giovedì 6 maggio 2010

La macchia umana di Philip Roth


Fatto stranissimo, in ufficio, incontrare un collega con un libro in mano. Non resistendo alla curiosità, sbircio spudoratamente per individuare il titolo: La macchia umana di Philip Roth.
- Lo vuoi? Io non riesco a leggerlo.
Non ho nessuna confidenza con il tipo, resto alquanto interdetta. Non accetto libri in prestito, preciso, ho la necessità di “possedere” ciò che leggo.
- Te lo regalo.
Ma come? Scherzi? Vabbè…se insisti. Un libro non si può proprio rifiutare.
Questo romanzo, poi, era nell’elenco delle dieci migliori opere dell’ultimo decennio, recentemente pubblicato da Repubblica. E da tempo si trovava nella mia lista dei desideri: da quando, cioè, vidi il film che ne fu tratto, interpretato dai magnifici Anthony Hopkins e Nicole Kidman.
Già dalla prima pagina mi rendo conto di essere al cospetto di un mostro di scrittura, e mi chiedo perché abbia aspettato tanto per approcciare questo autore. Le parole che delineano i profili di ambienti e soggetti danno vita a descrizioni che brillano per limpidezza e originalità. E’ vero che ho un debole per le frasi costruite ad arte, ma sono rari i casi in cui rimango letteralmente incantata dallo stile di scrittura: questo è uno di quei casi. Quando poi, oltre alla bella pagina, colgo riflessioni di sconcertante profondità espresse con toni sottili, che venano di sarcasmo drammi sociali ed individuali, il mio rapimento diventa totale. Personaggi complessi, di fatto imperscrutabili eppure scavati spietatamente nel groviglio della loro personalità: psicologie intricate, che non concedono spazio alla banalità. Nulla è scontato, nessun evento è prevedibile, se non ciò che espressamente anticipa l’autore. È un mondo cupo, quello narrato da Roth: non per niente, è proprio sull’ambiguità del colore che si intrecciano le vicende di personaggi che, per intenzione o per disgrazia, escono dagli schemi e sfregiano le convenzioni.
Il film, che comunque vorrò rivedere, non trasmette tutta la ricchezza di contenuti di questo superlativo romanzo, che pongo al vertice della mia personale classifica. Evidentemente, il mio è un giudizio del tutto soggettivo, visto che qualcuno non ha esitato a liberarsi del libro: mi spiace per lui, ma io ci ho guadagnato tantissimo.

