mercoledì 19 novembre 2008

la valle dei conigli


Amo la nostra campagna. Trovo distensivo quel paesaggio piatto e monotono, ha qualcosa di rassicurante: non nasconde nulla, nulla sembra possa cambiare, nessuna insidia e alcuno ostacolo. Certo, chi cerca emozioni forti predilige la rude imponenza della montagna, oppure la profonda inquietudine del mare. Io invece sono per la dolcezza e la morbidezza: delle infinite distese dei campi e delle colline che, più il là, li incorniciano.
Mi lascio incantare facilmente: da una luce che dia particolare risalto al calore dei colori, da una patina di nebbia che renda spettrali le ombre degli alberi, o ancora da una carezza di brina che accenda di bagliori i fili d’erba. Più di ogni altra cosa, però, mi entusiasma l’incontro con qualsiasi specie animale. Gazze, fagiani e cornacchie sono ormai compagni abituali delle mie sedute di allenamento, ma il volo dell’airone o la sua sagoma immobile riescono ancora a lasciarmi a bocca aperta. Per non parlare dell’avvistamento di un istrice, quella notte di agosto che ancora ricordiamo come un evento storico. Ultimamente, poi, tornando dalle riunioni ad Argelato, ho scoperto un luogo magico, una sorta di “valle dei conigli”. Completata una delle innumerevoli curve della stretta strada di campagna, i fari dell’auto hanno infatti illuminato un festoso ritrovo di lepri: saltellavano allegri nel campo, tra i fossi, in prossimità delle case. Un vero e proprio ritrovo notturno di questi teneri “orecchioni”. E io, come una bambina impazzita, a gridare eccone un altro, un altro là, anche lì uno! Vorrei correre in mezzo a loro, vorrei che si lasciassero avvicinare, toccare, trastullare; vorrei accarezzare la loro testina guardandoli negli occhi, come faccio con le mie micie, e giocare teneramente con le loro lunghe orecchie.
Questi sono attimi di autentica felicità. Del resto, la felicità è fatta di momenti: una parola, un gesto, un’occorrenza che ti fanno sentire totalmente appagato, fosse anche per una frazione di minuto. Come quando Cleopatra mi salta sul grembo e appoggia il muso sul mio petto, godendosi ogni coccola. O come quando Nina si arrotola sul divano tra le mie gambe, usandole come cuscino. Lo pensai la notte del mio rientro da New York, quando per la prima volta sia Nina che Cleopatra dormirono con noi: felicità è avere due gatti sul letto.
Pochi potranno capire, ma che importa?

domenica 9 novembre 2008

New York 2008


Lo dissi la prima volta, nel 2002, e lo ripeto quest’anno: la maratona è l’unica cosa per la quale valga davvero la pena volare a New York. So che questa affermazione farà rizzare i capelli ai tanti innamorati dalla città. E neppure io voglio negare che le sue luci, i suoi contrasti, le sue enormità le forniscano un fascino del tutto particolare. Ma io non sono qui per fare la turista: principalmente, ciò che mi interessa è condurre una bella gara, quindi devo risparmiare le mie energie evitando di andare troppo a zonzo. A fare che, poi? Di shopping non se ne parla. Il mio compito di assistente, poi, non mi lascia troppo tempo libero, così i rischi sono ridotti.

Non mi resta quindi che lasciare trascorrere i giorni che precedono la gara in modo sereno, cercando di evitare gli effetti negativi di situazioni inevitabilmente stressanti.

Il mio rifugio è Starbucks. Adoro queste nicchie di aroma e di calore: mi basta farvi ingresso per sentirmi coccolata. Il cappuccino, qui, è superlativo – altro che quelle misere tazzine dei nostri bar, il più delle volte riempite con brodaglia appena tiepida. Mi siedo ad un tavolo con il mio bicchierone fumante e mi guardo attorno: relax allo stato puro. Chi legge un libro, chi sorride lambiccando il cellulare, chi fissa lo schermo di un pc; qualcuno chiacchiera, qualcun altro scrive, c’è anche chi osserva il passaggio frenetico sulla strada. Là fuori tutto corre, mentre qui dentro il tempo è dolce e morbido.

Tempo bizzarro e inaffidabile. Mi riferisco a quello atmosferico: freddo e inclemente il primo giorno, come un sarcastico benvenuto, tiepido e quasi afoso nei giorni successivi. Perfido inganno: la mattina della gara un vento gelido spazza le nostre miti aspettative. Fort Wadsworth appare più che mai come un campo profughi, una distesa di rifugiati tra cartoni e sacchi di nylon, alla disperata ricerca di un minimo riparo. Non ricordo attesa più lunga. Eppure non mi scoraggio: mi sento in forma, carica e determinata. Ho un conto in sospeso con questa maratona. Devo ancora digerire il ritiro del 2006. Certo, nulla potrà cancellare quella delusione, amplificata dal fatto che c’era Jader ad attendermi invano all’arrivo. Ma è anche per rendere ad entrambi meno doloroso quel ricordo che oggi dovrò dare tutta me stessa.

Parto col sorriso, e pazienza se il vento, sul Ponte di Verrazzano, tende a spostarmi. Ci sarà modo di recuperare. Appena giunta tra le ali di folla, mi faccio spingere dall’incitamento. Go Vale, go! Che effetto pazzesco queste parole! Il mio nome urlato in decine di accenti diversi, per 42 chilometri. Solo qui posso godere di una simile emozione, solo su queste strade si può vivere l’illusione di essere campioni degni di un tifo assordante.

Al trentesimo chilometro faccio un rapido calcolo che mi fa esultare: sto andando alla grande.

Peccato che di lì a poco qualcosa si spenga. Non una crisi improvvisa e infernale, niente a che vedere con quel muro che blocca gambe, fiato e pensiero. Semplicemente mi rendo conto che sto rallentando. Qualche allungo mi riesce ancora, ma di fatto il tempo si sta dilatando oltre ogni previsione: le ultime tre miglia sono eterne, i due chilometri finali un calvario. A malapena riesco ad alzare le braccia all’arrivo. Esultare per cosa? Il risultato è peggiore delle peggiori ipotesi.

E adesso? Adesso ritorno sui come e sui perché, senza trovare ragioni sufficienti a spiegare questa scarsissima prestazione – che si aggiunge alle tante precedenti. Il primo pensiero è di lasciare perdere tutto. Ma l’idea di rassegnarmi non mi va proprio giù. Non ancora. Non ho ancora sbattuto sufficientemente la testa per convincermi a desistere. Voglio credere che posso ancora farcela. Ce la devo fare! Archivio dunque un miserissimo 3:11:20 e mi carico per la prossima sfida.

Non so se tornerò a New York. In quei lunghi giorni privi di stimoli mi chiedevo se ne valesse ancora la pena. Una volta tornata, ho trovato la risposta: ne vale sempre la pena. Perché le emozioni di quei 42,195 km non hanno eguali e so già che, se dovessi assistervi alla tv, lo farei con il magone – come accadde l’anno scorso. Inoltre, stavolta ho saldato un conto ma ne ho aperto uno diverso: devo rientrare nella classifica delle top 100!

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