accenna a presentarsi, procedo sempre più a rilento. Quando poi avverto alle mie spalle un plotone in minaccioso avvicinamento, crollo definitivamente. Travolta dal drappello delle 3h15, mi domando se abbia senso continuare a soffrire. Uno scatto d’orgoglio mi rimette in riga, magari ce la posso ancora fare: prendo un attimo fiato poi li riprendo e li saluto. Certo, come no!...


Dal trentesimo in poi mi fermo più volte – stavolta non c’era nessuno ad impedirmelo. Ritirarsi è comunque più complicato che trascinarsi fino all’arrivo, senza contare quanto sia insopportabile solo l’idea di dover annunciare a Jader che ho rinunciato. Già immagino la sua ansia, vedendo il cronometro procedere ben oltre il tempo che avrebbe dovuto segnare al mio arrivo. Intanto mi sembra che tutto il mondo corra davanti a me, mi sta superando l’intero universo femminile. E io che credevo di poter valere ancora qualcosa…


Ho chiuso la mia tredicesima maratona realizzando la peggior prestazione di tutti i tempi. Sulle cause dovrò indagare. Forse dovrei semplicemente rassegnarmi, ma non ne ho voglia. Non ancora.

1 commento:

Giuseppe ha detto...

Ciao Valentina,
so che ritirarsi nel mezzo di una gara da fastidio, ma se quella era la cosa giusta da fare, a cosa serve preoccuparsi. Dai su col morale sarà meglio la prossima

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