lunedì 3 maggio 2010

Padova - Maratona di S. Antonio

A posteriori, una volta placato lo stato di alterazione, tutto viene inquadrato in una diversa prospettiva. Così, ciò che era appena stato vissuto come un interminabile calvario, assume presto il valore di un dissennato fallimento. E, per farsi ulteriormente del male, basta dare un’occhiata alla classifica: giusto per constatare che, stringendo un po’ i denti, magari ci si poteva aggiudicare un piccolo premio.
Il fatto è che quando la mente decide di interrompere le connessioni con il resto del corpo, raccomandazioni, progetti e ambizioni cambiano registro: si distaccano da noi e si convertono in una sorta di linguaggio sconosciuto. Cominciamo ad oscillare tra uno stato di lucidità, certi di poter dare fondo a tutte le nostre riserve di energia, ed un annebbiamento totale che genera dolori e incubi. I più determinati sanno gestire il demone, stimolati da forza e motivazione. Ma se solo uno di questi fattori langue, non c’è santo che tenga. Nemmeno S. Antonio.
Bisogna ammetterlo: quello di Padova è stato un disastro annunciato. Non mi era mai capitato di vivere con tanta pesantezza la preparazione di una maratona, mai avevo provato una simile indolenza: io, che non sapevo cosa significasse correre controvoglia, ultimamente dovevo schiaffeggiarmi per convincere me stessa ad allacciare le scarpette e uscire di casa. Nessun problema fisico, metabolico o strutturale. Solo una mole di preoccupazioni che non pensavo avrebbero potuto investirmi con tanta forza. Parlare della crisi economica è ormai un luogo comune. Viverla sulla propria pelle è decisamente un’altra storia. La paura fa brutti scherzi, il senso di impotenza azzera gli entusiasmi, l’ansia accorcia il fiato.
Una grande passione, però, non può smorzarsi di colpo. Cascasse il mondo. Quando l’impulso della corsa fluisce nelle vene e alimenta i palpiti vitali, rinunciare a correre è come rinunciare a respirare.
Così ho tenuto fede al mio programma. O meglio: le gambe hanno seguito il percorso tracciato, mentre la testa è rimasta leggermente più indietro. La logica, lo stato delle cose, la cruda razionalità mi suggerivano di rinunciare; coscienza, sentimento, e testardaggine mi spronavano ad andare fino in fondo. Del resto, perché vanificare tanti allenamenti sfiancanti? Tutte le sedute svolte al limite della sopportazione fisica tra neve, gelo e bufere: solo fatica sprecata? Sapevo che non dovevo azzardarmi nell’avventura di una maratona primaverile, ma ormai avevo dato tutto: era quindi necessario riconoscere un senso a tanto impegno. Comunque potesse andare.
Bizzarra coincidenza: la domenica della maratona cadeva proprio nel giorno dedicato alla ricorrenza della Liberazione. Era così che percepivo l’evento: tanto avevo penato, che volevo solo liberarmi dal pensiero. Consapevole che non potevo aspettarmi nulla, coltivavo in realtà nel mio profondo la speranza che proprio questo senso di distacco avrebbe potuto risultare favorevole: priva di obiettivi precisi, affrancata da qualsiasi ansia da prestazione, senza un risultato a cui ambire, sarei magari riuscita a correre più serenamente del solito e, chissà, sorprendermi della mia prestazione. Le solite intermittenze del cuore: una parte di me si apprestava a correre per senso del dovere, l’altra sognava di essere rapita dalla trance agonistica.
Arriva così il 25 aprile. Come mi sento? Non lo so. Normale, si può dire? E’ una bella giornata, l’area di partenza è sufficientemente confortevole, nessun intoppo o imprevisto. Perfetto, no?
Evidentemente no. Il primo boicottaggio lo ricevo dal mio crono: al primo km, nel rilevare l’intertempo, mi accorgo che allo sparo non l’ avevo avviato correttamente. Poco male, certo, ma sempre una scocciatura. Fortunatamente riesco ad unirmi ad un paio di podisti che viaggiano ad un ritmo a me consono, sono in ottima compagnia e questo mi aiuta. Supero la mezza maratona e comincio a pensare che ne manca altrettanta: l’idea mi infastidisce, inizio ad avvertire come un senso di noia. Non si tratta di stanchezza fisica, non è un calo energetico bensì un vuoto di motivazione. Mi vedo dal di fuori e mi chiedo dove abbia intenzione di andare. Terribile. Così come terribile diventa la sete. Non ricordo di avere mai sofferto tanta arsura in gara, io che solitamente devo sforzarmi per bere almeno un sorso d’acqua ai ristori. Stavolta, invece, mi sono addirittura fermata per scolarmi una bottiglietta intera. Sono al 25° chilometro: da qui ha inizio il mio calvario. So bene che, una volta interrotto il flusso della corsa, riprenderlo è pressoché impossibile. Ci provo, voglio crederci, la crisi di un attimo poi si riparte alla grande. Certo. Per un altro chilometro o poco più. Finché anche mille metri diventano una distanza impossibile. Ecco che si presentano doloretti vari: l’allacciatura della scarpa fastidiosa, la fitta al fianco, la rigidità della solita gamba. L’arrivo è lontano anni luce, vorrei chiudere gli occhi e svegliarmi quando tutto sarà finito. Tagliare il traguardo strisciando, che senso ha? È vero che non avevo ambizioni, contavo però di giungere al termine correndo, non barcollando. Continuo a procedere ad elastico, qualche passo di corsa e tanti di cammino. Corricchio e cammino, e come me un’infinità di altri podisti. Una vera strage. Così arrancando, sono ormai al 37°. Quasi arrivata. Peccato per quel “quasi”. La maratona per me è già finita almeno 10 chilometri fa, sto procedendo per inerzia solo perché non posso fare diversamente. Ma mi sento ormai abbattuta, finita, rassegnata. Tanto che il pullman scopa che transita lentamente mi appare come un’oasi nel deserto: non so resistere, ci salto sopra senza esitazione.
Lo sguardo di Jader, che stava aspettando da troppo tempo e non mi ha visto arrivare, mi trafigge. In realtà esprime solo estrema preoccupazione, allarmato dall’incessante viavai di ambulanze che rievoca brutti ricordi. Io però vi leggo delusione, per non dire rabbia: la mia percezione è distorta, a causa dell’avvilimento e del rammarico che già mi assale. Sono trascorsi appena pochi minuti, e già mi mangio le mani. Non ho saputo gestire la sofferenza, non ho mostrato grinta né tenacia. Non mi sono comportata da maratoneta. Ora lo posso dire, e potrei continuare ad infierire ancora e ancora.
Ma quando le gambe tentavano disperatamente di condurmi a Padova, la testa vagava in tutt’altra direzione. Questo è quanto. Il capitolo e chiuso e ora si volta pagina.
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