domenica 9 ottobre 2011

Zena, Savigno e dintorni

Il lungo è un’esperienza mistica: un confuso monologo interiore scandito da ritmo del respiro, un flusso di (in)coscienza che affastella immagini, pensieri, sensazioni. C’è sempre un po’ di apprensione nell’approccio: l’impresa richiede un notevole impegno di forze fisiche e mentali la cui gestione non ha nulla di scontato. La compagnia può aiutare, c’è chi non può farne a meno. Non io. Questione di abitudine, o di indole – certe bestiacce o si sa come prenderle, o meglio lasciarle perdere. Oggi mi lascio perdere. E lascio perdere anche gli scaffali da svuotare e le scatole da riempire: a Jader l’incombenza. Stamattina va così. E non è che la cosa mi entusiasmi. Con tutto quello che c’è da fare, penso solo a correre: e mentre corro, penso a tutto quello che c’è da fare. Parto malissimo. Fatico a carburare e mi sento immediatamente fuori giri: con queste premesse, dove credo di andare? C’è vento, ovviamente contrario. Se sforo anche solo di un secondo mi altero, così rischio di scoppiare subito. Non va, non dovrei essere qui, non avrei nemmeno dovuto iscrivermi: come si può pensare ad una maratona, nel bel mezzo di un trasloco? Smettila, e vai forte! Se non ci fossi tu… Beh, a dire il vero oggi manchi davvero. Anzi, è in assoluto la prima volta che non mi segui in un lunghissimo. Già ti sento: Come è andata? La mia risposta può essere una sola, e devo portartela a casa con entusiasmo.
Le gambe cominciano a sciogliersi. Chissà, forse ci voleva la salita per risvegliarle. Questo è il tratto più impegnativo, fino al giro di boa c’è parecchio da faticare. Ma è come se fossi spinta da nuova energia. Succede, nel lungo. All’inizio si arranca, si vorrebbe avanzare subito a perfetta andatura, ma la partenza repentina non lo consente. È che, in prospettiva di tanti chilometri,  il riscaldamento diventa un optional. Come in rodaggio, si sbuffa per un buon tratto. Fino al varco. Non ha una linea ben definita, né è segnalato con preavviso: inaspettatamente, ti accorgi che stai correndo in scioltezza, senza curarti d’altro. Come in trance. La sfida diventa allora mantenere questo stato di grazia fino alla fine. Ecco Zena: dietrofront! Adesso è più facile, si frulla che è un piacere. Superate le salite più dure, mancano “solo” dodici chilometri, dolcemente ondulati. Sto correndo troppo bene, mi aspetto il botto da un momento all’altro. Arriverà in prossimità del cartello 5, non so perché ma lì inizia per me il tratto più ostico. Eccolo. Non succede nulla... Passo il 4, ancora tutto bene. Vedo il 3, e penso che ormai è fatta. Al 2 prendo la rincorsa, adesso c’è quella salita che mi stronca. L’1 è passato, avanti a tutta!


 
Fossi arrivata con questa spinta anche alla fine della Bologna-Savigno, domenica scorsa. Quel giorno la mia tabella prevedeva 30 km, la gara cadeva quindi a fagiolo. Ovviamente, lungi da me l' intenzione di svolgerla tranquillamente, come un qualsiasi allenamento. Impensabile: quando attacco il pettorale, scatta la molla della competizione, soprattutto se un buon piazzamento è alla mia portata.
Assaporo l’ebbrezza della prima posizione fino al sesto chilometro, quando un Ciao bella infrange i miei sogni di gloria. Come ipotizzato, ecco l’outsider che rompe le uova nel paniere. L’avessi vista alla partenza, non mi sarei illusa. Invece la forte atleta modenese che conobbi due anni fa alle Eolie (e che miracolosamente precedetti a Lucca, il mese scorso), sbuca all’improvviso, saluta e se ne va. Pazienza, cerchiamo almeno di mantenere un distacco dignitoso. Percorso infame, questo: sempre a corda tesa, finché ti abbatte definitivamente verso il venticinquesimo chilometro. Dalla regia mi avvisano che chi mi precede ha percorso l’intera salita camminando, alle prese coi crampi: potrei quindi avere qualche speranza. Mi impongo di continuare a correre, anche se l'andatura non differisce molto dal camminare svelto. È però una questione mentale: se cedo alla pendenza, mi sento sconfitta. Insisto a sfidarlo, questo Mongiorgio, ma lui è più forte di me. A poco serve, infatti, lasciarsi andare in picchiata, dopo un chilometro di agonia: al termine della discesa, sono piantata. Avverto anche un vago senso di nausea. Arriverò alla fine? Già mi vedo calpestata da tutto il mondo podistico che ho alle spalle. Cerco disperatamente immagini positive dentro di me, ma nulla riesce a liberarmi dal piombo che ho nelle gambe. Come rovinare, in soli tre chilometri, una prestazione fino a quel punto discreta... È vero, doveva essere solo un allenamento e, in quanto tale, è stato svolto alla grande. Quel finale così sofferto, però, lascia un pessimo sapore: devo addentare al più presto qualcosa di più gustoso.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

"Con tutto quello che c’è da fare, penso solo a correre: e mentre corro, penso a tutto quello che c’è da fare. Parto malissimo. Fatico a carburare e mi sento immediatamente fuori giri: con queste premesse, dove credo di andare? C’è vento, ovviamente contrario. Se sforo anche solo di un secondo mi altero, così rischio di scoppiare subito. Non va, non dovrei essere qui, non avrei nemmeno dovuto iscrivermi.."
in queste parole mi ritrovo. mi è capitato spesso di partecipare a delle gare con la testa da un'altra parte, o dopo un periodo di allenamenti saltati, vita disordinata, ecc. sono sempre scoppiata dopo pochi km. e ogni volta mi sono chiesta: "quanto c'era di 'testa', e quanto di 'corpo', in questo fallimento?". diversamente da me, però, tu non hai mollato, e non hai motivo di sentirti delusa, perché hai portato il corpo esattamente dove poteva arrivare, non un metro di meno. vorrei insegnare al mio cervello a non remare contro :)
Chiara

nino ha detto...

è proprio un piacere leggere i tuoi post. molto belli. e complimenti

Valentina ha detto...

@ Chiara: Sono anni che cerco di "allenare" il mio cervello, ma raramente risponde come vorrei.

@ Nino: Grazie e... In bocca al lupo ;-)

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