Lo dissi la prima volta, nel 2002, e lo ripeto quest’anno: la maratona è l’unica cosa per la quale valga davvero la pena volare a New York. So che questa affermazione farà rizzare i capelli ai tanti innamorati dalla città. E neppure io voglio negare che le sue luci, i suoi contrasti, le sue enormità le forniscano un fascino del tutto particolare. Ma io non sono qui per fare la turista: principalmente, ciò che mi interessa è condurre una bella gara, quindi devo risparmiare le mie energie evitando di andare troppo a zonzo. A fare che, poi? Di shopping non se ne parla. Il mio compito di assistente, poi, non mi lascia troppo tempo libero, così i rischi sono ridotti.
Non mi resta quindi che lasciare trascorrere i giorni che precedono la gara in modo sereno, cercando di evitare gli effetti negativi di situazioni inevitabilmente stressanti.
Il mio rifugio è Starbucks. Adoro queste nicchie di aroma e di calore: mi basta farvi ingresso per sentirmi coccolata. Il cappuccino, qui, è superlativo – altro che quelle misere tazzine dei nostri bar, il più delle volte riempite con brodaglia appena tiepida. Mi siedo ad un tavolo con il mio bicchierone fumante e mi guardo attorno: relax allo stato puro. Chi legge un libro, chi sorride lambiccando il cellulare, chi fissa lo schermo di un pc; qualcuno chiacchiera, qualcun altro scrive, c’è anche chi osserva il passaggio frenetico sulla strada. Là fuori tutto corre, mentre qui dentro il tempo è dolce e morbido.
Tempo bizzarro e inaffidabile. Mi riferisco a quello atmosferico: freddo e inclemente il primo giorno, come un sarcastico benvenuto, tiepido e quasi afoso nei giorni successivi. Perfido inganno: la mattina della gara un vento gelido spazza le nostre miti aspettative. Fort Wadsworth appare più che mai come un campo profughi, una distesa di rifugiati tra cartoni e sacchi di nylon, alla disperata ricerca di un minimo riparo. Non ricordo attesa più lunga. Eppure non mi scoraggio: mi sento in forma, carica e determinata. Ho un conto in sospeso con questa maratona. Devo ancora digerire il ritiro del 2006. Certo, nulla potrà cancellare quella delusione, amplificata dal fatto che c’era Jader ad attendermi invano all’arrivo. Ma è anche per rendere ad entrambi meno doloroso quel ricordo che oggi dovrò dare tutta me stessa.
Parto col sorriso, e pazienza se il vento, sul Ponte di Verrazzano, tende a spostarmi. Ci sarà modo di recuperare. Appena giunta tra le ali di folla, mi faccio spingere dall’incitamento. Go Vale, go! Che effetto pazzesco queste parole! Il mio nome urlato in decine di accenti diversi, per 42 chilometri. Solo qui posso godere di una simile emozione, solo su queste strade si può vivere l’illusione di essere campioni degni di un tifo assordante.
Al trentesimo chilometro faccio un rapido calcolo che mi fa esultare: sto andando alla grande.
Peccato che di lì a poco qualcosa si spenga. Non una crisi improvvisa e infernale, niente a che vedere con quel muro che blocca gambe, fiato e pensiero. Semplicemente mi rendo conto che sto rallentando. Qualche allungo mi riesce ancora, ma di fatto il tempo si sta dilatando oltre ogni previsione: le ultime tre miglia sono eterne, i due chilometri finali un calvario. A malapena riesco ad alzare le braccia all’arrivo. Esultare per cosa? Il risultato è peggiore delle peggiori ipotesi.
E adesso? Adesso ritorno sui come e sui perché, senza trovare ragioni sufficienti a spiegare questa scarsissima prestazione – che si aggiunge alle tante precedenti. Il primo pensiero è di lasciare perdere tutto. Ma l’idea di rassegnarmi non mi va proprio giù. Non ancora. Non ho ancora sbattuto sufficientemente la testa per convincermi a desistere. Voglio credere che posso ancora farcela. Ce la devo fare! Archivio dunque un miserissimo 3:11:20 e mi carico per la prossima sfida.
Non so se tornerò a New York. In quei lunghi giorni privi di stimoli mi chiedevo se ne valesse ancora la pena. Una volta tornata, ho trovato la risposta: ne vale sempre la pena. Perché le emozioni di quei 42,195 km non hanno eguali e so già che, se dovessi assistervi alla tv, lo farei con il magone – come accadde l’anno scorso. Inoltre, stavolta ho saldato un conto ma ne ho aperto uno diverso: devo rientrare nella classifica delle top 100!
1 commento:
Me lo hai fatto venire a me il magone...bellissimo racconto e hai aperto una gran bella sfida!
Ricorda che il tuo tempo comuque e' da sogno!
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